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Chi controlla il passato controlla il futuro; chi controlla il presente controlla il passato

George Orwell
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Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
Di Manlio  10/03/2010, in Attualità (2891 letture)
Sembra riservare molte sorprese questa apparentemente normale vicenda che per reato di ricliclaggio ha portato all’arresto dell’ex Senatore Di Girolamo e dell’imprenditore Gennaro Mokbel.
Adesso un articolo del Corriere della Sera >leggi< rivela che la sorella Lucia (>vedi post precedente<) avrebbe sposato niente di meno che il figlio di Michele Finocchi, ex capo di Gabinetto del SISDE (fino al 1991) coinvolto nell’inchiesta sui fondi neri quando amministratore del servizio era Maurizio Broccoletti. Nel 1993, dopo una rapida e brillante carriera che lo portò alla direzione dei servizi civili del Viminale, si rese latitante.

Un forte legame stringe quindi i Mokbel al servizio civile, oltre che alla banda della Magliana ed al terrorismo di estrema destra.


Nello stesso articolo, basato sulle intercettazioni telefoniche che i ROS effettuarono nei confronti di Gennaro Mokbel durante le indagini, l’imprenditore si vantava di essere in procinto di ricevere un’elevata onorificenza massonica: il trentatreesimo grado della Loggia di Palazzo Giustiniani.
Il Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia, Gustavo Raffi ha subito smentito la frequentazione di Gennaro Mokbel alla sua Loggia («Respingiamo con fermezza qualsiasi riferimento che colleghi Gennaro Mokbel alla massoneria di Palazzo Giustiniani: nel nostro tempio non c'è posto per gente del genere»)

Altro >scoop< degno di nota lo fa il settimanale A diretto da Maria Latella. Un ex compagno di scuola avrebbe definito Gennaro Mokbel un “ladro di merendine” che rubava la colazione ai cocchi di mamma per poi sfidarli ad andarsela a riprendere. Un bullo, una specie di ras del quartiere che una volta chiuse la professoressa sul balcone dopo averla legata a una sedia.

Io dico che la storia non è finita e se si avrà il coraggio di andare avanti ne potremo vedere delle belle. Ma sino a quando si avrà il coraggio di osare?
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Con gli arresti dello scorso 23 febbraio, è venuta alla luce una maxi truffa legata al riciclaggio che ha visto coinvolte importanti società di TLC, imprenditori e politici. Una truffa architettata attraverso società vuote che vendevano servizi telefonici inesistenti con la ''compiacenza'' di due big delle telecomunicazioni e che ha arrecato un danno di 365 milioni di euro allo Stato.
L'indagine ha fatto emergere anche il coinvolgimento della 'ndrangheta che avrebbe favorito elettorali a vantaggio di un senatore eletto nel 2008 dagli italiani all'estero. Il meccanismo ruotava attorno ad un imprenditore romano, tale Gennaro Mokbel che ha avuto trascorsi vicini all'estrema destra eversiva (è stato anche compagno di scuola di Francesca Mambro) e amicizie nellaBanda della Magliana.

Alcuni nomi e vie hanno uno stretto legame, a volte evidente molte altre più sottile, con importanti avvenimenti del passato. E se alla notizia della vicenda dell’ex governatore del Lazio Marrazzo a far sobbalzare fu la toponomastica (via Gradoli) in questa occasione è stato un nome, meglio un cognome, quel Mokbel che per chi si è occupato della vicenda Moro, non è possibile non ricollegare a quella Lucia Mokbel che abitava al civico 96 accanto all’interno 11 base operativa delle BR di Mario Moretti.

Il primo istinto è stato quello di approfondire le informazioni per cercare qualche filo, qualche piccola traccia che potesse ricondurre i due cognomi ad un qualche legame di parentela. Poi mi sono detto: “Sarà un caso, perché perdere quel già pochissimo tempo che riesco a dedicare a questi argomenti?”
Poi ieri il Corriere della Sera scrive un articolo nel quale è proprio l’avvocato di Gennaro Mokbel a confermare la parentela tra Lucia e Gennaro: fratelli.

Perché il nome di Lucia Mokbel riveste una certa importanza nel caso Moro? Per due motivi: il primo è che il 18 marzo avrebbe indicato ad alcuni agenti che si erano recati in via Gradoli per dei controlli che dall’interno 11 (dove era ubicata la base delle BR)  la notte precedente sentì dei segnali morse sospetti. Per questo consegnò nelle mani dei poliziotti un bigliettino pregandoli di farlo avere al commissario Elio Cioppa (il cui nome fu trovato tra gli iscritti della loggia P2) del quale la donna era amica. Quando incontrò il commissario Cioppa in un ristorante seppe che quel foglietto non gli era mai stato recapitato.
Il secondo motivo è la donna, in quel periodo, conviveva con Gianni Diana, anche questo un nome chiave nella vicenda.
Diana era un ragioniere che, per sue stesse parole, aveva “in uso l’appartamento all’interno 9” da circa un mese e mezzo due mesi (quindi da pochi giorni prima l’agguato di via Fani), era domiciliato in via Ximenes 21 presso lo studio del commercialista Galileo Bianchi e lavorava assieme ad un’altra inquilina di quello stabile, Sara Iannone. Bianchi, dopo soli 3 giorni dalla scoperta della base brigatista, diventò amministratore della società Monte Valle Verde srl, immobiliare proprietaria degli appartamenti di Diana e Iannone. Con l’inchiesta legata allo scandalo dei fondi neri del SISDE (e dell’ex direttore Maurizio Broccoletti) il giornalista Gian Paolo Pelizzaro scoprì che la Monte Valle Verde era una delle società riconducibili ai servizi segreti e che ben 24 dei 66 appartamenti delle due palazzine erano di proprietà di 3 società (tra cui la Monte Valle Verde) fiduciarie del SISDE. Anche se l’interno 11 che ospitava la base brigatista era di proprietà di un privato (l’ing. Ferrero, marito di Luciana Bozzi amica di Giuliana Conforto padrona di casa dell’appartamento di viale Giulio Cesare dove furono arrestati Valerio Morucci ed Adriana Faranda) una legittima coltre di ambiguità scese su quelle palazzine e su alcuni dei loro abitanti.

Ma non finisce qui.
Oggi si scopre che un filo lega l’imprenditore Gennaro Mokbel all’eversione di destra ed alla Banda della Magliana che, è bene ricordarlo, fu interessata dalla camorra nella ricerca della “prigione del popolo” di Aldo Moro. E la risposta che la Banda della Magliana fece avere al servizio segreto clandestino “Anello” fu: “cercate in via Gradoli”.

Ma non finisce neppure qui.
Il primo ad indicare agli investigatori via Gradoli fu il deputato della DC Benito Cazora, tra i pochi che si impegnò davvero a fondo nel tentativo di fornire informazioni utili per la liberazione di Moro. A fine marzo, infatti, fu portato da personaggi in contatto con la ‘ndrangheta proprio sulla Cassia nei pressi di via Gradoli. Chi lo accompagnava, giunto all’imbocco della via disse: “E’ questa la zona calda”. Cazora riferì in Questura l’informazione e gli fu risposto che sarebbero stati fatti dei controlli. Il giorno dopo Spinella chiamò Cazora per informarlo che le verifiche avevano dato esito negativo.
Sebbene siano tutti convinti che la perquisizione di cui parla Lucia Mokbel sia avvenuta il giorno 18 marzo, ritengo che se qualcosa è avvenuto in tale data, non possa trattarsi di quanto raccontato dalla Mokbel. Nel verbale del 18 aprile, poche ore dopo la scoperta del covo, la Mokbel parla di una perquisizione avvenuta circa 20 giorni prima. Ho rivisto alcuni filmati di quel 18 aprile e ben due testimoni, uno dei quali la signora Damiano (che diede l’allarme per l’acqua che si era infiltrata dal piano di sopra, l’abitazione di Moretti) parlano di controlli da parte di agenti in borghese avvenuti circa tre settimane prima. Controlli che avevano interessato tutti gli appartamenti dei due stabili.
Perché si da per assodato che i controlli avvennero il 18 marzo? L’interrogatorio congiunto Mokble-Diana avvenne in Questura alle 14.30. Alle 21.30, dopo poche ore, vi fu un secondo verbale reso al vice Questore aggiunto Nicola Simone del solo Diana nel quale egli retrodata il racconto della Mokbel al 18 marzo. Una svista? Non credo perché Diana fa esplicito riferimento a “un paio di giorni dopo il rapimento dell’Onorevole Moro”.

Cosa successe allora il 18 marzo?
Perché si tenta di far coincidere con quella data i controlli di cui ha parlato Lucia Mokbel?
I legami Servizi-Diana-Mokbel-Banda della Magliana sono del tutto causali, risalgono già al ’78 o sono successivi?

Non so se si tratta di domande superflue, dietrologiche o per le quali è stata già trovata una risposta.

Ma in un Paese dove i cittadini hanno smesso da tempo di porsi domande perché qualcuno fornisce preventivamente le risposte giuste, ho pensato che valesse la pena porsele. Non so voi...
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Di Manlio  05/02/2010, in Attualità (3254 letture)
Non ci posso credere, mi sembra davvero una notizia pretestuosa prendersela con la Rai per lo spostamento del reality "L'isola dei famosi" dall'Honduras al Nicaragua con la motivazione che quella nazione sarebbe rifugio di alcuni dei terroristi che negli anni '70 si macchiarono di efferati delitti (in particolare si citano Alessio Casimirri e Manlio Grillo).

Che c'entra l'Isola dei Famosi? Allora chiudiamo FaceBook visto che lo stesso Casimirri ha un profilo con molti amici


La foto di Alessio Casimirri sul suo profilo di FaceBook


Bene. Allora dichiariamo guerra alla Francia, a tutto l'est europeo, ma anche alla Germania, visto che aiuti alle formazioni di lotta armata italiane arrivavano anche dai "cugini" della RAF...

Davvero non capisco. O meglio. Capisco che questi argomenti siano una chiave per accedere ai media, ma mi meraviglia il fatto che chi sbandiera tanto stupore non si indigni più di tanto quando neanche 11 gradi di giudizio sono riusciti a dare alle vittime un colpevole per la bomba alla BNA del 12 dicembre 1969 o quando a quasi 40 anni di distanza si sta ancora celebrando il processo per la strage di Piazza della Loggia a Brescia (strage ancora impunita).

A tanti anni di distanza si dovrebbe reclamare la verità su quegli anni, la verità di chi non ha ancora parlato.

Nei giorni scorsi il presidente Berlusconi è stato in Israele portando l'amicizia del popolo italiano e annunciando al mondo il proprio desiderio di voler vedere Israele nell'Unione Europea.
Chi mi conosce sa come sia da me lontana l'idea di essere anti-semita e di come sia massimo il rispetto per le vittime di un Paese che ha visto tanti connazionali massacrati nell'Olocausto.
Ma Israele non è anche la nazione del Mossad? Ed i Mossad non ha avuto in Italia un ruolo importante negli anni '70?
Tanto per dirne una ha contattato le BR offrendo il proprio aiuto per far si che esse continuassero ad insanguinare l'Italia.  Franceschini ha dichiarato che la proposta fu rifiutata, ai suoi tempi. Chissà che in altri tempi un piccolo "aiutino" il Mossad non l'abbia dato ai rivoluzionari di estrema sinistra. E magari non solo alle BR.

Eppure non mi sembra che qualcuno abbia avuto il coraggio di alzare il ditino per sollevare qualche piccola obiezione al sogno berlusconiano. In questo caso vale il detto napoletano "chi ha avuto, chi ha dato, scordammoci 'o passato, simm 'e Napoli, paesà"
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Una bella intervista a Claudio Signorile, è stata pubblicata da Alessandro Forlani lo scorso 20 gennaio. Forlani è stato “supportato” dal collega Paolo Cucchiarelli e l’audio è disponibile sul sito di GR-Parlamento >scarica<

Sebbene alle parole dell’ex vice Segretario del PSI, protagonista politico della trattativa che, attraverso gli esponenti dell’Autonomia Lanfranco Pace e Franco Piperno, giunse ad un passo dal far si che le BR sospendessero l’esecuzione del loro prigioniero non abbiano trovato grande eco (ecco i due lanci ANSA diffusi proprio da Paolo Cucchiarelli >qui<) ritengo che Signorile abbia detto almeno tre cose assolutamente nuove e di grande importanza. Vediamole.



I giornalisti Alessandro Forlani e Paolo Cucchiarelli

Primo. Signorile ha precisato che il giorno 6 maggio aveva concordato con Amintore Fanfani che il presidente del Senato avrebbe dato dei segnali di apertura alla disponibilità di rompere il fronte della fermezza a favore di una trattativa umanitaria che, pur non comportando il cedimento dello Stato, avrebbe offerto alle BR un motivo per “sospendere” la loro sentenza di morte. Sentenza annunciata come prossima con il comunicato diffuso il 5 maggio, restato famoso per il gerundio “eseguendo la sentenza”. Signorile ha precisato che questa dichiarazione di Fanfani non avrebbe comportato la liberazione di Moro, ma sicuramente avrebbe permesso di fermarne l’uccisione ed aprire una nuova fase verso la liberazione. Il fatto nuovo sta nella considerazione di Signorile sulla reale possibilità delle forze dell’ordine di fare qualcosa di concreto verso la ricerca della prigione. “Avevo il telefono sotto controllo – racconta Signorile – ed ero pedinato; se avessero voluto utilizzare le informazioni raccolte, avrebbero potuto fare qualcosa”.

Secondo. La situazione non precipitò la mattina del 9 maggio ma la notte precedente. Questa considerazione apre ad una riflessione di non poco conto.
Sembrerebbe esserci un legame con le parole del terrorista Carlos nell’intervista rilasciata allo stesso Cucchiarelli nel giugno del 2008, successivamente confermate da Bassam Abu Sharif. Carlos sostenne che una fazione del Sismi preparò un ultimo, estremo tentativo di salvare Aldo Moro che prevedeva il trasferimento di alcuni brigatisti italiani dal carcere in un Paese Arabo. Carlos ritiene che l’operazione fallì forse per l’imprudenza di Bassam Abu Sharif che nell’agosto del 2008 confermò che avrebbe potuto salvare Moro ma non commise nessuna imprudenza: chiamò un numero “speciale” lasciando un messaggio dopo l'altro ma senza avere nessuna risposta.

Una annotazione, infine, sull’apertura di Fanfani. Se la sera dell’8 maggio la situazione era ben diversa e gli eventi precipitarono nel corso della notte, Fanfani non avrebbe avuto bisogno di annunciare, in sede di Consiglio Nazionale della DC la sua posizione di rottura nei confronti della fermezza. A maggior ragione se fosse stato al corrente della notizia del ritrovamento del corpo di Moro prima delle 11 del mattino.

(Intervista completa a Carlos >qui<) (Intervista completa a Bassam Abu Sharid >qui<)

Terzo. La notizia della morte nei palazzi del potere sarebbe arrivata molto prima del ritrovamento della R4 in via Caetani e l’uccisione di Moro non fu la conseguenza di qualcuno che “fregò” Cossiga. Forse di qualcuno più forte (o meglio attrezzato) che operava in contrasto con gli interessi con i quali si muoveva chi stava agendo per conto del Ministro dell’Interno, nel cercare una via per salvare la vita ad Aldo Moro. E questo vuol dire che una trattativa c’era, che qualcuno la sabotò e che il Governo era aggiornato costantemente dell’evolversi della situazione.
E se tanto mi dà tanto, chi sabotò la trattativa e contribuì in maniera determinante all’uccisione di Moro, fu diverso da chi, a livello internazionale, stava dando una mano al governo per giungere ad un esito positivo. Il governo fu probabilmente aiutato dagli alleati di sempre…

Dulcis in fundo una considerazione, parzialmente nota, riguardo l’operazione e l’autonomia delle BR. "Le BR rapirono moro in autonomia, secondo una loro logica, ma senza l'intenzione di ucciderlo: ne é prova il fatto che lo interrogassero a volto coperto. Dopo pochi giorni però il sequestro cambiò di significato, natura e quindi anche conclusione". E ancora: "Non credo che ci fosse bisogno di dare a Moretti l'ordine di agire, perché i brigatisti sapevano già cosa fare; certo c'erano delle persone sopra Moretti, che non sono mai state scoperte".
Una chiara chiamata di correità verso le forze ed i poteri internazionali. E, forse, un’allusione musicale?
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Quarant’anni sono tanti. Quarant’anni sono due generazioni. E due generazioni non sono state sufficienti a spiegare alle vittime della strage di Piazza Fontana chi le ha volute morte e per quale motivo. O meglio: il motivo si è sufficiente capito, soprattutto se inglobato nella dinamica complessiva degli eventi che ha caratterizzato il periodo comunemente noto come “strategia della tensione”.
Quello che manca alla verità, sono gli ultimi 100 metri. Chi ha messo la bomba alla BNA? Chi ha manovrato i fili di quegli ultimi minuti di un progetto che, politicamente e storicamente, appare ormai piuttosto chiaro?

La giustizia, dopo ben 11 gradi di giudizio, si è arresa: nessun colpevole. Condanne in primo grado, appelli ed assoluzioni definitive (per insufficienza di prove nel 1987) in terzo grado. Cioè passate in giudicato, senza ritorno. Come mai? Cosa è mancato agli inquirenti, alla magistratura, al Paese per capire e rispondere al desiderio di verità delle vittime?

Possibile che tanti libri, tante inchieste, tanto materiale giornalistico e investigativo non abbiano reso possibile mettere la parola fine su quegli ultimi 100 metri? Allora forse il problema è di natura metodologica?
Paolo Cucchiarelli, giornalista d’inchiesta dell’ANSA che ha già pubblicato nel 2005 un libro sulla strage assieme al collega Paolo Barbieri, ha provato a ricostruire quegli ultimi 100 metri mettendo insieme tutti i dati (soprattutto quelli mai rientrati nelle inchieste ufficiali spesso per volontà di insabbiamento) e ha fornito una ricostruzione che tiene insieme tutti i fili ed arriva ad una verità diversa rispetto al frullato di elementi discordanti che ha contribuito a creare disordine e allontanare dalla verità chiunque si sia avvicinato all’evento.

Ma di questa verità (per carità non una “verità assoluta” ma una verità in grado di “tenere sulle spalle” l’enorme peso delle carte) non si vuole parlare. Dopo la “puntata di Stato” dell’altra sera nel salotto di Porta a Porta, cui Cucchiarelli ha giustamente declinato l’invito perché non è una trasmissione televisiva il luogo adatto alla discussione serena e documentata di una verità, è ormai chiaro un dato incontrovertibile: la verità non la si riuscirà mai a trovare perché nessuno ha davvero interesse a trovarla. Fa comodo a tutti che resti un alone di oscurità in modo tale che ciascuno lo possa poi utilizzare all’occasione per nascondere il proprio passato o per attaccare l’avversario politico sul piano del suo passato storico. Tutti d’accordo: da Mieli a Penati, da La Russa allo stesso Vespa.

Se a questo aggiungiamo la particolarità tutta italiana dell’ideologia, vernice indelebile che copre le nostre coscienze, che impedisce a quasi tutti di affrontare con serenità i fatti che non collimano con le proprie idee (spesso appoggiate su fondamenta di sabbia) ecco spiegato l’atteggiamento con cui tutto il mondo politico, giornalistico e culturale ha accolto “Il segreto di piazza Fontana”: il silenzio. A parte alcune prese di posizione “a priori” di persone che nella maggior parte dei casi non avevano neanche letto il libro, un velo di silenzio è calato sull’immenso lavoro di Cucchiarelli.
Perché? Cui prodest? Segno che ciò che ha ricostruito Cucchiarelli è proprio quella verità indicibile che ha resistito a due generazioni?

Ho provato a chiederlo direttamente a lui in questa chiacchierata che vuole rappresentare un tributo di gratitudine verso quelle vittime che non hanno potuto essere consolate neanche da una seppur parziale verità giudiziaria e verso cui lo Stato appare sempre più propenso ad indirizzare miseri e cadenzati messaggi di pietà.

Piazza Fontana, la “madre di tutte le stragi”. Quarant’anni di depistaggi per coprire un segreto indicibile. Perché è riuscito a durare tanto e quanti anni ancora sarebbe durato?

Piazza Fontana è più un segreto politico che giudiziario. Gli elementi che rendevano intelligibile la vicenda sono stati “spazzati via” prima che la magistratura potesse intuire quale poteva essere la dinamica. Nella inchiesta c’e’e una parte, la quarta, che spiega quale compromesso al vertice dello Stato abbia impedito alla magistratura di muoversi da subito verso la pista nera, quella fascista. Si deve ad un pugno di coraggiosi magistrati, Stiz, Alessandrini, Fiasconaro, D’Ambrosio ( non però per quel che riguarda la vicenda Pinelli) se con il tempo l’Italia ha potuto capire che in questa vicenda la maggiore responsabilità, quella che determina e vuole i morti, è della destra. In Italia i segreti politici sono come una torta: tutte le forze in campo inclusi il PCI e la sinistra extraparlamentare, hanno una fetta che li vede protagonisti e questo fa sì che la torta resti intatta ed intoccabile. Per rompere questa situazione bisogna far “saltare la torta”, mettere mano a tutte le fette, compresa quella, dolorosa, di Valpreda e del suo essere caduto nella “trappola” che Stato e fascisti gli tesero. Questo è l’unico modo per poter arrivare, con certezza, ad individuare la reale responsabilità. Non esiste altra strada. Questo segreto è durato tanto perché prima di ora nessuno aveva lavorato a tutte le “facce” della storia cercando di capire cosa le tenesse assieme. Perché lo Stato ha processato assieme Valpreda e Freda e alla fine abbia deciso di mandare tutti assolti. Quella fu una scelta più “politica” che giudiziaria.

Quanti anni di lavoro hai impiegato per portare a termine la tua indagine? Quale la maggiore difficoltà incontrata? E quale, invece, la sorpresa più grande?

La mia indagine dalla “intuizione” iniziale, cioè la presenza del timer e della miccia nel salone della Bna e quindi dalla possibilità che due fossero le bombe, con un ben diverso grado di responsabilità, è durata circa 10 anni. Una intuizione è molto ma serve poco se non si sviluppa. Ricordo di averla a suo tempo comunicata al giudice Salvini che mi rispose “Per molto meno mi hanno massacrato”. Lui fece tutto quello che era in suo potere per seguirla. Ricordo che mi permise di incontrare a Salò (l’ho saputo poco tempo fa dove era stato) Carlo Digilio per fargli questa domanda: ma non c’erano per caso due bombe? (ne parlo nel libro). La logica giudiziaria e ben diversa da quella che può mettere assieme un giornalista che ha una grande forza poco sfruttata : può utilizzare liberamente, combinandole in tute le varianti possibile, tutte quelle singole “verità” in cui in Italia si trovano scomposte le vicende più importanti. E’ parlo della verità giudiziaria, di quella politica, di quella storica, di quella dei singoli protagonisti ecc. ecc. Se il magistrato non trova nessuno che confermi quell’elemento non va avanti ed essendo questo il “segreto” che tutto teneva nessuno poteva all’epoca confermarlo. Ho quindi iniziato una richiesta e la vera sorpresa e’ che man mano che andava avanti i singoli elementi del “mistero” si andavano quasi da soli a collocarsi nella casella giusta. Gli investigatori lo chiamano la “convergenza del molteplice”. Quando ho scoperto che il perito che per primo indagò nella Bna aveva detto da subito che c’erano timer e miccia e che due erano le borse direttamente coinvolte nell’inchiesta ho preso di lena ad indagare, a raccogliere elementi a leggere tutto e ad incrociare le novità accorgendomi che c’erano delle cose, degli oggetti, che da subito erano stati sottratti alla vicenda giudiziaria. Li ho reimmessi nella storia e questa ha cominciato a “girare” in ben altro modo. Ancor maggiore è stato lo stupore quando ho cominciato a capire che tutta la storia era “doppia” visto che io sono uno dei sostenitori in Italia dello “Stato parallelo”. Ancor più quando gli anarchici parlarono da subito di altre bombe previste il 12 dicembre e quando mi sono accorto che anche Alessandrini si era posto la stessa mia domanda: ma non è che due erano le bombe esplose alla Bna secondo il più classico degli schemi operativi utilizzato dai servizi segreti. Quando ho visto una copertina di Epoca del gennaio 1970 che appaiava Valpreda ad Oswald e quando ho constatato che l’ultimo processo era fallito proprio sul fatto di non aver considerato che le bombe in mano ai fascisti non erano quelle che erano “ufficialmente” scoppiate ma quelle che servivano per il “raddoppio” non mi sono più fermato. Dalla prima intuizione al libro sono passati 10 anni. Ho fatto tante altre cose ma non ho mai mollato questa storia e le relative ricerche che non sono state facili. Ho fatto tutto da solo, parlando con pochissime persone.

La tua inchiesta potrà essere la parola definitiva a ciò che ci interessa sapere sulla strage e sul ruolo giocato dai diversi attori, o diventerà un nuovo tentativo di avvicinarsi alla verità senza aggiungere molto di più a quanto già non si sappia?

Credo che si sia tolto il “tappo” che impediva di fare il “salto di qualità” nella interpretazione dei fatti. Credo che altro possa arrivare. Lo spero.

“Il segreto di piazza Fontana”. Chi sono i protagonisti di questo segreto? Quali apparati, soggetti, gruppi hanno avuto un ruolo nel segreto e nel mantenerlo?

A livello politico un po’ tutti. Segnalo il paragrafo sulla presenza di uomini de l’Anello nella vicenda. Sono loro che sovrintendono nel controllo degli anarchici, loro che fanno da “scorta” a Ventura quando consegna agli anarchici le “bombe in più”, loro uomini sono operativi a Padova, indagano sulla morte di Feltrinelli e su quella di Calabresi. Rinvio per chi volesse approfondire al volume “L’Anello della repubblica” di Stefania Limiti.

Potrà apparire paradossale, ma più che un punto di arrivo questa tua inchiesta potrà essere un punto di partenza che potrà fornirci nuove chiavi di lettura su quegli anni. Cosa ti aspetti di nuovo dopo l’uscita del tuo lavoro?

Mi aspetto un “ricasco” anche in sede giudiziaria e che qualcuno si senta finalmente libero di parlare, anche a sinistra, il settore politico che più ha pagato per questo segreto. Il settore politico cui appartengo.

Un lavoro come il tuo (700 pagine di pura inchiesta) in Italia non si era mai visto e su un argomento come la strage di piazza Fontana era, francamente, impensabile che si potesse fare. Cosa ha impedito che, in passato, un giornalista potesse condurre un’indagine simile?

Non lo so. Io non ho lavorato “a scenario”. Ho indagato come se la strage fosse avvenuta il giorno prima. Ho utilizzato un mio metodo di ricerca che sfrutta tutte le interpretazioni: quella deduttiva, induttiva, il riscontro, la lettura sintomale ecc. Un metodo che da due anni insegno, con soddisfazione al master in giornalismo investigativo promosso dall’Agi a Milano e che ora inizierà anche a Roma. Un metodo che mi ha permesso di “estrarre” tante novità da una storia che sembrava ormai chiusa, definitiva, morta.

Tanti hanno scritto e hanno detto su piazza Fontana, senza però mai giungere a smascherare colpevoli e mandanti. Per limiti storici o di metodo?

Ci vuole apertura mentale, metodo e voglia di addentrasi in luoghi dove non vi sono “mappe” di alcun tipo. Un lavoro molto faticoso, che procura grandi stress, molti dubbi e una sorta di “spaesamento”. Se si lavora con rispetto dei dati questi , alla fine, “parlano”. Garantito.

Perché inquirenti e magistrati non sono riusciti a giungere alla verità nonostante 40 anni e 11 gradi di giudizio?

Perché la verità giudiziaria è solo una delle verità e i metodi per arrivarci possono essere facilmente manipolati o condizionati.

Piazza Fontana, Pinelli, Calabresi. Tanti morti un unico segreto. Possiamo adesso affermarlo con chiarezza?

Il segreto della strage e’ una sorta di ‘matrioska’ che ha al suo interno anche la morte di Pinelli e , probabilmente, almeno una percentuale della morte di Calabresi. Io ho cercato di raccontarlo e dimostrarlo. Tocca ai lettori dire se ci sono riuscito.

Pensi che il “segreto” che è stato alla base della mancata verità su piazza Fontana sia in qualche modo collegato anche ad altri eventi tragici di cui ancora oggi sappiamo poco?

Si. Il modulo usato può essere stato ripetuto come anche l’utilizzo dell’esplosivo che era in mano ai fascisti, un plastico jugoslavo che aveva Ventura, avevano i fascisti veneti e aveva il giro dei fascisti implicati nella strage di Brescia.

Da chi ti aspetti maggiori resistenze ad accettare il tuo lavoro?

Da una certa sinistra. Gli attacchi ci sono già stati. Altri ci saranno. La migliore risposta è una spassionata lettura del libro che risponde a tutte le critiche che finora sono state avanzate.

Cosa ti aspetti dai familiari delle vittime? Secondo te, cosa cambierà nella loro percezione dei fatti?

Dall’avvocato delle vittime, Silicato, e dai familiari delle stesse, presenti alla presentazione fatta nel salone della Bna il 28 maggio, sono venute parole di grande apprezzamento. Elogi e valutazioni positive sulla serietà, sul rigore del lavoro.

Il libro ha avuto un lancio “a sorpresa” sul mercato. Si è saputo qualcosa solo il giorno prima e nella conferenza stampa di presentazione del 27 maggio le risultanze del tuo lavoro sono state solo “sintetizzate”. Le successive recensioni hanno mosso forti critiche alle tesi emerse dall’inchiesta ma senza che nessun dubbioso avesse letto il libro. Un pregiudizio politico prima ancora che di merito. Come te lo spieghi?

Sono le resistenze di chi teme che il mio libro dica una verità politicamente imbarazzante

La trappola agli anarchici era stata preparata nel tempo e confezionata alla perfezione (addirittura prestando attenzione alle borse che avrebbero dovuto esplodere e non, al loro contenuto, ai piccoli depistaggi, ecc). Il tutto fa pensare ad una mente molto raffinata, uno stratega del terrore di alto livello. Se questo è verosimile, lo scenario che si prefigura dentro e attorno allo Stato ed alle sue istituzioni è allarmante. In quale Stato abbiamo vissuto? E, soprattutto: quello attuale quanto è realmente diverso?

Uno Stato parallelo. Il libro lo dimostra. Due bombe, due taxi, due ferrovieri, due armieri del gruppo ordinovista, due “Valpreda”. Cosa è questo se non il modulo operativo di quello Stato parallelo a cui io e Aldo Giannuli abbiamo dedicato un fortunato libro 10 anni fa?
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Mercoledi 2 dicembre, alle ore alle ore 15.30 presso la Sala del Mappamondo della Camera dei Deputati (accesso libero con ingresso da Via della Missione 4) si terra' la presentazione del libro di Paolo Cucchiarelli ''Il segreto di Piazza Fontana'' >Scarica locandina<.

"Il segreto di Piazza Fontana" non è un libro qualsiasi. Uscito nel mese di maggio, è stato destinato ad un trattamento a dir poco particolare, per un'opera del genere.
Paolo Cucchiarelli ci ha messo dieci anni per raccogliere tutto il materiale che era stato dimenticato (o volutamente cancellato) dai processi, ha faticato molto nel dare una logica a tutto ciò che agli altri studiosi è sfuggito ed è arrivato a delle conclusioni perfettamente coerenti con tutti i fatti che ha messo in fila. Una conclusione priva di ideologie, obiettiva e che incastra perfettamente tutti i dettagli che egli ben descrive nel testo.

Quale è stata la reazione degli esperti, dei politici, degli storici e dell'opinione pubblica in generale? Ci si sarebbe aspettato un dialogo, un contrapporsi di visioni sulle conclusioni, insomma un confronto. Invece, nulla. Il silenzio.

Eppure non si è sempre detto che quella di Piazza Fontana è stata la strage che ha cambiato per sempre le nostre vite? Non si evoca sempre la verità storica e politica? Non si resta scandalizzati di fronte ad 11 gradi di giudizio che non hanno saputo attribuire nomi e cognomi a mandanti ed esecutori?

A quanto pare no. O meglio. Dipende da che parte tira il vento. Se si scopre qualcosa che conviene, che fa comodo alle carriere ed alle tesi dei padroni di turno (della politica, dell'informazione, della cultura, ecc.) allora se ne può parlare. Ma se emerge qualcosa di "dissonante", stop.

Questa estate vi è stato addirittura un tentativo di raccogliere firme per screditare il lavoro di Cucchiarelli. Tentativo per fortuna naufragato perchè gli anni d'oro degli "appelli contro" che trovavano facile cassa di risonanza in una classe intellettuale ancora acerba a certe logiche, sono probabilmente chiusi.
Ma certi personaggi sembrerebbe non se ne siano resi conto...

Ecco allora che, avendo casualmente saputo di questa presentazione, oltretutto in un luogo istituzionale importante (Camera dei Deputati, sala Aldo Moro) ho ritenuto opportuno superare il muro del silenzio cui tutti i blog che si occupano di questi argomenti sembrano aver eretto nei confronti di questo libro.

Per cui invito tutti coloro che ne hanno la possibilità, a recarsi alla presentazione, a fare domande e stimolare il dibattito. Credo che soprattutto chi ha aspramento criticato le tesi di Cucchiarelli, spesso senza neanche aver letto il suo lavoro, abbia il dovere morale di essere presente ed avere il coraggio di confrontarsi con i presenti.

Nessuna inchiesta è perfetta, intendiamoci. Ma quando un lavoro offre poco alle critiche e non si è all'altezza di controbattere, non resta che contestarne a priori le tesi. E se ci si riesce a mettere dentro anche un bell'insatata mista di ideologia politica e difesa del potere, è anche meglio.


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Sul numero in edicola oggi il settimanale L'Espresso ha pubblicato, un po' alla chetichella, per dire il vero, una notizia che appare molto importante.
Forse il poco spazio e l'essenzialità del trafiletto sono dovuti al fatto che c'è in atto un'inchiesta. Questa, ad ogni buon conto, è la notizia:

"La Procura di Roma di nuovo alle prese con il caso Moro. Un rapporto della Procura di Novara è arrivato nelle mani dei PM capitolini: raccoglie la testimonianza di un giovane militare di leva che fu inviato dopo il 23 aprile 1978 in un appartamento vicino al covo di via Montalcini con altri commilitoni. il militare, 30 anni dopo, ha deciso di raccontare la sua esperienza: gli dissero quel giorno che doveva dare una mano a controllare, ad esempio, i netturbini o i tecnici che installarono nei lampioni stradali telecamere puntate verso il covo prigione. Poi il giorno prima del 9 maggio (quando Moro venne ucciso) lui e i suoi colleghi furono prelevati e rimandati alle loro originarie destinazioni, con la minaccia di pesanti ritorsioni per chi non stava zitto."

Se i giudici romani hanno deciso di aprire un'inchiesta, del concreto ci sarà pure. Anche se i malpensanti staranno qui a dire che trattandosi della prigione cosiddetta "ufficiale" qualsiasi cosa può servire a consolidare
l'acquisito. E l'acquisito, in questo caso, è: i brigatisti hanno tenuto Moro per 55 giorni in via Montalcini ma qualcuno li ha individuati e ha preferito controllarli piuttosto che intervenire...

Riflettiamo su alcuni particolari, forse insignificanti, ma che non tralascerei del tutto.

Innanzitutto sembra singolare che per un'operazione così delicata siano stati utilizzati dei militari di leva che sia per la giovane età sia per un mancato addestramento specifico non avevano l'esperienza necessaria a gestire eventuali situazioni di emergenza.

In secondo luogo appare scontato oggi parlare di telecamere nascoste, microtelecamere, e via dicendo. Ma nel '78 la tecnologia, sebbene prevedesse già la disponiblità di telecamere di dimensioni ridotte non consentiva risoluzioni tali da poter sfruttare tali attrezzature per spiare un appartamento più di quanto non potesse già fare una macchina fotografica.

E visto che chi avrebbe spedito i commilitoni in via Montalcini aveva previsto che si appoggiassero ad un appartamento vicino al covo, mi chiedo perchè non sfruttarlo per far fare delle foto avvalendosi di personale dell'anti-terrorismo o comunque di professionisti.

Non lo so, ma questa cosa mi sembra davvero una "pezza a colori", come si suol dire. Sarebbe interessante sapere da quanto tempo gli inquirenti ci stanno lavorando su. Sarà sicuramente un caso ma questo nuovo "pentito" giunge a pochissima distanza da un altro pentito, stavolta vero, che ha parlato di via Gradoli come prigione di Moro.

Attendiamo fiduciosi gli sviluppi
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Oggi l'agenzia ANSA ha "deskato" questa notizia:
"TERRORISMO: MARONI, PERICOLO DA GRUPPO CHE SI RIFÀ A BR"
«Ci preoccupano i segnali che abbiamo ricevuto dell'attività di un gruppo che si rifà alle Brigate Rosse»: lo ha detto il ministro dell'interno Roberto Maroni parlando con i giornalisti a margine dell'inaugurazione di una scuola materna a Tradate, nel varesotto. «Questo gruppo, che ha inviato un volantino alla redazione dell'Unità nei giorni scorsi, propone di territorializzare le attività ed è composto da cinque cellule radicate a Milano, Como, Torino, Lecco e Bergamo». Secondo Maroni «sale l'attenzione per questi segnali nuovi e preoccupanti che il governo sta valutando». «Questi episodi - ha aggiunto Maroni - si aggiungono al pericolo del terrorismo islamico che c'è e risulta evidente dagli ultimi fatti. Stiamo decidendo - ha concluso - le misure da prendere».

Maroni si dice preoccupato di questa sottospecie di aspiranti brigatisti che riescono a malapena a ricopiare alcune frasi del lessico degli anni '70. Io, invece, sono seriamente preoccupato dalla mancanza del senso delle proporzioni del nostro Ministro.

Ad evocare oggi il pericolo brigatista come se si fosse all'inizio degli anni '70 quando il contesto sociale ed internazionale era ben diverso, è come estasiarsi per una bella quanto impossibile volee di Nadal facendo finta di non ricordare che tanti anni fa un tale di nome McEnroe ne faceva di migliori due volte al game...
Insomma, occorrerebbe tornare ad essere più equilibrati nei giudizi. Il senso delle proporzioni è una cosa che chi non c'era non può valutare. E non sarebbe difficile convincere un diciottenne fan di Nadal che il proprio idolo è stato il più forte di sempre nel gioco a rete...

E mi chiedo dove sia il senso delle proporzioni nelle dichiarazioni di Maroni.
Il seme della violenza "politica" non può essere debellato completamente da una società. Ci saranno sempre dei singoli che penseranno di fare politica ammazzando un "simbolo" del potere. Il problema non è nè il numero di questi individui nè i simboli a cui si ispirano. E' il contesto all'interno del quale si muovono.

Gli anni '70 sono stati preceduti dagli anni '60, attraversati da lotte epocali, da intere generazioni che sono scese in piazza per reclamare dei diritti, per cambiare la società non semplicemente cambiarne le regole. Credevano che un altro tipo di società fosse possibile.
Poi sono arrivate le mancate risposte di chi avrebbe dovuto raccogliere istituzionalmente queste istanze, è nata la sinistra extraparlamentare e sono iniziati gli anni del conflitto sociale. Questo conflitto, acuito da quelle che sono state interpretate come risposte violente delle istituzioni (vedi bombe e morti di piazza), è sfociato in un'area di persone, che non erano isolate dal resto della società, che pensarono che solo una strategia di lotta armata avrebbe potuto far conseguire l'obiettivo finale: la conquista del potere.

Oggi non vedo conflitti sociali, vedo fasce deboli come i precari, gli insegnanti, gli operai, i pensionati, i piccoli imprenditori. Ma non vedo istanze di massa, non vedo che una manifestazione all'anno sotto il Parlamento e poi basta. Ciascuno pensa a tornare al suo orticello e a risolvere il proprio problema individualmente.

E le parole che lo stesso Maroni deve aver letto, scritte nell'ultima relazione dei Servizi, non sembrano dipingere per l'Italia un simile quadro.

Le minacce contro Berlusconi, Fini e Bossi contenute nella lettera inviata al ‘Riformista‘ firmata «Brigate rivoluzionarie per il comunismo combattente» e la scritta contro un delegato Fiom, sarebbero «interventi in genere di modesto spessore [...] non sembrano, nella maggior parte dei casi, riconducibili ad una strategia univoca nè a realtà eversive organizzate, quanto piuttosto a isolate individualità, spesso gravitanti nell’area dell’estremismo politico [...] il ricorso al lessico brigatista, facilmente reperibile in Internet, riflette sovente il proposito di conferire visibilità e ‘valore aggiunto', in termini di spessore intimidatorio, alle minacce formulate».

Quindi l'obiettivo principale di questi singoli è la visibilità. Ma va? nell società dell'immagine e della comunicazione era il miimo che si potesse pensare.
Ma un momento. La visibilità la si ottiene se c'è qualcuno che te la offre. Ecco che tornano comodi quegli anni di piombo: non avendoli chiusi ognuno se li può strumentalizzare come meglio crede.

Mi viene in mente un brano di Giorgio Gaber, degli anni '70, intitolato "La cacca dei contadini" che, non mi fulmini il grande G, faceva più o meno così:
"Durante la rivoluzione i contadini entravano nei palazzi dello Zar e defecavano nei suoi lussuosi vasi. Un gesto forte, importante. Già. Ma perchè forte? Perchè un gesto è forte se c'è qualcuno che lo raccoglie. E allora c'era un Lenin che la raccoglieva..."

Non so se è una mia impressione ma di Lenin mediatici ne intravedo molti nella nostra società.
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Il 31 ottobre scorso si è suicidata in carcere la brigatista Diana Blefari Melazzi condannata all’ergastolo per l’omicidio del Prof. Marco Biagi. Una triste storia amplificata anche dalla tragedia di Stefano Cucchi, anch’esso morto in carcere in circostanze ancora da accertare.

I giornali hanno dato molto risalto alla questione e l’opinione pubblica è sembrata stupirsi molto, come se questi drammi fossero un qualcosa di improvviso, una cosa che in questa nostra società così evoluta e democratica deve essere per forza accaduta per sbaglio.

Fermo restando che chi sbaglia deve pagare e che se Diana Blefari era stata condannata all’ergastolo con sentenza passata in giudicato, quella pena avrebbe dovuto scontare, vorrei che passasse al tornasole della gogna mediatica di questi giorni, un concetto che, non so quanto in forma inconsapevole, sembra essere sfuggito ai più.

Una cosa è la pena, una cosa è il rispetto della identità e della dignità dell’individuo che in un carcere può entrare come criminale e può uscirne in tanti altri modi ma sicuramente deve uscirne vivo.

Nei giorni precedenti Diana Blefri aveva avuto dei colloqui con la Polizia: sembra che fosse sua intenzione dissociarsi ufficialmente per avviare una forma di collaborazione coi magistrati. Sulle sue spalle pesava la condanna all’ergastolo per l’omicidio di Marco Biagi, ragion per cui la brigatista aveva deciso, speranzosa, di attendere la decisione della Cassazione. Il verdetto era giunto sempre nella giornata di sabato: a quel punto, forse sentitasi sperduta, la Blefari ha ceduto e si è impiccata con un lenzuolo tagliato a strisce.

Due cose ci devono far riflette: il comportamento in carcere che viene riservato a ciascun detenuto e l’inevitabilità del suicidio.

La gente normale si meraviglia di come un “efferato delinquente” possa suicidarsi in carcere.
Secondo il legislatore la pena dovrebbe puntare alla rieducazione del soggetto, ma per la procedura carceraria il punto di vista è totalmente differente. Il carcere deve reprimere, deve azzerare, deve dimostrare chi è il più forte. E per questo utilizza un solo strumento: la cancellazione dell’identità personale.
Prima di meravigliarsi sarebbe meglio leggere ed informarsi di più, senza aspettare di diventare esperti leggendo due articoli di una stampa di parte o 10 interviste in rotocalchi del “pomeriggio in diretta”.

Il fenomeno Saviano non ci ha insegnato nulla? Le cose che, coraggiosamente, Roberto Saviano ha scritto in Gomorra sono ampiamente raccontate dalle cronache locali. Nessuna novità. Ma proprio nessuna. Salvo che, chissà perché, stavolta la macchina mediatica si è attivata con pronta efficienza. Ad essere maligni verrebbe da pensare che l’interesse di qualcuno poteva essere spostare l’attenzione da altre vicende ben più delicate…

Avete letto libri come “Patrie Galere”, “Dall’altra parte”? Conoscete la storia di Giuliano Naria, innocente dopo 8 anni di "carcerazione preventiva" nelle carceri speciali, che in questo "soggiorno obbligato" si è ammalato di anoressia? O la storia di Fabrizio Pelli, brigatista del gruppo reggiano che ammalatosi di leucemia è stato fatto morire in carcere? Avete mai parlato con un ex detenuto che, anche solo accidentalmente, è passato attraverso il circuito di quel Grand Hotel Excelsior che erano gli “speciali”? Lo sapete che la gente che è uscita da poco dal carcere spesso non ci è stata così tanto tempo per la gravità dei reati commessi quanto per il non aver accettato di cancellare la propria identità?
Eccolo il punto. La debolezza. Il carcere affonda il coltello nel tuo tallone d’Achille. Colpisce per punire in un rapporto di impari forza laddove la società non è stata in grado di prevenire.

Sempre prima di meravigliarsi, sarebbe bene conoscere le cronache. Ad esempio a quanti di voi è sfuggita anche questa notizia? >" Un detenuto non si picchia in sezione"<


Sul secondo punto, ovvero l’evitabilità del gesto estremo, la questione appare chiara. Dall’inizio del 2009 il suo stato di salute mentale e fisico, come testimoniano le parole scritte dal fidanzato Papini dopo i loro colloqui.

«Annientata. L’unica cosa che mi viene in mente in questo momento dopo aver­la vista... Si perseguita da sola... Vuole solo morire. Mi ha chiesto di portarle qualche cosa per morire velocemente: me lo ha chiesto più volte!». Per avere un’idea di quanto la de­tenzione (per un periodo anche al regi­me di «carcere duro» riservato a ma­fiosi e terroristi) abbia inciso sulle condizioni di Diana Blefari basta legge­re le lettere che — con tutt’altro tono, stavolta orgoglioso e a tratti sprezzan­te — scriveva quattro anni prima, nel­l’agosto 2005, all’indomani della pri­ma condanna all’ergastolo: «Per l’azio­ne Biagi ho piene responsabilità perso­nali, di cui vado fiera, e che mi rivendi­co pienamente... La rivendicazione della mia responsabilità personale va­le anche per gli espropri (cioè le rapi­ne, ndr) attività primaria e necessaria nella costruzione di un’organizzazio­ne comunista combattente...». E av­vertiva Papini che, un po’ a sorpresa, oggi si ritrova accusato di aver fatto parte anch’egli delle nuove Br: «Ti di­co questo perché tu sappia con chi ti stai rapportando, visto che ora la mia identità politica clandestina ha l’op­portunità di diventare pubblica, causa forza maggiore».

Una sofferenza psichica ignorata che viene oggi elevata alla schizzofrenia. Un precedente in famiglia: la mamma si era suicidata lanciandosi dal balcone. Tutto questo però non è valso a Diana l’essere dichiarata incompatibile con il carcere duro.
Vorrei ricordare come lo stesso tipo di atteggiamento non sia stato tenuto dai consulenti che, per contro, sono stati molto comprensivi nei confronti di un altro detenuto, tal Licio Gelli di Arezzo. All’ultranovantenne condannato a 12 anni per depistaggio nella strage di Bologna (85 morti, è bene ricordarlo) fu risparmiato il carcere grazie ad una perizia che lo definiva quasi moribondo.

Ed ecco come erano riusciti a cancellare l’identità di Diana Blefari. Il 29 maggio aveva scritto:
«Devi dire a tutti che io mi sono pentita, che tutto quello che vogliono io lo faccio, che se vogliono che mi cucio la bocca me la cucio, se vogliono che parlo dico tutto quello che mi dicono di dire, ma io non ne posso più di stare così. Io non so proprio cosa fare, chiedo per­dono a tutti ma basta, per pietà».
Dopo averti cancellato, ovviamente diventi un impotente strumento nelle mani di chi hai pensato di combattere.
Cosa vuol dire “tutto quello che vogliono io lo faccio”? Vuol dire che esiste una “quota conto terzi” che serve a mettere a posto pezzetti di verità che possono far comodo ai singoli?

Forse Diana Blefari, oltre alla sofferenza, prima di suicidarsi ha fatto appello a quell’ultimo brandello di dignità che, nel profondo, le era sinceramente rimasto.
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Stranamente nessuno, al di fuori delle cronache locali e di un trafiletto su Repubblica del 3 ottobre, ha parlato di questo episodio.

Un professore di Agrigento, una delle tante "vittime" dei tagli  di cui è stato oggetto il sistema scuola, ha pensato bene di chiedere aiuto. Ha inviato una lettera al Presidente della Repubblica? Al Papa? Al presidente della Unione Europea?
Macchè. Ha chiesto direttamente l'intervento di chi deve aver reputato maggiormente disposto a raccogliere la sua richiesta: le Brigate Rosse

E così ha scritto un bel cartello, con tanto di stella a cinque punte, intitolato "Appello di tutti i precari alle Brigate Rosse" e lo ha esposto sul parabrezza della propria auto.

Quali fossero le intenzioni dell'ex prof. sembrano abbastanza chiare: far intervenire i "robin hood" brigatisti laddove, evidentemente, sindacati, politici e, soprattutto, il movimento degli stessi precari non sono riusciti a ottenere un dietro-front legislativo annullando i tagli previsti per il corrente anno scolastico.

A differenza del gruppo su Facebook che inneggiava alla morte di Berlusconi (mediante omicidio) e della lettera pervenuta al "Riformista" con minacce allo stesso Berlusconi ed estese anche a Fini e Bossi, episodi che sono finiti addirittura nei TG nazionali sebbene l'evidenza di iniziative goliardiche (la prima) o di un folle, di questo gesto "estremo" compiuto da un cittadino con tanto di nome e cognome, portavoce di una protesta concreta portata avanti da mesi, non ne ha parlato nessuno.

Si potrebbe pensare che a differenza degli altri due episodi questa è la protesta di un uomo isolato e disperato che non fa paura. Ma ci si sbaglia.
Non ne ha parlato nessuno perchè questo gesto non è strumentalizzabile, parte dal basso, ricorda quello che accadeva nelle fabbriche all'inizio degli anni '70 quando operai vicini alle nascenti organizzazioni armate indicavano ai compagni "che guevara" il capetto che in stabilimento opprimeva gli operai o che era il responsabile di punizioni contro dei singoli. E la fuori veniva subito eretto a simbolo dell'oppressione operata dal padrone contro la classe operaia e punito in maniera "proporzionale" alle sue "colpe" con semplici gesti dimostrativi o con veri e propri sequestri lampo con tanto di interrogatorio.
Esprime un malessere dal basso che non interessa nessuno ma preoccupa tutti. Perchè sia a destra che a sinistra hanno la "coscienza sporca", nessuno ha voluto raccogliere le istanze e dare risposte concrete a livello istituzionale a quella massa di precari della scuola e, più in generale, alla moltitudine di quei giovani ormai "professionisti della precarietà". E allora si preferisce non parlarne e dar voce solo a ciò che conviene maggiormente perchè più di moda (come Facebook) o mediatico come la lettera ad un quotidiano.

Un far finta di niente che ricorda un passato recente quando le Brigate Rosse erano ancora "sedicenti", fascisti mascherati o delinquenti comuni. Perchè a nessuno, al di fuori dell'arco parlamentare (ancora meno se posto a sinistra del PCI) era concesso di interferire, nessuno era legittimato a dar voce alle istanze degli strati sociali in lotta per condizioni più umane sul lavoro o per maggiori diritti sociali.

Salvo poi svegliarsi una mattina per scoprire che il peggio era stato compiuto...
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