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Chi controlla il passato controlla il futuro; chi controlla il presente controlla il passato

George Orwell
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Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
In una nuova intervista rilasciata ad Euronews il 10 maggio scorso, l'ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga torna a parlare dei 55 giorni e risponde alla domanda chiave sul sequestro Moro: "perché non fu salvato?"

Cossiga, in un colloquio in cui è apparso molto schietto e misurato, non fa che fornire una nuova conferma di quanto detto dal suo consulente Steve Pieczenik, che gli americani affiancarono all'allora Ministro dell'Interno per gestire al meglio la crisi politica in cui si trovò il nostro Paese all'indomani del rapimento di Aldo Moro.

In sintesi Moro non morì per effetto di una decisione presa da Cossiga o Andreotti (tesi spesso diffusa nell'opinione pubblica) ma perché non "crollasse lo stato".


Un'osservazione che, forse, può apparire una novità.
Cossiga ha sottolineato che se i socialisti avessero informato le autorità (in questo caso il Viminale) dei loro contatti, data l'importanza di tali personaggi, si sarebbe potuto scoprire il luogo dove i brigatisti avevano rinchiuso Moro.

«Ma davvero?» mi verrebbe da chiedere all'ex Presidente.

Recentemente, lo stesso Cossiga ha dichiarato all'ANSA un particolare relativo alla sera dell'8 maggio:
«Noi avevamo fatto un piano a reticolo. Avevamo suddiviso la città, il centro, in tanti quadrati. E la notte l'Esercito ci dava una mano per bloccare il settore e poi lo si passava al setaccio. Io avevo capito che se Moro era a Roma prima o poi lo si beccava. Infatti qualcuno nelle Br ha detto che la morte di Moro è stata affrettata perchè sentivano il cappio che li stringeva al collo».

Se i brigatisti hanno dovuto affrettare l'esecuzione del loro prigioniero (Maccari parlò addirittura di lampeggianti blu che si intravedevano a poche centinaia di metri da via Montalcini) evidentemente il "quadrato" che si stava per setacciare doveva essere quello giusto.
E allora mi chiedo se quell'operazione di polizia fu finalizzata ad individuare la "prigione del popolo" o se si trattò dell'ennesimo strumento di attuazione della strategia suggerita da Steve Pieczenik: fare pressione sulle BR affinché commettessero l'errore di uccidere il loro prigioniero.

In questa ottica diventa anche molto chiara l'affermazione che l'Avv. Giannino Guiso ha riportato in Commissione Stragi.

«Le BR sono arrivate ad uccidere Moro, a mio parere, perché sono state costrette a farlo;
quindi qualcuno le ha costrette a fare ciò»

Più chiaro di così...
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Di Manlio  21/05/2008, in Articoli (3024 letture)

Nel numero di Aprile di "Cronache e opinioni", mensile del Centro Italiano Femminile, è apparsa una interessantissima intervista di Paola Di Giulio al giornalista dell'ANSA Paolo Cucchiarelli incentrata sul trentennale della vicenda Moro e su quelli che, comunemente, vengono definiti "Misteri". Dall'agguato di via Fani alle foto scomparse, dalla giornata del 18 aprile alle trattative, dall'apertura degli archivi alle ultime ore del Presidente della DC.
> scarica il PDF <

La seconda polaroid di Moro nella "prigione del popolo"

L’idea di fondo di Cucchiarelli è che si è “verificata una concordanza di interessi a far si che nessun protagonista veda svelata al sua quota-parte di segreto” ed è per questo che le cose, con il tempo, diventano un mistero. In realtà in Italia non sono i misteri a reggere la prova del tempo, ma i “segreti concordati”.

Come fare a scardinare questo segreto?
Questo Cucchiarelli non lo dice nell’intervista, per ovvie ragioni di spazio.
Ma, come ha sottolineato in una recente intervista ad Alessandro Forlani su GRParlamento > ascoltala <, sarebbe necessario recuperare la tradizione ormai quasi persa del “giornalismo d’inchiesta”, avvalendosi di un serio e rigoroso metodo di raccolta dei fatti evitando di far si che debbano essere i fatti ad adattarsi alla propria ideologia. Al contrario sarebbe necessario tornare a far parlare i fatti. Perché è mettendo assieme i dati, trovando le connessioni logiche, e compiendo verifiche incrociate delle ipotesi che l’analisi finale può condurre a svelare il mistero.

Utilizzando questo metodo che Cucchiarelli insegna nelle aule di formazione ai giovani giornalisti, Valentina Magrin e Fabiana Muceli hanno svolto una dettagliata inchiesta (che è poi diventata la loro tesi in giornalismo investigativo) che è poi diventata anche un libro “La chiave di Cogne”. > leggi <

Credo che possa essere una strada giusta per giungere alla soluzione del “segreto di Moro”. In Vuoto a perdere (che non è un libro d’inchiesta) questo metodo è stato applicato (devo dire inconsapevolmente) per raccogliere e strutturare i fatti in un contesto non ideologico permettendo al lettore di poter “ascoltare” i fatti e analizzarli autonomamente.

Applicando il metodo suggerito da Cucchiarelli si potrà arrivare offrire alla nazione la verità che sta dietro al “segreto di Moro”? Molto probabilmente si.

In questa vicenda, però, occorrerà superare due ostacoli fondamentali:

1) Cucchiarelli a parte, c’è qualcuno disposto a mettere da parte le proprie teorie con il rischio di di vedersele, alla fine, capovolte completamente?
2) Siamo pronti, come Paese, a sapere fino in fondo la verità o questo provocherebbe ulteriore dolore e conseguenze istituzionali?
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Di Manlio  15/05/2008, in Pensieri liberi (6334 letture)
Ricevo e pubblico con molto piacere, questo articolo di un lettore che ha provato a ripercorrere lo spazio e la memoria tornando, dopo 30 anni, in via Montalcini.

Via Montalcini 8, Roma

di Patrizio J. Macci

Parto da una strada che si chiama Via Roma Libera, ai piedi della collina di Monteverde. Ho appena lasciato il caos di Trastevere e le sue strade sudice di vita. L'autobus che mi accompagna è uno scassone della Linea 44. Arranca, sgassa, sembra non farcela, poi sterza violentemente a sinistra ed imbocca la salita di Via Dandolo; è un nome che mi piace perchè rotola in bocca come una caramella e spazza via la polvere di Porta Portese. Comincio a immaginare quello che c'era trent'anni fa. Un mese fa sono venuto con un'amica architetto, laureata con una tesi sulla storia di questo quartiere. E' stata rassicurante: "Guarda, a parte gli edifici che avevano le facciate pulite (!) e le automobili decuplicate, il resto è tale e quale!!!".
Sembra di stare a S. Francisco: curve e saliscendi "a strappo", ville con giardini patronali e palazzotti della borghesia romana. Targhe ottonate scintillano sui portoni : avvocati, commercialisti, un notaio recentemente decaduto nelle cronache, un chirurgo estetico in voga. Consulto il block notes e rifletto su come abbiano potuto trasportare il corpo, senza vita e crivellato dai colpi d'arma da fuoco, nel portabagagli di una Renault 4 evitando sballottamenti e perdite di sangue: il mio lapis non riesce a scrivere di seguito per cinque secondi, eppure l'autobus procede e frena lentamente per raccogliere una piccola folla di studenti. Sono stranieri, inglesi o meglio americani, urlano e si lanciano appuntamenti serali. [continua a leggere]
E' rimasto un pertugio per sbirciare dal vetro la vettura è stracolma. Indovino il muso fascista del Palazzone delle Case Popolari, questo c'era eccome! Dominava dall'alto e se allungavi il collo potevi vedere il ferrobedò di Pasolini e il figlio di Tommaso che correva verso il Tevere.
Sciamano via tutti insieme come sono arrivati, appena superiamo uno splendido parco del quale non memorizzo il nome. Penso che loro no non c'erano, non erano ancora nati.
Siamo arrivati alla prima base della collina, c'è il Teatro Vascello e chissà che programmava in quei giorni maledetti. L'autobus si arresta completamente, il conducente impreca: la cosa è grave. C'è un tamponamento, una moto ed il centauro riversi a terra: si attendono soccorsi. Impossibile procedere o andare indietro. Impazzano i clacson, le sirene cominciano a ululare, salgono dall'ospedale S. Camillo.
Ne approfitto per scendere, siamo fermi proprio all'angolo con una stradina che affaccia su due ville vagamente anni settanta. Mi affaccio ed è tutto finito: un fazzoletto di giardino, due bambini un pallone da calcio ed un gatto. Sono lontano mille miglia da Roma e dalle Brigate Rosse.
Cristina è nata dopo il 9 maggio 1978, però forse i suoi genitori si conoscevano, avevano gia cominciato a "fare l'amore". Mi ha detto che lo chiederà alla madre appena sarà a casa, ride divertita: l'idea la intriga assai. Di Moro conosce poco, che è molto di più di quello che la maggior parte dei ventenni impareranno mai.
Ho accettato di portarla, ha una borsa piena di obiettivi e macchinette fotografiche digitali. Mi ha convinto: "prendiamo qualche istantanea" ha detto, pixel spalmati su un monitor evocheranno fantasmi e demoni nascosti dalle probabili ristrutturazioni estetiche.
Incrociamo Piazza S. Giovanni di Dio, ci sono i binari del tram come allora, l'autobus sobbalza e chissà come si sono guardati in faccia i due terroristi se davvero l'hanno attraversata: il pensiero corre all'uomo nel bagagliaio, l'adrenalina che sale mentre la mano stringe la calibro 9 che è fredda maledettamente gelida, anche se siamo a maggio ed è gia esplosa l’estate.
Sale un uomo col borsello accessorio maschile in voga negli anni '70, questo potrebbe essere arrivato con la sua macchina del tempo ed aver parcheggiato nelle strisce blu dopo aver esposto il tagliando orario. Ci avviciniamo, siamo su Via dei Colli Portuensi i negozi si diradano scorgo in uno squarcio il Gazometro lontanissimo, Viale Marconi con le banche comode per essere rapinate una dietro l'altra, la Banda della Magliana aveva intuito. Improvvisamente spariscono i negozi e ci sono solo abitazioni, palazzi senza nessuno spazio commerciale, la corsia stradale si restringe c'è uno spartitraffico con la terra e qualche ciuffo d'erba che ce la mette tutta per uscire fuori. Consulto l'orologio, è quasi mezzoggiorno. A quest'ora Aldo Moro è gia fantasma.
Siamo rimasti noi due e il conducente, la mia fotografa cerca disperatamente qualcosa che non trova dentro la sua borsa da Mary Poppins. Mi sono distratto e l'autobus piega violentemente a destra, altri due secondi ed avremmo buttato giu il muro e la targa di marmo con scritto Via Camillo Montalcini. Frena, ci lascia sul piazzale, l’autista scende e corre ad accendere la sigaretta che stringeva fra le mani da almeno un quarto d'ora. Chissà se il capolinea era proprio qui?? Poi penso no, non c'era e recito a mente dal “Manuale del perfetto brigatista, norme di sicurezza e stile di lavoro”:
(...) la casa deve essere scelta con particolare cura: la STRADA deve prestarsi ad un facile controllo da parte del militante e ad un controllo scoperto da parte del potere; cioè possibilmente non deve essere vicina a bar, luoghi pubblici di vario genere: negozi, istituti, magazzini, fermate d'autobus ecc."
La villa pubblica prospicente ha il parco che degrada verso la Portuense. E’ riportata nei giornali dell'epoca come “prato con sterpaglie”, ma era gia Villa Bonelli.
L'atmosfera è sospesa, sembra di essere a Catania. Un Tomasi di Lampedusa, annoiato e vestito di bianco, potrebbe vergare il suo diario seduto su un divano di vimini. Il traffico di Roma è un rombo lontano che posso scorgere dall'alto se strizzo gli occhi.
Il carcere del popolo è rimasto quello che abbiamo scrutato su fotoingrandimenti e vecchi documentari televisivi. C'è un muraglione che protegge il giardino, arriva fino al marciapiede. Una carrucola al secondo piano ed una corda che penzola, operai romeni portano via i calcinacci da un appartamento. Tutta la costruzione è una fortezza minacciosa in cima ad una montagna. Si intravedono le sbarre alla porta finestra che conduce in giardino.
L’appartamento ha un soggiorno spazioso ed illuminato, facciamo qualche scatto con il palazzo come sfondo. Sono stanco e contrariato mi sembra che non ci sia assolutamente altro da vedere, nulla che non sia stato scritto verbalizzato e digitalizzato. Cristina si muove rapida: avvita uno zoom, qualcuno dall'ultimo piano fa gestacci. L'anniversario ha reso la strada troppo celebre e oggi non siamo i primi a curiosare.
Seguo il muro dell’edificio abbracciandolo, sono praticamente a pochi centimetri dalla casa: se con un pugno potessi bucare la parete entrerei nella prigione di Moro, nella stanza del Presidente. Trevirgolaventiquattro metri quadri sono uno spazio troppo piccolo per uscirne senza i segni che l’anatomopatologo ha cercato invano. Rifletto sconsolato che i terroristi hanno mentito anche su questo.
Forse il Prigioniero non ha scorto la luce che filtrava dalla porta a vetri del giardino ma ha visto la finestra, l'unica che si affaccia a sud dove mani intelligenti hanno collocato una scrivania, c’è un libro aperto. Riesco addirittura a leggere il titolo, è un manuale scolastico di terza elementare. Uno scolaro consuma le ore dove è passata la Storia. Alzo gli occhi e fisso i vetri. Intuisco quello che nessuna delle foto che guarderemo la sera stessa fino a notte fonda è riuscita a fissare se non come sincopi digitali, riflessi di uno specchio che non riesci a interpretare.
Una mano di bambino ha incollato sui vetri due pupazzi, un personaggio di cartoon, una automobilina e un pesciolino.
Hai scritto dalla tua prigione: "Se ci fosse luce...".
Abbraccio la mia fotografa stremata che nel frattempo è crollata sul divano, le rimbocco il plaid e siedo sul pavimento davanti a lei. La luce dell’alba bussa alle imposte, le soffio in un orecchio: "Ti racconto il 16 Marzo 1978 e chi era Aldo Moro, un giorno lo spiegherai a tuo figlio".
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Di Manlio  14/05/2008, in Attualità (6305 letture)

Venerdi 9 maggio, in concomitanza con il trentesimo anniversario dell’uccisione di Aldo Moro e della prima giornata nazionale a memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi, il settimanale “Panorama” ha pubblicato un’intervista esclusiva a Luigi Cardullo, ex direttore del super carcere dell’Asinara.
Cardullo fa riferimento alle intercettazioni ambientali che il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa aveva chiesto di effettuare per ascoltare i brigatisti detenuti nelle loro conversazioni all’interno degli spazi comuni.
Sebbene di queste intercettazioni ne sia venuta alla luce una sola (leggi il rapporto della DIGOS) che l’ex Direttore attribuisce ai brigatisti Naria e Fantazzini (?), Cardullo parla di un lungo periodo di ascolto durato dalla metà del ’78 alla fine del 1980, data in cui lasciò il carcere. Poco dopo cominciarono le sue grane giudiziarie finendo sotto inchiesta e condannato a 5 anni per corruzione e truffa, accuse dalle quali egli ha sempre proclamato la sua innocenza.

Le intercettazioni, chieste dal Generale Dalla Chiesa e dai capi dei servizi Grassini e Santovito, hanno dato la possibilità a Cardullo di venire a conoscenza di tre personaggi che erano in contatto con i vertici brigatisti ma che non sarebbero mai stati sfiorati da nessuna indagine. Questo, sottolinea Cardullo, nonostante delle informazioni raccolte furono informati sia Dalla Chiesa che i capi dei servizi.
       
Carlo Alberto Dalla Chiesa e Giuseppe Santovito

Cardullo non si è preso la responsabilità di fare i nomi di questi personaggi ma ha fornito un identikit che solo avendo i paraocchi non è possibile collegare alle rispettive persone. Queste le descrizioni dettagliate che Cardullo ha riportato a Giovanni Fasanella.
Un senatore del PCI detto “il vecio”, deputato nel ’58 e senatore nel ’63, partigiano, dirigente internazionale del Soccorso Rosso. Una donna di cultura detta “la zia”, dirigente del Soccorso Rosso italiano, donna di cultura molto in vista. Un alto ed insospettabile magistrato che lavorava al Ministero della Giustizia nella stessa stanza del giudice D’Urso che fu assassinato in un paese arabo e la cui vicenda fu archiviata.

Questa intervista ci pone di fronte ad una serie di problemi.
L’ovvietà sta nel fatto che qualcuno potrebbe essere tentato di iniziare la già vista crociata contro il culturame e gli intellettuali additandoli come causa e fattore di sviluppo del fenomeno della lotta armata nel nostro Paese. Mi sembra talmente banale che le BR avessero dei referenti molto in alto che sarei tentato di non perdere tempo ed andare oltre. Ma vi sembra che un’organizzazione che ambisce a fare la rivoluzione “costruisca la presa del potere” sull’operaio Cipputi e non si preoccupi di infiltrarsi nei Palazzi del Potere per costruire la propria rete di supporto?
E non mi scandalizza che delle persone che ricoprivano cariche importanti nello Stato (poche o molte, questo non sono in grado di stimarlo) abbiano potuto ritenere di appoggiare il progetto brigatista. Sicuramente non più di quanto mi possa indignare il fatto che, è questo è appurato e ampiamente documentato, altri personaggi chiave della nostra democrazia abbiano lavorato per conto di interessi ben diversi da quelli per cui hanno prestato giuramento (alludo ai vari depistaggi, alla massoneria, alla Gladio all’estero, ecc.).

Gli elementi più importanti che, secondo me, emergono dall’intervista sono almeno due.

In primo luogo, è giusto che un’intervista possa articolarsi sulla tecnica dell’indovinello facendo si che ad affermazioni così gravi non corrisponda un equivalente livello di assunzione di responsabilità? Sono certo che Fasanella abbia chiesto a Cardullo i nomi e tenderei ad escludere il fatto che l’ex Direttore non li abbia fatti in sede privata. Ma a questo punto è anche lecito chiedersi a cosa sia realmente servita questa intervista se non ad alzare l’ennesimo polverone che non contribuirà ad aggiungere chiarezza ma a scatenare nuove polemiche...
Per il momento nessuno ha ripreso la notizia. Non mi risulta che qualche giornale o qualche blog si sia espresso in merito.

In secondo luogo, la chiave per leggere la vicenda credo sia da ricercarsi nella frase “erano a conoscenza...”.
Se è vero che all’epoca l’antiterrorismo (e quindi Dalla Chiesa) aveva “pieni poteri” e quindi l’obbligo di riportare esclusivamente al Presidente del Consiglio e la stessa logica valeva per i servizi, ci chiediamo: “L’informazione non fu trasmessa o fu bloccata ai livelli più alti?”. E di conseguenza: “L’informazione non fu utilizzata perché qualcun altro era a sua volta filobrigatista o perché costoro non avevano interesse a scavare e risalire a certi livelli?”.

Cominciano a delinearsi scenari di cui si è sempre sospettata l'esistenza ma che sono sempre stati affrontati con troppa leggerezza, avvolgendo le responsabilità degli uomini di Stato dentro la facile coperta della "deviazione" o della "fermezza".
Per giustificare e per sotterrare.
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Il Sussidiario.net, intervista a Francesco Cossiga (02/05/2008)

La peculiarità del Sessantotto italiano, come notano diversi osservatori del fenomeno, è quella di essere durata un decennio. E il tramonto di quel decennio coincide con l’alba tragica degli anni bui della lotta armata. I violenti scontri del ’77, prima, e poi l’evento culmine degli “anni di piombo”: il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro.
Uno dei protagonisti indiscussi di quegli anni è Francesco Cossiga; o, meglio, “Kossiga”, con doppia esse in stile gotico (a richiamare le SS naziste). Così, infatti, figurava sui muri il nome dell’allora ministro degli Interni, dopo la repressione dei fatti di Bologna del 1977, quando negli scontri tra polizia e manifestanti perse la vita il militante di Lotta Continua Pierfrancesco Lorusso (gli scontri, vale la pena ricordarlo, furono generati dal tentativo, da parte di Autonomia Operaia, di interrompere un convegno organizzato dagli studenti Comunione e Liberazione; in seguito alla repressione, gli stessi “ciellini” furono fatti oggetto di una serie di minacce e attentati). L’anno successivo, poi, i 55 giorni del caso Moro; Francesco Cossiga era ancora ministro, e, dopo l’uccisione di Moro, rassegnò le dimissioni.
Allo stesso Cossiga ilsussidiario.net ha chiesto di riportare per un istante lo sguardo su quegli anni.

Presidente Cossiga, guardiamo al passaggio dal Sessantotto alla lotta armata: quali sono gli elementi di continuità e quali invece gli elementi di rottura? Il ’68, cioè, si evolve naturalmente in violenza (perché ideale già violento all’origine) o c’è stata in mezzo una frattura?

Certamente c’è stata una frattura, perché solo una minima parte dei teorici e dei protagonisti del Sessantotto si è data poi alla lotta armata. Ma c’è anche un elemento di continuità: da una parte la “violenza” faceva parte della cultura del Sessantotto, almeno la “violenza” teorica contro il potere, contro le convenzioni, contro l’“autoritarismo” che veniva esercitato in diversi ambiti: nella società, nello Stato, nella scuola, nella famiglia e anche, per le frange cattoliche, nella Chiesa.

Lei ha dovuto gestire in prima persona il problema della violenza di quegli anni: ritiene la sua una posizione privilegiata o di svantaggio per capire il fenomeno?

Mi sono certamente trovato in una posizione che definirei tragicamente privilegiata



Cosa riafferma di ciò che ha fatto politicamente per arginare il fenomeno terroristico di quegli anni? Cosa invece rinnega, o non rifarebbe se tornasse indietro?

Credo di essermi comportato in fedeltà allo Stato e alla morale, e farei anche oggi le scelte che ho fatto allora. Mi è rimasta però una domanda, riguardo ai provvedimenti adottati in quegli anni: la dura repressione dei movimenti dell’Autonomia, culminati nella “rioccupazione” di Bologna del 1977 e nel fallimento del “convegno contro la repressione”, considerato che si trattava di movimenti che certo usavano la violenza ma non nelle forme e con l’intensità del terrorismo di sinistra, non può aver spinto gli stessi militanti dell’Autonomia verso la lotta armata?

Avere la responsabilità che lei ha avuto nel periodo più buio della storia della Repubblica è un peso difficilmente immaginabile per chi non l’ha vissuto: che cosa l’ha sorretta in questo? E soprattutto che cosa l’ha sorretta dopo la tragica capitolazione del rapimento Moro?

Anzitutto mi ha sorretto la volontà di servire lo Stato in solidarietà con i “ragazzi” delle forze dell’ordine e nel rispetto dei caduti e del dolore delle famiglie e la volontà di operare perché tutto avesse fine: e ciò secondo una coscienza formata religiosamente dalla Fede e laicamente dal “patriottismo repubblicano”. La morte di Moro, poi, l’ho vissuta come una mia sconfitta, ed anche come la dolorosa conseguenza di una scelta tragica, ma necessaria.

Che cosa ci portiamo ancora addosso di quegli anni?

Il dolore per i caduti e le famiglie offese, insieme anche al dolore per i militanti della lotta armata, che hanno gettato via la loro giovinezza.
E, infine, la mancata risposta alla domanda: «Perché è successo?»
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