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Chi controlla il passato controlla il futuro; chi controlla il presente controlla il passato

George Orwell
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Di Manlio  12/12/2011, in Attualità (4571 letture)
Ho da poco terminato la lettura di uno dei libri recentemente dati alle stampe riguardanti la vicenda delle BR. In “Colpo al cuore” Nicola Rao racconta gli ultimi mesi della storia delle BR osservata da due punti di vista privilegiati che, alla fine convergeranno, ritrovandosi assieme sugli opposti fronti, nel blitz che vide la liberazione del Generale Dozier prigioniero della colonna veneta delle BR.
Le due anime del racconto sono Antonio Savasta, dirigente brigatista di prim’ordine, responsabile del sequestro Dozier e capo della colonna veneta e Salvatore Genova, commissario di Polizia che iniziò la sua carriera nella città di Genova ma che, per le abilità dimostrate nel contrastare l’azione brigatista nel capoluogo ligure fu chiamato dal Questore Umberto Improta per dare una mano per la liberazione di Dozier che, a causa della forte pressione statunitense sul governo italiano, stava diventando una questione di Stato molto delicata.

Il racconto delle due “carriere” cresce parallelamente.

Anche se Antonio Savasta ha parlato molto con gli inquirenti dando loro la possibilità di smantellare gli ultimi residui di velleità brigatiste e raccontando anche dei contatti internazionali delle BR, mai aveva fornito un racconto personale, che desse voce al suo vissuto di brigatista, che esprimesse l’esperienza della militanza sua e dei suoi compagni di viaggio in particolar modo per azioni che ancora oggi procurano dolore al solo pensiero come il sequestro e l’omicidio di Giuseppe Taliercio, direttore del petrolchimico di Porto Marghera.

L’operazione nacque come “processo” alla politica anti-operaia della Montedison per ribadire la vocazione di fabbrica delle BR-PCC e tentare una ricomposizione con le BR-PG di Senzani e l’ormai autonoma colonna milanese Walter Alasia. Il tentativo, insomma, di portare avanti una “campagna esemplare” che desse l’esempio alle altre fazioni brigatiste nella convinzione che l’azione le riportasse sulla linea dell’organizzazione principale.

Ma le cose non andarono così e quando il comitato esecutivo (composto da Savasta, Barbara Balzerani e Luigi Novelli ) decise per la morte del prigioniero in assenza del ritiro della cassa integrazione annunciata dalla Montedison, i militanti della colonna veneta minacciarono la fuoriuscita. Si giunse così al 5 luglio. Dopo 46 giorni di prigionia e maltrattamenti, Taliercio venne assassinato proprio da Savasta. Oggi, grazie al racconto che Savasta ha fatto a Nicola Rao sappiamo alcune cose in più, soprattutto riguardo la lacerazione interna del brigatista ed alle conseguenze che quella morte ebbe sull’intera organizzazione.
Il libro, secondo me ingiustamente ma mi rendo conto che per i giornalisti la Notizia con la Enne maiuscola è un’altra, è passato alla cronaca per le “pratiche” poco ortodosse di un funzionario della Polizia dell’epoca che, senza mezzi termini, ha ammesso di aver praticato la tortura nei confronti dei prigionieri delle Brigate Rosse perché il momento esigeva che si ottenessero risultati con qualsiasi mezzo. Una tortura scientificamente preparata, con uomini addestrati alla tecnica del waterboarding attraverso la quale si simula una morte per annegamento facendo bere al malcapitato grandi quantità di acqua e sale. La tecnica fu utilizzata una prima volta nei confronti del tipografo Enrico Triaca, arrestato nel maggio del ’78 poco dopo l’uccisione di Aldo Moro. Il brigatista denunciò le torture subite ma il giudice non gli credette e lo condannò per diffamazione. Tanto bastò, però, per suggerire al “prof. De Tormentis” (così veniva chiamato nell’ambiente il funzionario) di sospendere il suo rito in quanto eventuali altre denunce avrebbero potuto condurre alla verità.

Lo sdegno per aver avuto tra le Forze dell’Ordine personaggi squallidi e animaleschi sino a tal punto, è forte. Non la sorpresa. Chi conosce bene i fatti, chi ha studiato le carte, chi ha parlato con i protagonisti di entrambe le parti sa bene che la versione ufficiale che il fenomeno della lotta armata è stato debellato grazie a leggi democratiche e all’azione dei pentiti è una favola sul cui lieto fine in molti si sono rifatti una verginità e costruito nuove carriere. Dietro i discorsi dei vari Ministri dell’Interno e Presidenti del Consiglio che spacciavano la tutela delle leggi democratiche negando qualsiasi legame tra crimini commessi e matrice politico-ideologica, c’erano le leggi d’emergenza (per mezzo delle quali le pene venivano comminate non in funzione della gravità del reato ma in funzione della propria identità politica) e le carceri speciali (veri e propri circuiti di gettizzazione, punizione e riduzione ideologica nel quale finivano anche militanti marginali tirati in ballo da pentiti e che erano solo fiancheggiatori o prestanome). A livello occulto per l’opinione pubblica, invece, si usava con metodi più o meno cruenti la tortura (nel bel film di Aurelio Grimaldi “Se ci sarà luce sarà bellissimo” c’è un esempio che ci fa intendere di come la pratica sia stata diffusa a tutti i livelli).

La storia del “carcerario”, tra l’altro, è ancora tutta da raccontare e mi auguro che qualcuno un giorno troverà la voglia e lo stomaco per scriverla.

Bene fa, a tal proposito, Nicola Rao a riportare alla giusta dimensione un personaggio come Alberto Franceschini che oggi vorrebbe farci passare l’idea di un se stesso “rivoluzionario romantico” e che la violenza appartenne non alle “sue” BR ma a quelle del periodo successivo al suo arresto, pilotate da chissà quale entità superiore e condotte da Mario Moretti, spia di chissà quale servizio nostrano o estero. E invece Franceschini è stato tra i più violenti, uno che in carcere organizzava le violenze e decideva la morte di chi era ceduto alle torture confessando anche solo fatti minori. Uno che con i suoi scritti contribuiva a seminare odio e morte incitando i compagni fuori dal carcere subissandoli di analisi della realtà che farebbero pensare ad un largo uso di stupefacenti del capo storico. Un ex brigatista che stava dalla sua parte, parlando di Franceschini, me lo ha definito come “terrorista dentro, uno che ammazzerebbe anche la madre per le proprie finalità”. Non per un ideale, per squilibrio.

La verità di quegli anni poco alla volta verrà a galla. Forse il primo tassello potrà essere proprio il nome di quel “De Tormentis” che stando agli elementi che ha raccolto Paolo Persichetti nel suo articolo di ieri su Liberazione >Leggi http://baruda.net/2011/12/10/torturetana-per-de-tormentis-e-ora-che-il-mastro-torturatore-ditalia-si-faccia-avanti/ < ha ormai un nome e cognome. Poliziotto per trent’anni, congedato come Questore, catturò Luciano Liggio al fianco del Questore Mangano > Indizio 0<, approdò all’antiterrorismo di Santillo (in questo senso nel 76-77 ascoltò in carcere Ronald Stark, informatore infiltrato >Indizio 1<), figura nella ormai storica fotografia che ritrae gli investigatori attorno alla R4 che conteneva il corpo di Moro il 9 maggio 1978 >Indizio 2 <, nel gennaio del 2001 ha scritto un articolo per il mensile massonico “Il razionale” >Indizio 3 <, è stato Commissario per La Fiamma Tricolore nel 2004 >Indizio 4 <, iscritto all’Ordine degli Avvocati della provincia di Napoli dal 1984 >Indizio 5 <.

Insomma Avv. Nicola Ciocia, gli indizi porterebbero a lei.

Certo è che questo libro ha portato una animata discussione tra chi attacca queste pratiche, chi le difende, chi le nega e chi le giustifica. Il solito dibattito all’italiana che si fa sui giornali, in TV, in rete. Ovunque fuorchè nelle sedi predisposte: i tribunali. Eh si, tutti sanno ma tutti nascondono. Tutti fanno i moralisti ma nessuno è disposto ad esibire il proprio certificato di “anima trasparente”. Spero che libro e dibattito possano servire almeno ad aprire un’inchiesta seria per chiarire chi ha messo in atto quelle orrende pratiche, chi le ha ordinate all’interno delle forze investigative, chi le ha coperte e chi, a livello politico, ha concesso il lasciapassare che ad oltre trent’anni si è rivelato un salvacondotto.
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Di Manlio  05/12/2011, in Libri (5985 letture)
Uno dei luoghi comuni della dietrologia all'italiana legata al caso Moro riguarda un poliziotto di nome Cioppa, Commissario Elio Cioppa, vice capo della Squadra Mobile di Roma. Un uomo operativo, scopriamo oggi grazie ad un'intervista di Patrizio J. Macci >Leggi<, uno che si buttava nella mischia quando le manifestazioni si facevano dure, uno che si è beccato una molotov sulle gambe ed ancora oggi porta i segni di quell'azzoppamento.

Ma per la storia, rischia di passare per l'uomo che avrebbe potuto salvare Aldo Moro ed invece operò nell'ombra per insabbiare importanti informazioni che avrebbero finito per agevolare i brigatisti.

La storia è semplice ma, come spesso accade quando si vuole vedere il mistero a tutti i costi, viene raccontata in modo semplicistico e letta in maniera fuorviante.

Ciò che molti testi riportano è che il 18 marzo (quindi dopo soli due giorni dall'agguato di via Fani) 4 agenti in borghese, si sarebbero presentati in via Gradoli per dei controlli che in quei giorni riguardavano tutta la città di Roma. Nella palazzina al civico 96, bussarono a diverse abitazioni, tra cui l'interno 11 (nel quale il 18 aprile sarà scoperto uno dei covi più importanti della colonna romana delle BR). Non ricevendo risposta i poliziotti presero informazioni sui suoi abitanti direttamente dagli altri inquilini ricevendo rassicurazioni perchè si trattava di una giovane coppia che stava fuori casa tutto il giorno per lavoro (lui pareva un agente di commercio, un rappresentante).
Accanto all'interno 11, però, un'altra giovane coppia rispose al campanello: si trattava di Gianni Diana e Lucia Mokbel. La donna segnalò ai poliziotti che la notte precedente aveva udito dei “ticchettii” provenire proprio dall'abitazione dei loro vicini, rumori tipici di chi utilizza un'apparecchiatura per segnali Morse. Disse di avere un amico all'interno della Questura e chiese se gli agenti potessero riferire questa informazione. A loro volta, questi, scrissero degli appunti su un foglietto di carta che la Mokbel sottoscrisse. Destinatario del biglietto Elio Cioppa.
L'appunto, però, sparì e l'informazione si perse.

Nel 1981 si scoprì che il nome di Elio Cioppa figurava tra gli iscritti alla loggia P2 di Licio Gelli, gruppo fortemente filo-atlantico al quale appartenevano personaggi molto importanti tra cui gli stessi vertici dei servizi e delle Forze Armate. La Loggia, secondo tanti, avrebbe utilizzato tutti gli strumenti in proprio possesso per intralciare le indagini o addirittura “pilotare” le BR per giungere all'uccisione del prigioniero in loro possesso.

La morale di questa storiella, per chi ha abusato con la dietrologia, è apparsa fin troppo semplice: un gruppo di quattro agenti avrebbe fatto delle perlustrazioni dopo sole 48 dal rapimento di Moro, in una via che sarebbe poi risultata essere “molto calda”, avrebbero commesso la leggerezza di non sfondare la porta dell'interno 11, avrebbero poi raccolto un'informazione molto importante relativa ad una base delle BR frequentata da brigatisti legati alla prigione di Moro (Moretti), e tale informazione si sarebbe persa prima o dopo essere stata consegnata al suo destinatario Elio Cioppa.
Un insabbiamento che avrebbe potuto portare al pedinamento di Moretti e quindi alla prigione di Moro. Grande vecchio di questa operazione, Elio Cioppa, piduista

Ma le letture forzate, come spesso accade, non pagano. E non rendono giustizia alla storia ed alle persone. Peccato che spesso giungano proprio da coloro che invocano la verità, quella vera, invocando il diritto a sapere da parte dei familiari delle tante vittime innocenti di quegli anni. E tacciando gli altri di essere irrispettosi proprio di queste vittime.

In questi giorni esce un libro, l'ennesimo si potrebbe dire, che aggiunge altri centimetri allo scaffale delle pubblicazioni sul caso Moro e un centinaio di pagine in più sulla strada della conoscenza (“Cioppa, quarant'anni di segreti di Roma e d'Italia” ABCom editore) .
Per la prima volta in assoluto, Elio Cioppa ha risposto alle domande di un giornalista che ha cercato di scavare nella sua storia, per rispondere ad una precisa domanda: “mi trovo innanzi all'uomo che avrebbe potuto salvare Aldo Moro ma che, invece, contribuì alla sua uccisione?”.

La risposta che Macci si dà a questo interrogativo che lo ha accompagnato nel corso della sua intervista è negativa. Categoricamente negativa.

La vera notizia che emerge dal bell'articolo è che Cioppa si sarebbe iscritto alla P2 nel settembre del 1978 su invito di Umberto Ortolani per risolvere un banale problema di servizio: si era visto negare un posto che secondo lui gli spettava e la P2 gli era stata presentata come un qualcosa che avrebbe potuto esercitare pressioni per restituirgli il maltolto. Sempre nel settembre del '78, fu chiamato da Grassini ad aprire un ufficio dei servizi a Piazza Barberini e per conto del Generale n. 1 del SISDE svolse delle indagini “politiche” sulla vicenda Moro. Nell'ambito dell'organigramma dell'intelligence era Capo Centro 2. Poca roba. Così come poca roba sarebbe stata il resto della sua carriera, nonostante un curriculum di tutto rispetto e tanta esperienza in prima linea con tanto di botte prese e date.

Ma la cosa che depura definitivamente la questione nella quale sarebbe stato tirato in ballo Cioppa è che non ci fu nessuna perquisizione il 18 marzo. Ce lo dice la stessa Mokbel nel suo primo verbale di fronte alla DIGOS di Roma alle 14.20 del 18 aprile 1978: in quella sede la donna parlò di una voce di donna provenire da dietro la porta dell'interno 11 la sera del sabato Santo (quindi 25 marzo 1978) e di una notte di “circa 20 giorni fa” (quindi fine marzo inizio aprile '78) quando fu svegliata tra le 3 e le 4 da rumori che lei attribuì a segnali Morse dei quali però non seppe identificare la provenienza precisa. La donna aggiunse “desidero precisare che al mattino successivo sono venuti degli agenti in borghese a controllare le abitazioni del palazzo, ai quali ho accennato che la notte stessa avevo appena sentito quanto sopra detto. Poi gli agenti sono andati via”. Questo primo verbale fu fatto congiuntamente dalla coppia Diana-Mokbel all'epoca fidanzati.

Alle 21.35 dello stesso 18 aprile, però, il solo Gianni Diana si ripresentò alla DIGOS e alla presenza di Nicola Simone (il funzionario che accompagnò l'On. Cazora in via della Camilluccia 551 il giorno prima dell'uccisione di Moro, e che fu oggetto di attentato da parte delle stesse BR nel gennaio del 1982) cambiò la versione della sua convivente. Diana disse che aveva in uso l'appartamento da circa un mese e mezzo, e che da 4-5 giorni si era accorto che l'appartamento all'interno 11 era occupato. Raccontò un curioso episodio avvenuto qualche sera prima: uscì sul pianerottolo per aspettare la sua fidanzata (che riteneva essere giunta sotto casa avendo sentito il rumore di un'auto) e “da dietro la porta dell'interno 11 ho udito una voce femminile che con tono apprensivo, quasi che invocasse o avesse paura, ha detto: 'Gianni! Gianni'”. Non ritenne la cosa indirizzata a lui in quanto conosciuto nella palazzina solo da due “collaboratori” che lavoravano con lui nello studio del Commercialista Dott. Bianchi in via Ximenes n. 21 (ufficio presso il quale Diana si dichiarava domiciliato, essendo egli residente a Viterbo). Si trattava di Pier Carlo Pucci (interno 6) e Sara Iannone (interno 11 scala B, praticamente l'appartamento “gemello” al covo delle Brigate Rosse).
Diana però portò anche una correzione alle parole della Mokbel in seguito ad una domanda posta dal Dott. Simone: “Devo dire che un paio di giorni dopo il rapimento dell'On. Moro, di notte, verso le 3 mentre mi trovavo nel mio appartamento con la mia ragazza, lei mi ha svegliato facendomi notare che si sentivano degli strani segnali, tipo alfabeto Morse. Però non ci siamo resi conto da dove i segnali provenissero. Si udivano nel silenzio della notte però a momenti sembravano vicini, a momenti lontani. Di conseguenza avevamo deciso di parlarne con il Dott. Cioppa, conoscente della mia ragazza. Però l'indomani sono venuti a ispezionare l'appartamento degli agenti di Polizia ai quali abbiamo riferito la circostanza”.

Quindi non si trattava più una notte di venti giorni prima, ma un paio di giorni dopo il rapimento di Moro.
Altre testimonianze raccolte il 18 aprile, però, parlano sempre di perquisizioni generiche avvenute circa tre settimane prima. Addirittura ne parlano al microfono di Giò Marrazzo due signore che abitavano nello stesso stabile. Una delle due è proprio la signora Nunzia Damiano che si accorse della famosa perdita d'acqua che poi provocò la scoperta del covo brigatista.

Il tutto non si spiega se non ci si pone il problema di cosa sia successo circa tre settimane prima del 18 aprile e che avrebbe potuto portare ad un sommario sopralluogo in via Gradoli.
La notte tra il 31 marzo ed il primo aprile, l'On. democristiano Benito Cazora fu accompagnato in auto sulla Cassia da alcuni malavitosi calabresi che si erano offerti di fornire il proprio aiuto nella ricerca della prigione di Aldo Moro. All'altezza dell'incrocio con via Gradoli gli venne detto “questa è la zona calda”. Cazora si recò nella stessa serata dal Questore De Francesco e raccontò tutto al capo della DIGOS di Roma Domenico Spinella. Il giorno dopo tornò in Questura e gli fu detto che erano state fatte delle verifiche che avevano dato esito negativo.

E' questo che si è voluto coprire con la retro-datazione di quella perquisizione al 18 marzo? La pista di Cazora, che come si sa ebbe molti problemi dal suo attivo interessamento per la liberazione di Moro? L'episodio avvenne, guarda caso, proprio nei giorni in cui anche Francesco Fonti (malavitoso calabrese che in seguito si sarebbe pentito e che ha raccontato i particolari del suo interessamento al caso Moro nel 2009 a Riccardo Bocca) fu portato in via Gradoli dai contatti che la 'ndrangheta aveva a Roma e che passavano per la banda della Magliana. E proprio nello stesso periodo in cui sembra che anche i servizi segreti avessero avuto la stessa informativa ed erano pronti ad un blitz (sempre secondo le parole di Fonti).

Il giornalista Gian Paolo Pelizzaro scoprirà, a distanza di tanti anni, la presenza di tanti appartamenti e di società legate ai servizi segreti proprio tra le due palazzine al civico 96 di via Gradoli. Una di queste società era proprio lo studio di via Ximenes. Sara Iannone, tra l'altro, querelò Pelizzaro per diffamazione ma il Tribunale, con sentenza passata in giudicato, le diede torto in quanto negli articoli scritti per il mensile Area il fatto che la Iannone lavorasse presso strutture riconducibili ai servizi non dovesse essere ritenuto né un insulto né, tanto meno, una diffamazione.

Far ricadere la “colpa” sul poliziotto Cioppa (il cui nome fu trovato negli elenchi della P2) è stato un utile depistaggio per coprire, evidentemente, strutture e interessi che i servizi segreti avevano già in via Gradoli 30 anni prima dello scandalo di Marrazzo (Piero, ironia della sorte figlio di Giò) e che con molta probabilità riguardavano altre centinaia di appartamenti sparsi in tutta Roma.

Come spesso accade, non è detto che degli elementi singoli possano essere sommati. Occorre tener presente le unità di misura. E a sommare chilometri con chilogrammi non si percorre molta strada...

Per maggiori approfondimenti
http://www.vuotoaperdere.org/dblog/articolo.asp?articolo=127
Vuoto a perdere, la vicenda Cazora
Intervista a Francesco Fonti
Marco Cazora su Francesco Fonti
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