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Chi controlla il passato controlla il futuro; chi controlla il presente controlla il passato

George Orwell
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Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 
Giuseppe Ferrara è, tra coloro che ho conosciuto grazie ai miei studi sulla vicenda Moro, una delle persone che mi hanno stupito di più.
Dotato di un bagaglio culturale impressionante, di una finezza di pensiero che lascia a bocca aperta e di una freschezza intellettuale sicuramente più dinamica ed effervescente della mia, nonostante i quasi 30 anni di differenza.

E', per intenderci, una persona che quando parla ha sempre qualcosa da insegnare. Nel suo mestiere (ovviamente) ma anche e soprattutto nelle molteplici vicende che in molti hanno solo letto sui libri e che lui ha vissuto da contemporaneo, ha avuto la possibilità di parlare con i protagonisti e in molti casi di studiare per le inchieste dei suoi lavori cinematografici.

Qualche giorno fa mi ha spedito delle riflessioni che riguardano il ruolo della Banda della Magliana (da molti ipotizzato) nella vicenda Moro. Non tanto nel suo aspetto politico, ovviamente, quanto in quello più strettamente criminale.

Prima di passare alle sue considerazioni, voglio premettere un piccolo (mica tanto) particolare che può aiutare a leggere meglio quanto Ferrara avrà da dirci.
Nel libro "L'Anello della Repubblica" (uscito nel 2009 per Chiarelettere) Stefania Limiti ha messo insieme una serie di elementi così sintetizzabili. Dopo il rapimento, l'Anello viene attivato per la ricerca della prigione dove i brigatisti avevano rinchiuso Aldo Moro. L'Anello si attiva chiamando in causa la Camorra che, a sua volta, si mette in contatto con il suo uomo di collegamento con la Banda della Magliana a Roma. Questi ultimi fanno emergere il nome di via Gradoli. L'informazione viene riportata a Roma ma, a questo punto, l'Anello è stoppato.
E' evidente, a questo punto, che a partire da quel momento in un'ipotetica trattativa per la ricerca della prigione e la sorte del Presidente della DC entra in gioco la Banda della Magliana.

Come, è tutto da definire. O, almeno, io non lo so.
Ma mi sembrava una premessa utile per "leggere" meglio le riflessioni di Giuseppe Ferrara che riporto integralmente di seguito.

"il caso Moro è ancora avvolto nel mistero?
A mio avviso no.
Tutti sappiamo che è stato un golpe. Persino uno studioso cauto come De Lutiis ha significativamente intitolato il suo ultimo libro IL GOLPE DI VIA FANI. Certo, le prove giudiziarie mancano. Ma non si sono volute acquisire o si sono volute sottovalutare. A cominciare dalla famiglia Moro. Che si è comportata malissimo, tradendo lo scomparso che, ricordo bene, forse nell’ultima lettera a Nora punta l’indice accusatore contro la DC. Ma la famiglia non ha avuto nessun coraggio e praticamente ha “coperto” il partito. Partecipando l’anno scorso a un dibattito alla presenza di una delle figlie di Moro ne ho avuto conferma. Alle mie sottolineature di ambiguità di Don Mennini, la figlia lo ha difeso a spada tratta.

Però ogni tanto, a volte quando meno te l’aspetti, escono delle verità.

Anche solo riflettendo.

Per esempio sulla Banda della Magliana.

Fin da quando uscì il mio film nelle sale, il regista Agosti mi disse che era stata la banda della Magliana ad uccidere Moro. Non so da chi avesse avuto questa informazione, ma anche se avesse raccolto una “voce”, cioè avesse recepito una convinzione popolare, la notizia ha un forte valore indiziario e va presa molto sul serio.

Ecco perché.

Stefano Grassi, nel bellissimo libro IL CASO MORO- UN DIZIONARIO ITALIANO, alla voce B. della M., scrive: “Nel quartiere, controllato in modo capillare da questo particolare tipo di malavita collegato a settori deviati dei servizi segreti e all’eversione nera, è situata la prigione del popolo di via Montalcini. Nelle immediate vicinanze di via Montalcini abitano numerosi esponenti della banda: a via Fuggetta 59 ( a 120 passi da via Montalcini) Danilo Abbruciati, Amelio Fabiani, Antonio Mancini; in via Luparelli 82 ( a 230 passi dalla prigione del popolo) Danilo Sbarra e Francesco Picciotto (uomo del boss Pippo Calò); in via Vigna due Torri 135 ( a 150 passi) Ernesto Diotallevi, segretario del finanziere piduista Carboni; infine in via Montalcini 1 c’è villa Bonelli, appartenente a Danilo Sbarra” (pagg.62-63,Mondadori,2008).

La “rivelazione” della prigione del popolo venne fatta da Morucci e Faranda al giudice Imposimato. Io stesso (nel 1985, mentre preparavo il film, proprio seguendo il suggerimento di Imposimato) ho potuto fare un sopraluogo nell’appartamento e constatare che sul pavimento c’erano ancora le tracce della falsa parete applicata dai brigatisti per creare un’intercapedine segreta.

Usando la logica, e guardando sulla cartina topografica l’ubicazione delle vie abitate dai banditi, via Montalcini risulta circondata dalle loro abitazioni; appare evidente che la scelta della “prigione del popolo”, dove però non abbiamo alcuna certezza che Moro vi abbia passato almeno qualcuno dei 55 giorni, non sia stata fatta dalle br ma dai maglianesi, che appunto volevano controllare a vista la “prigione” (a questo punto eventuale) e quindi Moro nonché i brigatisti.

Non solo. Poiché la ferocia dei banditi e il volume di fuoco che sarebbero stati capaci di produrre è addirittura mitico, appare chiaro che chi gestiva il rapimento era proprio la Banda ( e cioè i servizi diciamo così deviati, che con la Banda hanno rapporti strettissimi, come si deduce da tanti episodi ). Le br sono in realtà esse stesse prigioniere della Banda. E quindi delle forze politico-finanziare occulte che volevano la morte di Moro. Infatti sull’UNITA’ del 26 settembre 1982 Emanuele Macaluso ha dichiarato: ”Noi siamo fra coloro che non hanno mai creduto che a rapire e ad uccidere il presidente della Dc siano state solo le Brigate Rosse che organizzarono l’infame impresa. Abbiamo sempre pensato che gli autonomi obiettivi politici delle Br coincidessero con quelli di potenti gruppi politico-affaristici nazionali ed internazionali, che temevano una svolta politica in Italia” (citato anche nel volume POTERI FORTI, POTERI OCCULTI E GEOFINANZA, Mafia Connection ed., Pavia, 1996,pag.232). Conferma di tutto questo viene dalla lettura del volume IL MISTERIOSO INTERMEDIARIO di G. Fasanella e G.Rocca (Einaudi, Torino , 2003). Tra l’altro si viene a sapere che proprio in via Caetani esisteva un appartamento segreto (di proprietà della Duchessa Caetani) che durante la guerra aveva ospitato l’agente OSS Peter Tompkins e che potrebbe aver ospitato anche Moro prima dell’esecuzione. Sicuramente la Duchessa aveva persino l’accesso ad un un garage ( quello servito a nascondere la Renault rossa prima dell’assassinio, sul quale naturalmente nessuno ha indagato).

Che Moro abbia frequentato poco la prigione di Via Montalcini (se l’ha frequentata) è ormai certo (passare 55 giorni in un loculo senz’aria lo avrebbe stremato, invece la perizia del cadavere ha stabilito che Moro era in buone condizioni). Le altre “prigioni” sono almeno due: una (forse quella stabile, dove potrebbe aver passato la maggior parte dei giorni - spostare Moro sarebbe sempre stato un rischio) situata sulla costa laziale (sempre la perizia appura che sia le scarpe sia i pantaloni di Moro sia la Renault rossa hanno tracce bituminose e di terriccio che rimandano ad un luogo vicino a Palinuro) e una dove potrebbe aver atteso il momento dell’assassinio che secondo i brigatisti sarebbe avvenuto nel garage di via Montalcini. Bugia ridicola per tre motivi : il primo è che la Banda come ha scelto il covo di via Montalcini così sceglie il covo presso Palinuro; il secondo perché il garage di Via Montalcini è molto piccolo, quindi scomodo per sparare a Moro col cofano aperto, ed è molto esposto a visite di estranei ; infine portare il cadavere di Moro sanguinante da via Montalcini a via Caetani, cioè per diversi chilometri con molta polizia in allarme, è ovvio che fosse un rischio da evitare assolutamente; infatti la logica ci dice che il garage dove è stato ucciso Moro non può essere che in Via Caetani (cioè nel Ghetto ebraico) a pochi metri dal posteggio dove poi sistemare la Renault rossa.

Su chi abbia sparato a Moro i brigatisti hanno indicato ben tre di loro e questo dimostra sia pure solo indiziariamente che la loro testimonianza è inattendibile. Molto più attendibili i messaggi lanciati da un appartenente alla banda della Magliana, Antonio Chichiarelli, che lascia in un taxi un borsello con oggetti che “alludono a momenti diversi del rapimento e del sequestro Moro: i dodici proiettili, sparati da due armi diverse, con i quali Moro è stato ucciso; la testina rotante con cui sono stati scritti i comunicati (…); le due fotografie di Moro scattate dai brigatisti, il comunicato del lago della Duchessa; i medicinali che necessitano al prigioniero; i fazzoletti di carta con cui sono state temponate le ferite dopo l’esecuzione; un pacchetto di sigarette della marca fumata da Moro” (S.Grassi, op. cit., pag 155). Con questi documenti o notizie che potevano essere in mano a Chichiarelli ( es. : la foto originale della Polaroid) solo per aver gestito in prima persona sequestro e assassinio, sono, oltre che un oscuro messaggio, la confessione del delitto stesso. Quando dichiara di conoscere la marca dei fazzolettini tampone, Chichiarelli ci fa sapere che è lui che li ha messi sul cadavere di Moro, al punto da farci sospettare che sia proprio il killer del presidente ( o almeno che ha fatto parte del commando maglianese).

Questa “crescita” dell’importanza della B.della M. nel caso Moro apre uno scenario diverso e inquietante che fa valutare in modo nuovo altri episodi (tra cui primeggia il falso comunicato n.ro 7). Ma anche la scoperta del covo di Via Gradoli si configura sotto un’altra luce ( per es.: vuoi vedere che Chichiarelli aveva le chiavi dell’appartamento ed è stato lui, o qualcuno come lui, a provocarne la scoperta?)

La banda era potentissima anche in Vaticano, per i rapporti con Marcinkus (venuti fuori nella rubrica tv CHI L’HA VISTO) e, com’è noto, per aver fatto seppellire nientemeno che uno di loro nella basilica di San Paolo (alla stregua di un santo o di un cardinale!)."
 
Una bella intervista a Claudio Signorile, è stata pubblicata da Alessandro Forlani lo scorso 20 gennaio. Forlani è stato “supportato” dal collega Paolo Cucchiarelli e l’audio è disponibile sul sito di GR-Parlamento >scarica<

Sebbene alle parole dell’ex vice Segretario del PSI, protagonista politico della trattativa che, attraverso gli esponenti dell’Autonomia Lanfranco Pace e Franco Piperno, giunse ad un passo dal far si che le BR sospendessero l’esecuzione del loro prigioniero non abbiano trovato grande eco (ecco i due lanci ANSA diffusi proprio da Paolo Cucchiarelli >qui<) ritengo che Signorile abbia detto almeno tre cose assolutamente nuove e di grande importanza. Vediamole.



I giornalisti Alessandro Forlani e Paolo Cucchiarelli

Primo. Signorile ha precisato che il giorno 6 maggio aveva concordato con Amintore Fanfani che il presidente del Senato avrebbe dato dei segnali di apertura alla disponibilità di rompere il fronte della fermezza a favore di una trattativa umanitaria che, pur non comportando il cedimento dello Stato, avrebbe offerto alle BR un motivo per “sospendere” la loro sentenza di morte. Sentenza annunciata come prossima con il comunicato diffuso il 5 maggio, restato famoso per il gerundio “eseguendo la sentenza”. Signorile ha precisato che questa dichiarazione di Fanfani non avrebbe comportato la liberazione di Moro, ma sicuramente avrebbe permesso di fermarne l’uccisione ed aprire una nuova fase verso la liberazione. Il fatto nuovo sta nella considerazione di Signorile sulla reale possibilità delle forze dell’ordine di fare qualcosa di concreto verso la ricerca della prigione. “Avevo il telefono sotto controllo – racconta Signorile – ed ero pedinato; se avessero voluto utilizzare le informazioni raccolte, avrebbero potuto fare qualcosa”.

Secondo. La situazione non precipitò la mattina del 9 maggio ma la notte precedente. Questa considerazione apre ad una riflessione di non poco conto.
Sembrerebbe esserci un legame con le parole del terrorista Carlos nell’intervista rilasciata allo stesso Cucchiarelli nel giugno del 2008, successivamente confermate da Bassam Abu Sharif. Carlos sostenne che una fazione del Sismi preparò un ultimo, estremo tentativo di salvare Aldo Moro che prevedeva il trasferimento di alcuni brigatisti italiani dal carcere in un Paese Arabo. Carlos ritiene che l’operazione fallì forse per l’imprudenza di Bassam Abu Sharif che nell’agosto del 2008 confermò che avrebbe potuto salvare Moro ma non commise nessuna imprudenza: chiamò un numero “speciale” lasciando un messaggio dopo l'altro ma senza avere nessuna risposta.

Una annotazione, infine, sull’apertura di Fanfani. Se la sera dell’8 maggio la situazione era ben diversa e gli eventi precipitarono nel corso della notte, Fanfani non avrebbe avuto bisogno di annunciare, in sede di Consiglio Nazionale della DC la sua posizione di rottura nei confronti della fermezza. A maggior ragione se fosse stato al corrente della notizia del ritrovamento del corpo di Moro prima delle 11 del mattino.

(Intervista completa a Carlos >qui<) (Intervista completa a Bassam Abu Sharid >qui<)

Terzo. La notizia della morte nei palazzi del potere sarebbe arrivata molto prima del ritrovamento della R4 in via Caetani e l’uccisione di Moro non fu la conseguenza di qualcuno che “fregò” Cossiga. Forse di qualcuno più forte (o meglio attrezzato) che operava in contrasto con gli interessi con i quali si muoveva chi stava agendo per conto del Ministro dell’Interno, nel cercare una via per salvare la vita ad Aldo Moro. E questo vuol dire che una trattativa c’era, che qualcuno la sabotò e che il Governo era aggiornato costantemente dell’evolversi della situazione.
E se tanto mi dà tanto, chi sabotò la trattativa e contribuì in maniera determinante all’uccisione di Moro, fu diverso da chi, a livello internazionale, stava dando una mano al governo per giungere ad un esito positivo. Il governo fu probabilmente aiutato dagli alleati di sempre…

Dulcis in fundo una considerazione, parzialmente nota, riguardo l’operazione e l’autonomia delle BR. "Le BR rapirono moro in autonomia, secondo una loro logica, ma senza l'intenzione di ucciderlo: ne é prova il fatto che lo interrogassero a volto coperto. Dopo pochi giorni però il sequestro cambiò di significato, natura e quindi anche conclusione". E ancora: "Non credo che ci fosse bisogno di dare a Moretti l'ordine di agire, perché i brigatisti sapevano già cosa fare; certo c'erano delle persone sopra Moretti, che non sono mai state scoperte".
Una chiara chiamata di correità verso le forze ed i poteri internazionali. E, forse, un’allusione musicale?
 
Di Manlio  18/06/2009, in Storia (1887 letture)
Un gruppo su FaceBook per URLARE: vogliamo la verità su Piazza Fontana!

Quest'anno, come sai, ricorre il 40° anniversario della strage di Piazza Fontana e sarebbe bello poter giungere al 12 dicembre in maniera diversa dagli scorsi anni.
La giustizia ha scagionato tutti i colpevoli che in primo grado erano stati condannati. Ma la verità giuridica è solo una parte di verità: esistono anche la verità storica e, soprattutto, la verità politica.

Avrai sentito parlare dell'inchiesta di Paolo Cucchiarelli da poco pubblicata con l'editore Ponte alle Grazie intitolata "Il segreto di Piazza Fontana". E' un testo articolato, un'inchiesta solida, che partendo dagli elementi dimenticati, occultati o sottovalutati nelle inchieste giudiziare dimostra, in maniera inequivocabile, come le bombe del 12 dicembre 1969 a Roma e Milano fossero il risultato di un disegno architettato dai servizi segreti, portato avanti dalla strategia "della seconda linea" della destra eversiva e che ha visto il coinvolgimento degli anarchici come vittima di una trappola che era stata preparata con cura i tutto il 1969.

Un lavoro immane, dove tutti gli elementi del puzzle si incastrano alla perfezione per giungere ad una nuova ipotesi su come andarono realmente le cose. Ipotesi solida e confermata da molti riscontri e testimonianze presenti nel libro.

Come è stato accolto questo lavoro? La risposta unanime del "potere" è stata un velo di silenzio che, screditando a priori le conclusioni di Cucchiarelli, ha l'obiettivo di non far leggere l'inchiesta al grande pubblico.

Ma come? Solo poche settimane fa il Presidente Napolitano aveva esortato a scovare la verità sugli anni delle stragi e della lotta armata perché una riappacificazione è ancora possibile, perché ci sono le condizioni, e adesso che si avrebbe la possibilità concreta di avere dei nuovi elementi per individuare mandanti e colpevoli, si fa finta di niente?

Allora, cari politici, le vostre sono solo parole di comodo da utilizzare nelle occasioni ufficiali insieme alle vittime del terrorismo...

Quando la verità non fa comodo alla politica, ai gruppi di potere, ai reduci di quegli anni, alle strutture delle istituzioni si preferisce dimenticare.

Io non voglio dimenticare. Per questo ho creato un gruppo su FaceBook nel quale vorrei che ti iscrivessi per non far cadere nell'oblio forse l'ultima possibilità che abbiamo di uscirne con la verità. Dopo sarà troppo tardi.

Visionare il gruppo all'indirizzo http://www.facebook.com/group.php?gid=111480141059&ref=nf sarà a breve presente anche lo stesso Cucchiarelli che ci aggiornerà e discuterà con noi dei risultati della sua inchiesta.

Se ti va di parlare e se vuoi opporti a coloro che "censurano a prescindere", ti aspetto.
Se vuoi dare un contributo ancora più efficace, informa i tuoi amici di questa iniziativa e spingili ad iscriversi.
 
Mi sia concesso di prendere in prestito un famoso verso del Sommo Poeta. Ma mi sembra che possa ben sintetizzare l’atteggiamento di chi ha per anni chiesto e cercato la verità sulla strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 (per la giustizia rimasta senza colpevoli dopo 11 gradi di giudizio) e, adesso che ci sono delle vere novità sulle quali aprire un dibattito serio che possa aiutarci a trovare una parola definitiva su esecutori e mandanti, stende un pietoso velo di non curanza per evitare di fare i conti con la propri storia (e quella altrui).

E’ uscito in libreria d un paio di settimane, un testo molto atteso. Un’inchiesta che, analizzando in maniera certosina tutti gli elementi a disposizione (molti dei quali ignorati, occultati o cancellati alla magistratura) ricostruisce una verità giornalistica che tiene conto di tutti i tasselli e li ricompone con un perfetto incastro.

Il segreto di piazza Fontana (di Paolo Cucchiarelli) non vuole essere verità giudiziaria. E’ un’inchiesta giornalistica che partendo dai fatti e costruendo su di essi delle nuove analisi arriva ad un’ipotesi logica che riesce a tenere tutto insieme.

La scelta della casa editrice Ponte alle Grazie è stata di effettuare il lancio in assoluta riservatezza, e solo il giorno prima della conferenza stampa è trapelata qualche indiscrezione. Nei giorni successivi, alcuni autorevoli quotidiani (Corriere della Sera, Manifesto, L’Unità) hanno commentato le sintetiche informazioni offerte ai giornalisti sostenendo l’impossibilità di una tesi come quella avanzata da Cucchiarelli. Ovviamente, senza aver letto una sola riga del suo imponente lavoro (700 pagine di pura inchiesta).
Ma come? Il 9 maggio, in occasione dell’ultima celebrazione della “Giornata per le vittime del terrorismo” non eravamo diventati tutti amanti della verità? Ed il Presidente Napolitano non aveva invitato tutti a contribuire alla ricerca di quei frammenti di verità che ancora mancano all’appello?

E cosa succede neanche un mese dopo? Che si hanno a disposizione 700 pagine per confrontarsi, dibattere, approfondire, ma la scelta politica (perché di questo si tratta) è che cali il silenzio su quella che potrebbe essere la svolta, dopo 40 anni, sull’evento che inaugurò, suo malgrado, anni spietati di sangue e conflitti?

E allora vorrei sottoporre alla vostra attenzione l’unico dibattito che al momento ci è consentito osservare. Protagonisti Aldo Giannuli, storico di riconosciuto valore che ha avuto il merito di far emergere molti documenti “scottanti” sul nostro passato (fu sua la scoperta de L’Anello) e lo stesso Paolo Cucchiarelli giornalista serio e obiettivo che ha svolto un lavoro decennale certosino e non asservito alle tesi di comodo (sue o dei gruppi political-chic).

Giannuli ha recensito, sul suo blog il lavoro di Cucchiarelli invitando l’autore a rispondere alle sue critiche. E la risposta di Cucchiarelli non si è fatta attendere, puntuale e precisa, a sottolineare che se si critica si deve aver letto bene ciò che si critica e se lo si è letto bene si può anche discutere dei contenuti.

Ma la critica “a prescindere”, tanto per sbandierare un drappo apparentemente intonso, mi sa tanto di censura. O, peggio, di voler togliere la parola agli altri con la violenza della propria arroganza.

E allora non diciamo più che la vogliamo questa verità. Non ce la meritiamo. Perché siamo davvero un “paese di merda” come ebbe il coraggio di affermare Antonello Piroso al termine di una bella puntata di Niente di Personale dedicata alle vittime dello stragismo.

Potete visionare in anteprima qui (alle 20.18 del 17 giugno Aldo Giannuli non ha ancora pubblicato la risposta) la contro-analisi di Paolo Cucchiarelli.
 
Di Manlio  25/05/2009, in Storia (2144 letture)
Nel bel libro inchiesta di Stefania Limiti “L’Anello della Repubblica” (Chiarelettere) si fa riferimento alla richiesta da parte de L’Anello alla Nuova Camorra di Raffaele Cutolo (latitante durante il caso Moro) di fornire informazioni per individuare il luogo di prigionia dove le BR tenevano il Presidente DC Aldo Moro.
Nell’inchiesta della Limiti emerge chiaramente che, attraverso Cutolo, L’Anello individuò la prigione di Moro in via Gradoli e che pur essendo in grado di liberare il Presidente DC, la struttura fu fermata da “importanti politici nazionali”.

Tra le tante circostanze che sembrerebbero collocare la scoperta della prigione di Moro in via Gradoli, la Limiti porta la testimonianza della signora Franci  una delle inquiline del 96/B (palazzina accanto a quella dove fu scoperto il covo brigatista il 18 aprile ’78) che notò dei gruppi di 7-8 persone che stazionavano davanti all’ingresso del cancello di accesso alle due palazzine del civico 96 ed avevano tutta l’aria di fare da pali (per maggiori dettagli rimando alle pagine 198-199 del testo).
Il tutto poi si interruppe quando la notte tra il 4 ed il 5 aprile la signora sentì un gran traffico di persone che salivano e scendevano dalla scala A andando verso i garage trasportando cose pesanti. Il tutto durò circa tre ore e la signora, impaurita, restò pietrificata nel suo letto non avendo il coraggio di affacciarsi per vedere cosa stesse accadendo.

Ci sono altre due testimonianze raccolte dal Reparto Operativo dei Carabinieri che parlano di queste persone viste nei pressi dell’ingresso dello stabile in questione e che sembravano controllare il traffico in transito verso il palazzo, l’ingresso di via Gradoli o la scala in ferro che scendeva verso i garage.
La signora Sanciu ha riconosciuto tra i personaggi impegnati in queste attività i tre brigatisti Teodoro Spadaccini, Antonio Marini e Giovanni Lugnini arrestati nell’ambito della scoperta della tipografia di via Foa e riconosciuti in quanto il quotidiano “Il Tempo” ne aveva pubblicato le fotografie. La Sanciu ha anche precisato che essi stazionarono in via Gradoli dalla fine di marzo sino all’11-12 aprile.
Elias Chamoun, invece, non solo riconobbe sia Spadaccini che Lugnini ma si disse certo di aver visto più volte il primo a bordo di un’Alfa Romeo scura che transitava più volte da via Gradoli. Disse anche di aver visto più volte Lugnini in via Gradoli e riteneva che abitasse in quella strada proprio al civico 96 da almeno un anno, tanto che era solito legare un motorino “Ciao” ad un’anta del cancello d’ingresso. Agli inizi del mese di aprile l’amministratore ebbe a lamentarsi con il Lugnini di questa sua abitudine (Chamoun assistette alla scena da poco lontano) e a seguito di ciò non ebbe più modo di notare né la moto né la persona.

Due testimonianze chiave che si aggiungono a quelle ritrovate dalla Limiti e che ci raccontano di una strana attività di sorveglianza di cui godeva quel caseggiato al civico 96 di via Gradoli.
E’ un’attività insolita per le BR questa sorveglianza esterna. Stavano li per solo per proteggere una base strategica o perché accanto a quella base c’era un tesoro più importante da preservare?

Un’osservazione, a scanso di equivoci.
Ovvio che a quel gruppetto non potesse essere affidata un’attività di difesa militare in caso di blitz e quindi il loro compito non doveva essere quello di protezione fisica ma di tutela logistico-informativa di un sito e, soprattutto, delle persone cui a questi luoghi avevano accesso.
Una specie di "service h24" che poteva garantire la comunicazione ed il contatto continuo tra parti interne e/o esterne che, in quel periodo, avevano grande necessità di interagire…
 
Di Manlio  17/04/2009, in Storia (1923 letture)
Non è mia abitudine parlare di libri in questo spazio perchè di recensione di libri ce ne sono a bizzeffe online.
E con i misteri fini a se stessi, come saprete, non vado molto d'accordo perchè ritengo che molte cose siano semplicemente verità nascoste che più o meno persone conoscono e che nessuno ha intenzione di rivelare per primo.
Allora succede che le cose emergano per caso, nel corso di inchieste che nulla c'entrano con le carte emerse.
Accade così che nel 1996 grazie alla determinazione del giudice Guido Salvini che indagava sul terrorismo nero, lo studioso Aldo Giannuli scoprì in un deposito sulla via Appia a Roma degli scatoloni pieni di documenti dell'Ufficio Affari riservati.

L'esistenza di 'Anello' o 'noto servizio' stava tutta in un documento nel quale si apprendeva che esso era nato per volontà del Generle Roatta (ex capo del SIM, il servizio segreto fascista) con un unico compito: ostacolare l'avanzata delle sinistre, ad ogni costo e con qualsiasi mezzo.

Stefania Limiti, giornalista e studiosa, è partita da quel documento per ricostruire la storia di 'Anello'. si è subito capito che il 'noto servizio' è stato coinvolto in eventi determinanti della nostra storia: la fuga del nazista Kappler dell'ospedale militare del Celio, la liberazione, grazie ad un accordo con la camorra, dell'assessore democristiano Ciro Cirillo, sequestrato dalle Br, la trattativa del Vaticano con le Brigate Rosse per la liberazione di Aldo Moro.

La Procura di Roma ha chiuso l'inchiesta su 'Anello' ritenendo che è in dubbio vi siano illeciti penali ma che non sono emersi riscontri. Verrebbe da dire: "e che ve li devo fornire io, i riscontri?". Strano modo di lavorare per una Procura che ipotizza degli illeciti ma non si pone il problema di verificarne esistenza e gravità.

Per fortuna che un'altra Procura, quella di Brescia che ha indagato sulla strage di Piazza della Loggia è intenzionata a fare chiarezza. Ed infatti, proprio di 'Anello' s'è parlato nella prima udienza del processo per la strage.

E' un libro inchiesta, ed è per questo che ho deciso di parlarne. Perchè l'inchiesta è forse l'unico modo che oggi abbiamo per svelare gli ancora tanti segreti che affliggono la nostra democrazia. Incompiuta perchè il troppo sangue versato è spesso stato versato invano, incompiuta perchè in molti, in questo Stato, hanno ancora di quel sangue sporche le mani.
L'inchiesta  è  accurata: un attento lavoro dell'autrice sui documenti arricchito da un ricco apparato di note.

Lo storico Giuseppe De Lutiis ha curato la prefazione mentre il giornalista Paolo Cucchiarelli la post-fazione. Due garanzie quando si parla di servizi segreti e terrorismo nero.

Nessuno aveva mai guardato nei cassetti fino in fondo, nessuno ha mai cercato di capire meglio il 'noto servizio' forse il principale strumento dello stato parallelo. Questa inchiesta ha cominciato a farlo, ma è solo l'inizio.

«Questo libro - spiega Stefania Limiti - è il frutto di un'inchiesta giornalistica. Ho messo insieme pezzo per pezzo di un grande puzzle. Anello, come ha scritto anche il professor De Lutiis nella prefazione, ha alterato gli equilibri politici e avvelenato la democrazia. Mi auguro che da qui si possano scoprire tutti gli agganci politici avuti»

Ecco, cara Stefania. E' proprio questo il problema, come ben sai.
Il tuo lavoro, probabilmente, potrà dare il via a quel percorso di ricerca delle responsabilità dello Stato che non sono solo di impreparazione o dovute alle 'deviazioni' di singole strutture. No, sono ben  altre. Sono dirette, sono da mandante consapevole.
Occorrerebbe iniziare a spiegare ai familiari delle tante, troppe vittime, per quale Stato i loro cari sono morti. Dubito che sia lo stesso Stato che credevano di servire.

Per approfondire:
Articolo di Andrea Purgatori su Vanity Fair
I lanci di agenzia sul lavoro di Stefania Limiti

Intervista di Alessandro Forlani a Stefania Limiti
This text will be replaced
 
Di Manlio  24/09/2008, in Storia (6409 letture)
Mio zio paterno, Antonio Castronuovo, è sempre stato attivo in politica e ricordo ancora, quando da bambino mi recavo al "paese" a casa di mia nonna, le sue interminabili liste di libri di politica, i quotidiani sempre sotto il suo braccio (a mo' di baguette) e le sue discussioni con il prete del paesino di 800 anime e l'allora sindaco democristiano. Era segretario della locale sezione di Carbone (Pz) paese del quale divenne sindaco nel '90 per opera di una riedizione di quel compromesso storico che solo 12 anni prima aveva portato tanti problemi alla nazione.

Spesso, soprattutto in estate, lui non c'era e mia nonna mi diceva che era andato in viaggio nell'est europeo per "studiare". Io ero troppo piccolo per interessarmi di quelle cose ma mi chiedevo cosa potesse avere da studiare a 30 anni  e perché non lo facesse in Italia.

Solo recentemente ho scoperto quale era il vero scopo dei suoi viaggi ed in particolare di uno a Sofia nell'ottobre del 1973, poco dopo l'incidente (attentato) cui era stato vittima il segretario del partito Berlinguer.
Tenetevi forte (e soprattutto si tengano forte coloro che monitorizzano il sito quotidianamente): Antonio Castronuovo si recava nei paesi dell'est per addestramenti clandestini, incaricato dai dirigenti filo-bulgari dell'epoca che, sostanzialmente, facevano capo ad Armando Cossutta.

Questa estate ho provato ad approfittare dell'esperienza e della cultura politica di mio zio, in una classica riunione di famiglia tutt'altro che clandestina. Gli ho chiesto cosa ne sapesse della Gladio Rossa, per avere una sua opinione, derivante anche dall'aver vissuto così in "diretta" quegli anni. La sua risposta mi ha sconcertato.
"Come, non lo sai che ero un gladiatore rosso che si andava ad addestrare nei campi bulgari?".

In un primo momento pensai di aver capito male, ma il suo sguardo non sembrava contemplare lo scherzo.
Poi ha cambiato espressione e con un sorriso che tratteneva a stento una forte risata ha aggiunto: "Hai letto il libro di Giovanni Fasanella sull'attentato a Berlinguer? Bene lui ha trovato il modo di insinuare, in maniera chiara e che lascia pochi dubbi, che un mio viaggio a Sofia nel '73 lasciasse sottintendere la partecipazione ad un campo di addestramento per gladiatori rossi..."

Scusa, scusa. Come? L'ennesimo scoop del giornalista di Panorama o una svista clamorosa?

Tornato a casa,
rimproverandomi di essermi perso la "perla", mi sono procurato il libro in questione e me lo sono letto con calma. Nell'edizione uscita in allegato con L'Unità nel 2006, a pagina 40 ho appreso allibito:
"[Cossutta] organizzava "viaggi-scambio", caldeggiando una degna accoglienza anche per una serie di oscuri dirigenti di sezioni di ogni angolo d'Italia, che presentava come "compagni che svolgono un'importante funzione". Quale fosse la natura dell'importante funzione di Umberto Pinna, segretario della sezione Serrenti di Cagliari o di Antonio Castronuovo, segretario della sezione Carbone di Potenza (per citare solo due dei personaggi che compaiono nelle lettere), Cossutta non lo specificava. Si trattava di militanti della cosiddetta Gladio Rossa, inviati nei paesi dell'Est per dei corsi di addestramento?"

Una prima osservazione mi è venuta da un termine preciso, 'oscuro', che può essere utilizzato sia per indicare il fatto che una persona non sia sotto la luce dei riflettori (quindi un po' nascosto dalla grande platea) ma anche e soprattutto per indicare una persona ambigua che ha da nascondere qualcosa. Mi ricorda quanto mi raccontò l'Avv. Guiso in un nostro colloquio ribadendomi quanto disse in Commissione Stragi:
L'8 maggio il "Corriere della Sera" pubblica un articolo in cui io da illustre cassazionista divento oscuro avvocato di provincia e Tobagi mi dice, in sostanza: "Caro Giannino, ti stanno preparando il piattino. Ti vogliono fermare"

Sono davvero sconcertato da tanta semplificazione.
Oltretutto essendo mio zio regolarmente in vita e assolutamente non in clandestinità  (nonostante avrebbe dovuto esserlo con un passato del genere) Fasanella avrebbe dovuto, come minimo, provare a contattarlo per avere una sua versione. Non che fosse obbligato, intendiamoci, ma se avesse voluto davvero portare un contributo di conoscenza e non di rimescolamento delle cose credo sarebbe stato il minimo.
Allora ho provato io a chiedere a lui qualcosa, anche perché credo la faccenda sia grave in quanto una simile leggerezza avrebbe potuto potrebbe portare a conseguenze poco piacevoli, considerando che c'era un'indagine in atto da parte della magistratura.

Come accennato in precedenza, mio zio approfittava dell'estate per andare a visitare paesi comunisti ed in genere si appoggiava a compagni delle sezioni del nord che erano più attive rispetto alla sua realtà lucana. Era una pratica diffusa all'interno del PCI, una tappa obbligata per chi volesse fare vita politica attiva e critica. In quel periodo si trovava a Milano e, tramite i militanti della locale sezione che frequentava, venne a sapere che il partito stava organizzando un viaggio di scambio-culturale a Sofia e che cercavano un compagno lucano disponibile ad aggregarsi. Lui fece qualche telefonata in segreteria regionale ma nessuno dei militanti lucani all'epoca aveva il passaporto. Nessuno, tranne lui, che avendo abitudine a viaggiare ne era in possesso.
A quel punto decide di sfruttare l'occasione e di aggregarsi alla comitiva. Una delegazione di 7 compagni di varie sezioni italiane, guidata da Antonio Papalia, segretario della Federazione di Padova.



La "russa" Moskovic, Balilla d'oltre cortina

La visita durò circa due settimane e gli italiani furono portati in giro per fabbriche, scuole, uffici del partito, sempre con grande seguito e controllati in ogni movimento: basti pensare che i bulgari utilizzavano le famose auto Moskovic e i sette italiani erano divisi in tre auto su ciascuna delle quali c'era un interprete ed un compagno bulgaro di accompagnamento. Il corteo si apriva e chiudeva con un'altra auto.
Mio zio, per le sue attività di studio che ancora lo caratterizzano e lo impegnano per quasi tutta la giornata, era solito fare diverse domande. Ad alcune di esse, ritenute "scomode" nell'ambito dei rapporti tra i partiti, il capo delegazione dopo averle etichettate come "spegiudicate" impedì all'interprete di formularle ("Compagno Castronuovo, evitiamo queste domande poco opportune...").

Insomma, mi sembra di aver capito che l'unico addestramento che si trovò a fare lo zio, fu quello nell'utilizzo adeguato della forchetta sicuramente perso a causa del cibo bulgaro che non era certamente all'altezza dei mitici "maccheroni al sugo" di mia nonna!
Di quel viaggio, lo zio conserva un dettagliato diario che ogni sera compilava al rientro in albergo. Una quantità sostanziosa di appunti che mi auguro un giorno possano far capire alla solita cricca di storici e giornalisti alla ricerca di facili scoop che i viaggi-scambio dell'epoca erano una cosa seria e che c'erano dei militanti di base che li frequentavano arricchendo il proprio bagaglio culturale e portando delle voci critiche verso ciò che non ritenevano giusto nell'applicazione dell'ideale comunista.

Che poi potesse esistere una Gladio Rossa e che militanti comunisti potessero recarsi "clandestinamente" nell'Est europeo, questo è un altro discorso.
Ma ritengo che, poichè tali personaggi non erano stupidi, gli addestramenti non fossero organizzati con tanto di lettera ufficiale e di materiale che sarebbe diventato, un giorno, patrimonio dell'archivio storico del partito che, almeno ufficialmente, non conosceva simili "entità parallele". La presenza di carte "ufficiali" secondo me sarebbe solo la dimostrazione che se ci fosse stata una organizzazione paramilitare del PCI, magari in collegamento con equivalenti strutture della terza internazionale, come minimo la direzione centrale del partito ne era a conoscenza e l'approvava. E quindi, anche il candido Berlinguer, non era esente da colpe.

E, anzi, a sentire i racconti dei vecchi militanti, il PCI era una cosa seria e, soprattutto, unitaria. Non esistevano le correnti ma solo delle visioni personali diverse tra i dirigenti della segreteria centrale. Chiunque fosse in disaccordo con la linea ufficiale del partito, ne era automaticamente fuori. Se ci sono stati dei dirigenti o dei militanti di primo piano che si sono mossi lungo strade poco "chiare" lo hanno fatto esclusivamente sotto il tacito consenso della direzione che, vuoi per calcolo vuoi per impossibilità, non avendo espulso i responsabili ne ha consentito l'operato.
Se c'è stata una Gladio Rossa o se ci sono stati legami stretti tra militanti del PCI e brigatisti, sfatiamo il mito che il tutto sarebbe avvenuto in maniera clandestina e occulta al partito. Quando ho chiesto ad alcuni senatori dell'epoca cosa ne pensassero delle rivelazioni che l'ex direttore dell'Asinara Cardullo ha confidato proprio a Fasanella (il senatore triestino definito "il vecio", ritenuto da Cardullo ai vertici delle Br) ho solo ricevuto conferme che dei contatti e delle idee del collega di partito, tutti erano a conoscenza.
Perché nessuno è mai intervenuto?

E allora è più giusto, per l'onore della verità, andare a "pescare nel mucchio" rimescolando i fatti e creando nuova confusione o iniziarsi a chiedere seriamente quale sia stato il vero atteggiamento del PCI nei confronti di quei movimenti e quegli anni e quali comportamenti siano stati decisi e portati avanti alle "Botteghe Oscure"?
 
Di Manlio  13/02/2008, in Storia (2045 letture)
"... e la sua salma è immersa nei fondali limacciosi del Lago della Duchessa."

Sembrerebbe proprio che chi ideò il falso comunicato n. 7 che annunciava la morte di Moro mediante suicidio, avrebbe potuto tranquillamente utilizzare il concetto di sacrificio.
Almeno stando alle parole di Steve Pieczenik, intervistato nell'ambito di un documentario dal titolo "Gli ultimi giorni di Aldo Moro" andato in onda sabato 9 febbraio su France5.

Pieczenik fu il consulente, specializzato in mediazioni, che gli Stati Uniti offrirono all'Italia per gestire la complicata vicenda del rapimento del Presidente della DC ad opera delle Brigate Rosse. Il suo ruolo fu, sostanzialmente, quello di assicurare la tenuta del Governo italiano alla linea della fermezza e quando si rese conto che il suo compito era esaurito (in quanto tale fermezza non fu mai messa in discussione) se ne tornò negli USA.

Pieczenik è stato già intervistato nel libro "Nous avons tuè Aldo Moro" a cura del giornalista francese Emmanuel Ammarà che sarà pubblicato a breve anche in Italia. In quella occasione ebbe già modo di assumersi la paternità dell'idea del falso comunicato numero 7 realizzato per dare un colpo psicologico alle BR e che, sempre secondo l'americano, "fu per loro un colpo mortale perché non capirono più nulla e furono spinti così all'autodistruzione". Vai alla notizia

In questa nuova intervista, Pieczenik ha aggiunto altro. In sostanza ha affermato che Aldo Moro era necessario sino al compimento della sua strategia politica, che avrebbe ridato stabilità all'Italia.
Per ottenere questo però, c'era un prezzo da pagare: la morte di Moro. Che si rivelò necessaria quando, dopo quattro settimane dal rapimento, il rischio che potesse cedere ai propri carcerieri rivelando informazioni riservate diventò concreto.
La decisione finale se dovesse vivere o morire, stando alle parole di Pieczenik, fu presa da Cossiga o Andreotti.




L'ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga è stato intervistato in occasione del documentario. Dopo aver visionato le immagini di Pieczenik ha commentato: "Doveva evitarsi la trattativa, perché si sarebbe sgretolato lo Stato, anche a costo di farlo morire".

Se volete vedere il video, questo é il link.

Secondo voi, sà più di conferma o di smentita?
 
Di Manlio  13/09/2007, in Storia (1762 letture)
In questa sezione sono pubblicati interventi legati ai documenti e alla ricerca storica
 
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