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Chi controlla il passato controlla il futuro; chi controlla il presente controlla il passato

George Orwell
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Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
Di Manlio  13/09/2007, in Pensieri liberi (1672 letture)
In questa sezione sono pubblicati interventi per la condivisione del libero pensiero di ciascun autore.
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Di Manlio  13/09/2007, in Giudiziario (1692 letture)
In questa sezione sono pubblicati interventi legati alle novità o agli aspetti legati ai processi.
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Di Manlio  13/09/2007, in Attualità (1563 letture)
In questa sezione sono pubblicati interventi legati ai fatti di cronaca legati agli anni '70
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Di Manlio  13/09/2007, in Storia (1812 letture)
In questa sezione sono pubblicati interventi legati ai documenti e alla ricerca storica
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Di Manlio  13/09/2007, in Politica (1665 letture)
In questa sezione sono pubblicati interventi legati all'attualità politica o alla politica contemporanea
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Di Manlio  03/09/2007, in Interviste (6296 letture)

Il contesto degli anni a cavallo tra la fine dei '60 e l'inizio dei '70 era caratterizzato dalle lotte operaie nelle grandi fabbriche, le lotte per la casa e per il lavoro e, in un secondo momento, le lotte studentesche. Un periodo segnato anche dalle stragi, interpretate da molti come la risposta violenta dello Stato a quelle lotte...

 

R. Affrontare la complessità dello scontro che lei accenna con queste premesse,(i movimenti, la reazione, le stragi ecc) e tutti gli elementi che lo hanno attraversato, più che una risposta necessiterebbe un libro. Cercherò di limitarmi a sintetizzare il tutto attraverso delle date che diano per sommi capi lo schema dei vari passaggi che quella realtà ha secondo me espresso. 

“Tra la fine dei ’60 e l’inizio dei ‘70” credo che sia un conteggio limitativo, non solo sul piano temporale, ma anche su quello politico e sociale di quel fenomeno.

E’ vero che il “Movimento” visto con la M maiuscola porta il ‘68-’69 come data della sua più elevata visibilità, ma io ritengo che per coglierne la complessità e la sua immensa capacità di tenuta e durata protrattasi 15 anni, le date da osservarne come “preludio” vengano ben prima.

E’ all’inizio degli anni ’60 che secondo me si chiude in Italia la fase del primo dopoguerra, quella della “ricostruzione” nella quale pur in presenza di contraddizioni e lotte, quella per la sopravvivenza, è ancora dominante. E’ da li che iniziano a vedersi i primi segnali di una società in una profonda fase di passaggio sociale e politico prodotto dallo sviluppo del nuovo modo di produzione capitalistico (la catena di montaggio, l’operaio massa) con tutte le contraddizioni che questo produrrà. Il luglio ’60 con i suoi scontri di piazza e i suoi morti è sì la risposta al governo Tambroni ed al ritorno dei fascisti sulla scena politica governativa, ma è ancor più il segnale di una nuova figura sociale che sta materializzandosi e prendendo forma nel paese. I ragazzi con le “magliette a striscie” sono l’espressione di una brace che fora la cenere e comincia ad esprimere e rivendicare dei bisogni che sono indotti dallo sviluppo che è avvenuto nella società capitalista nel dopoguerra.

Una brace che porta segnali che sono sociali, generazionali, culturali, ma che, messi assieme divengono un grumo che pone problemi politici, con la P maiuscola, non quella del palazzo. 

Come sempre tutti i fenomeni storici sono la somma di mille contraddizioni vecchie e nuove, nazionali ed internazionali, che si amalgamano, si contorcono, e producono il potenziale dell’esplosione. Ma il nuovo che esprime quel fenomeno dei primi anni ‘60 è prorompente ed è da lì secondo me che inizia il percorso sociale e politico che poi porterà agli sviluppi del ‘68-’69. 

Piazza Statuto è del ’62, e non è sola, ed è chiaramente il segno ormai di una rottura totale, da parte delle nuove figure sociali che stanno nascendo, con la politica del Pci e le vecchie forme organizzative della sinistra del primo dopoguerra nel nostro paese. E’ attorno a queste nuove figure che inizia anche nel mondo intellettuale una trasformazione degli interessi di ricerca, la quale porterà al sorgere di strumenti di analisi come quella dei “Quaderni”, etc.  

Capire questo è secondo me importante per spiegarsi il livello di sedimentazione che quella realtà ha prodotto, e i tempi della sua tenuta.         

Le stragi. Le stragi sono la risposta dello Stato, di una parte di esso, in quella fase, allo sviluppo della realtà di scombussolamento sociale e politico in corso. L’obiettivo che si pongono con quegli atti, è quello di “bloccare” il paese. Impedire che le tensioni che lo stanno attraversando possano spingerlo verso una sua trasformazione rivoluzionaria. Costringere sotto ricatto le forze politiche istituzionali, in particolare il Pci, ad ergersi a difensore dello stato di cose presente, contro il pericolo di una sua trasformazione reazionaria. E’ un nodo importante questo da cogliere.

La situazione sociale e politica del momento è rivoluzionaria. Le stragi servono ad impedirne un suo sviluppo. Trent’anni dopo lo stesso Cossiga parlerà del ruolo “stabilizzante” di quelle stragi. Ritengo che mai parola d’ordine di quel periodo fu più centrata che l’identificarle appunto come “stragi di Stato”.    

 

Lo scenario storico vede le lotte sociali al centro di uno scontro politico-sociale di livello elevatissimo. La politica, ed il PCI in particolare, si mostrò sorda alle richieste provenienti da quelle lotte. Ci fu un arrocco, più che un tentativo di comprendere e rispondere...

Il PCI, per molti giovani di sinistra dell'epoca, rappresentò un po' una delusione. Larghe parti della sinistra estrema entrarono in contraddizione con la linea ufficiale del partito. Il '68, in questo senso, rappresentò una rottura con il partito e gli anni successivi furono il tentativo di proporre un'alternativa...

 

R. Il Pci era stato costruito e si era sviluppato nel primo dopoguerra in un bagaglio storico e sociale che veniva messo fortemente in discussione da quelle nuove figure operaie e giovanili che lo sviluppo capitalista di quegli anni aveva prodotto.

L’operaio del Pci era stato quello che nel ’45 aveva difeso le fabbriche dai tedeschi, le aveva ricostruite dopo i bombardamenti, come “ricchezza del paese”, anche se di proprietà di padroni che prima erano stati un buona parte fascisti. La figura classica dell’operaio del Pci era quella dell’operaio professionista che “creava” produzione, che “partecipava” allo sviluppo del paese che proveniva dalla guerra e dalla miseria.

Il risultato di questi sacrifici andava al padrone, ma per lui “militante”, queste erano solo le premesse del sol dell’avvenire, o nella parte più cosciente, della ricchezza prodotta nel paese, da raccogliere poi in un futuro prossimo con … “la presa del potere”.

La nuova figura dell’operaio massa, sorta con lo sviluppo della produzione capitalista del dopoguerra, radeva al suolo questa ideologia, la base di questi “valori”.

Il nuovo operaio non era più “solo” uno sfruttato che doveva fare propria, attraverso la lotta politica e sociale, quella produzione. Ne era una figura “estranea”. La nuova organizzazione della produzione e del lavoro, la catena di montaggio non gli appartenevano: ne viveva solo la sua estraniazione, assommata ai ritmi dello sfruttamento, dell’emarginazione e dalla precarietà delle condizioni nelle quali viveva. Questo in relazione con una società che si sviluppava e produceva ricchezza… per pochi. Rabbia e lotta “spontanea”, che parte da bisogni primari, (la sopravvivenza, la casa..) ma che prende presto coscienza della sua potenzialità: il padrone per produrre la sua ricchezza non può in quella fase fare a meno di lui. Questo rende politico lo scontro.

Le parole d’ordine che lo attraversano non sono solo sul salario, sono oggettivamente, e pian piano per molti anche soggettivamente, di potere.

I “bisogni” del salario, dei ritmi, visti come staccati dalle “leggi” della produzione e del mercato. 

Questo il Pci non poteva capirlo. Era estraneo alla sua storia ed al suo percorso sia di analisi che di esperienza politica. Lo sviluppo del capitalismo produceva un nuovo quadro sociale, e questo a sua volta, si immergeva in una condizione internazionale (vedi tracollo del colonialismo, Cina, Vietnam, America Latina) che rendeva potenzialmente rivoluzionaria la situazione.

E’ questo secondo me che va tenuto presente per comprendere la “sordità” del Pci di fronte a quella realtà. Non poteva guidarla perché non poteva nella sua interezza concepirla.           

 
 

L'esperienza delle Brigate Rosse nasce dalle lotte sociali, nei quartieri e nelle grandi fabbriche fuori dalle logiche partitiche ed istituzionali. Le "avanguardie" che portano avanti quel tipo di lotte non si pongono come una rottura dal PCI ma sono un'altra cosa rispetto al PCI. Quali sono state le logiche che hanno portato dalle lotte sociali alla scelta della lotta armata?

Scelta che si relaziona con l'evoluzione delle lotte che portano alla formazione di una sinistra comunemente definita extraparlamentare all'interno della quale si rafforza il pensiero che "era possibile vincere". In un certo senso voi proponente una sinistra offensiva mentre la sinistra istituzionale, da voi criticata, mostrava un eccesso di gioco difensivo...

 

R. Le Brigate Rosse nascono da un percorso interno a quella situazione. E’ un percorso nel sociale, nella materialità dello scontro in corso, ma è ancor più il prodotto di una interpretazione tutta politica della fase nella quale ci troviamo, che ne fanno i suoi militanti.

E’ da li che ne vengono i passaggi e le scelte. Il prodotto di una analisi delle condizioni esistenti in quel momento, ed una scelta politica che abbiamo ritenuto la naturale conseguenza.

Le lotte in corso in quel periodo in se, non sono “soggettivamente” contro il Pci, ne sono fuori oggettivamente.

Sono “fuori dalle logiche partitiche ed istituzionali”, ma non sono fuori dalla politica.

Proprio perché non si pongono il problema della “mediazione” della politica, sono oggettivamente politiche a tutti gli effetti: sono antagoniste. Sono senza mediazione possibile. Il “salario uguale per tutti”, “la casa si prende, l’affitto non si paga”… due delle tante parole d’ordine espresse da quel movimento, sono fuori dalla possibile contrattazione sindacale. La classe operaia non si “dialettizza” con la controparte padronale: esige direttamente una trasformazione totale della sua condizione di vita.

Questo è chiaro che il movimento lo vive come un’onda prodotta dalle sue condizioni precarie ( emigrato emarginato e senza una casa, schiavo di un lavoro che lo rende un ingranaggio della catena, ecc) che esige trasformare. Ma è proprio da questo inizio delle lotte che prendono vita due fenomeni importanti, i quali trasformano oggettivamente lo scontro: 1) la scoperta da parte del movimento della sua forza e di conseguenza della potenzialità dirompente che contiene la sua lotta; 2) la presa d’atto da parte della sua avanguardia cosciente che questo potenziale può esprimersi su problematiche ben più ampie, in grado di modificare nella sostanza politica lo stato di cose presente: la questione del potere.

E’ quello che è successo allora. Ed è da questo, che susseguono le scelte politiche ed organizzative che man mano poi prenderanno forma.

La questione della lotta armata sta nel processo, ma è un suo sviluppo. E’ una scelta soggettiva, ma che è via via sviluppata dalla condizione dello scontro. Ma qua siamo già sulle forme organizzative.

Le prime Brigate Rosse nascono nelle grandi fabbriche del nord come forma organizzata, all’interno delle lotte, in grado di tenere lo scontro in atto di fronte alla controffensiva padronale che sta sviluppandosi (licenziamenti delle avanguardie, denunce e processi, ecc). Costruire cioè un contropotere organizzato all’interno della fabbrica che sia in grado di condizionare le scelte e il comportamento della controparte. Questa è la prima fase delle Brigate Rosse.

Lo scontro col Pci e con il sindacato in questa condizione è tutto politico: mettere in evidenza come un’altra forma organizzata all’interno della classe operaia sia in grado di sostenere quelle esigenze operaie che loro stanno svendendo al padronato.

E’ da questa realtà che man mano si dipana la maturazione di un processo prodotto da mille rivoli.

Il primo è che la lotta, portata a quel livello, prende anche nella sua sostanza l’altezza dello scontro politico, quella di un dualismo di potere sulla lotta per il comando; il secondo è che la contraddizione esce dalla fabbrica, attraversa la vita sociale della metropoli, divenendo così sempre più contraddizione politica con l’istituzione che la governa. Questi sono i fenomeni oggettivi che sorgono da quei passaggi. Ma non sufficienti per spiegarne gli sviluppi.

Infatti in quella condizione, anche buona parte della sinistra antagonista di quegli anni (Potere Operaio; Lotta Continua, ecc ecc), in un modo o nell’altro c’era arrivata, seppur con forme organizzate tra loro differenti.

Quello che fanno i militanti delle Brigate Rosse è un passaggio oltre. L’analisi che esse fanno è tutta politica, ed essa, li porta alla conclusione che ci sono i potenziali e le condizioni per trasformare quelle lotte sociali ed economiche in scontro politico per il potere.

Qui sta il filo rosso per seguire man mano lo sviluppo dei percorsi e delle scelte successivamente fatte dall’Organizzazione . Ovviamente questa scelta soggettiva si è via via misurata, scontrata e condizionata, dagli sviluppi dello scontro in atto nel paese, e dalle scelte politiche della controparte. Basti vedere P.za Fontana, ecc. Ma la cosa che ci tengo a chiarire è che il nodo delle scelte effettuate all’origine è tutto politico, e ne sta a monte, anche se ci si relaziona.

Forse, con l’aria che tira oggi, molti se leggeranno questo ci prenderanno per pazzi, ma noi (per fortuna e con orgoglio) eravamo “figli del novecento” e cioè pensavamo non solo che fosse possibile, ma anche che fosse necessario e giusto, come si dice ironizzando Lenin: “prendere il palazzo d’inverno”, cioè il potere politico dello stato.

Questa penso sia la chiave interpretativa prima, di “quali sono state le logiche che (ci) hanno portato dalle lotte sociali alla scelta della lotta armata”.

 
 

La sinistra istituzionale non rispose alle istanze provenienti dalle lotte: non seppe o non volle?

 

R. Quello che io posso interpretare delle scelte che il Pci fece in quegli anni è che siano state il risultato naturale di un miscuglio di problematiche composito, che erano poi il prodotto di tanti elementi: sviluppo del suo percorso storico, della sua composizione sociale, della collocazione politica del paese, ecc. Il ruolo di “frontiera” nel campo della politica internazionale nel quale si trova il nostro paese, in un mondo diviso in blocchi, con tutto ciò che significava e con le scelte conseguenti fatte al proposito da Togliatti, e man mano sviluppate dal partito dopo Salerno; l’ambito sociale e storico nel quale si è costruito il suo militante, (la “Costituzione” la “politica dei sacrifici”)… Tutti “principi” in contraddizione stridente con le problematiche che poneva l’operaio della catena di montaggio o lo studente di Valle Giulia in quegli anni.

Ritengo che in questo quadro di problematiche, nel partito non potesse che dominare l’incapacità di capire questa nuova realtà e i fenomeni che essa conteneva. 

Ciò che aveva di fronte era un movimento soggettivamente antagonista a quelle regole.

Date queste premesse, dal partito, come naturale, tendeva ad emergere una contraddizione che è “storica”, purtroppo, nel movimento comunista: chi negli ambiti sociali “miei” non è d’accordo con me è sicuramente un “nemico” o un provocatore prezzolato. Una storia che conosciamo bene.  

Con questa chiave di lettura è chiaro che poi non possa altro che determinarsi una classe dirigente del partito molto incancrenita, ed incapace non solo di dialettizzarsi con gli avvenimenti sociali, ma anche solo di “governare” quelle tensioni e quelle modifiche dirompenti, che in qualche modo lo coinvolgono. (Basti vedere dal suo interno la contraddizione “Manifesto”)    

 
 

Per molto tempo (e forse ancora oggi in qualche maniera accade ciò) le Brigate Rosse sono state sedicenti, cosiddette. Il 16 marzo, ad esempio, il Corriere della Sera utilizza le virgolette e scrive: Il Paese rifiuta il ricatto delle "Brigate Rosse". Perchè questo alone di mistero...

 

R. C’è un dato in politica, nella storia del movimento comunista, che è oggettivo: non ammettere la differenza di visione politica o sociale all’interno dell’ambito nel quale sei radicato.

Una brutta malattia, ma purtroppo esisteva… ed esiste. 

E’ chiaro che partendo da questa premessa, chi si muove diversamente da te in quell’area, è l’avversario da estirpare.

Il passo successivo è che ovviamente non può essere che… “al servizio del nemico”

Un caso che può dare luce di questo, sta proprio qui a Reggio Emilia, da dove vengo io. La maggioranza di noi (5/6) ,che eravamo divenuti nomi noti come brigatisti, venivamo dal Pci, e tutta la città lo sapeva benissimo… Il mistero di Pulcinella. Eppure pubblicamente esistito per anni.

Ritengo comunque che, al di là della propaganda dei mezzi di comunicazione, in quegli anni ci siano state situazioni e condizioni nel paese tra loro molto differenti. Un problema è ciò che appare sui giornali, un altro è ciò che sanno, pensano o vivono, quegli operai e quei cittadini che oggettivamente si relazionano nelle fabbriche o nei quartieri con la nostra presenza attiva di propaganda e di combattimento. Nelle grandi fabbriche del nord, la presenza brigatista era ben conosciuta ed accettata, anche se non necessariamente sempre condivisa, da buona parte degli operai presenti. Non è un caso che è proprio quando arriviamo a Guido Rossa che recepiamo, seppur in ritardo, il grosso mutamento in corso nella realtà del paese. Che una fase politica si stava chiudendo. O in molti settori era già chiusa.

Per arrivare a come poi i giornali o i mezzi di comunicazione della classe al potere gestiva l’informazione, è chiaro che essa veniva usata come strumento di guerra contro l’avversario.

E’ una legge di tutte le guerre, affermare e propagandare che il nemico, è prezzolato, brutto e cattivo. Su questo basti leggere ciò che successivamente Cossiga, una volta smesso il suo ruolo di ministro, e ancor più una volta sconfitti noi, scrive. Arriva tra le altre cose ad affermare placidamente degli svariati incontri e riunioni svoltesi in quegli anni tra lui e Pecchioli per concordare quali falsità mettere in circolazione con l’obiettivo politico di screditarci e isolarci. Niente di nuovo sotto il sole.    

 
 

La risposta del PCI alle lotte nelle fabbriche fu il tentativo di realizzare un'unione tra le classi, anche sulla base dell'esperienza del Cile che, a detta del PCI, dimostrava come non fosse possibile andare al potere se non con un accordo con la borghesia. La sinistra rivoluzionaria, invece, riteneva che c'erano le condizioni per continuare lo scontro ad un livello superiore...

 

R. Quello è un passaggio. L’analisi di Berlinguer sul colpo di stato in Cile è sicuramente una accelerazione di questo percorso. Ma non è secondo me la sua origine. Da parecchio tempo il partito traccheggiava tra l’ambiguità e il vivere di rendita. “La resistenza”, “la Costituzione”, “la Pace”, tutti elementi sicuramente radicati nella sua anima di fondo, tra i suoi militanti, ma che partivano tutti da un dato molto preciso e fatto proprio già da Togliatti quando è venuto via dall’Unione Sovietica: un pianeta diviso in blocchi; e noi appartenevamo a quello occidentale.

Le tensioni “Secchiane”… “ha da venir baffone”… ecc ecc, erano sovrastruttura all’interno del partito che coinvolgevano una certa base, e ancor più noi giovani, ma non era la linea e le prospettive del suo progetto politico.

La trasformazione sociale che produce quel movimento esce da questo impianto.

La sinistra rivoluzionaria che da quella realtà prende forma, per davvero ragiona e vive, immaginando la possibilità di una rivoluzione totale. Qualcosa che modifichi, nella sostanza, il modo di produzione esistente, la collocazione internazionale del paese, i rapporti in atto tra le classi sociali. Quello che si esprimeva non era una tattica diversa all’interno della trasformazione della stessa società. Erano due strategie differenti per due società differenti. Qui sta il nodo.   

 

Quando si parla degli "anni di piombo" si parla quasi sempre di Brigate Rosse e delle altre organizzazioni rivoluzionarie, contando i morti e criminalizzando un'intera generazione. Quando qualcuno esce di galera o fa qualcosa come personaggio pubblico (alludo alla recente semiliberta' concessa alla Balzerani o alle tante conferenze di Curcio) si sollevano i soliti cori di coloro che vorrebbero veder marcire in galera gli ex militanti di organizzazioni di lotta armata.
Il fatto che in Italia vi siano state stragi di "Stato", attentati, tentativi di golpe, repressione contro anche forme pacifiche di lotta sociale sembra interessare davvero poco e scandalizzare ancor meno. C'e' qualcosa che non torna, o no?

R. Molto semplice: perché un movimento rivoluzionario che attacca “il palazzo”, che pone come elemento base della sua stessa esistenza il tentativo di scardinare le basi della società capitalista, è un nemico totale, assoluto. La sua presenza antagonista mette in discussione gli elementi basilari del potere, dello Stato. Va annientato, non solo organizzativamente, ma ancor più va creato su di lui il terrore per le generazioni a venire, impedire così con ogni mezzo che possano avere anche solo la malsana tentazione di poterci riprovare.

Le stragi, i tentati o recitati golpe, le repressioni contro anche le forme pacifiche di movimento e lotte sociali, stanno nel DNA dello Stato, del potere politico e delle sue stesse leggi di esistenza.

In Italia è da quando ero ragazzo che si parla di “servizi segreti deviati”, ma nessuno ha mai avuto la malaugurata idea di “raddrizzarli”. Perché così servono, e così continueranno a servire. Ogni tanto, al massimo, c’è qualche grido “al lupo”, ma più che altro per far sentire qualche rumore di sottofondo che ricalibri all’interno del quadro politico i rapporti di forza tra strutture, apparati e forze politiche. Niente più.

 

.. e quando si parla di Brigate Rosse, si finisce sempre per parlare della vicenda Moro. Ma la storia delle BR è un'altra, fatta di centinaia di azioni contro esponenti che nell'ambito delle lotte sociali erano visti come nemici...

 

R. Il sequestro Moro è una azione che avviene nel 1978. Le Brigate Rosse sono presenti nello scontro italiano dal 1969-70, quando partono nella attività combattente con gli incendi delle macchine dei capi officina alla Pirelli, alla Sit-Siemens di Milano….

Quasi dieci anni di presenza, di azioni grosse e piccole, di disarticolazione o di propaganda, di scelte sviluppate nella conduzione dello scontro, con passaggi politici man mano praticati.

Il fronte di intervento è stato vasto e articolato per tutta la storia dell’organizzazione, dalle fabbriche e le sue strutture di direzione, alla Confindustria, agli “apparati della repressione”: Carabinieri, Magistratura, personale delle carceri, Polizia.

Se man mano che lo scontro si sviluppa, si arriva a Moro, è perché nella nostra analisi politica dello scontro in atto, è da tempo che noi abbiamo individuato la Democrazia Cristiana come anello centrale e “cuore” politico dello stato imperialista che combattiamo.

Obiettivo di conseguenza centrale da disarticolare. 

Quando si arriva a Via Fani infatti, le azioni contro la Democrazia Cristiana da noi portate a compimento nel paese sono già state decine e decine (macchine bruciate, perquisizioni di sedi, ferimenti di dirigenti, ecc). 

E’ da quell’analisi e dal percorso combattente sviluppato in quegli anni che si arriva a Via Fani, alla “questione Moro”. Tolto dal contesto quell’azione diviene un’altra cosa da quella che è invece veramente stata per noi nella sua programmazione e conduzione.

 

Lei ha più volte affermato che le Brigate Rosse hanno raccontato la loro storia, una storia politica. Ma qualcun altro, forse, la sua storia non l'ha raccontata per nulla, soprattutto in relazione al caso Moro. Ma di questo non si può chieder conto alle Brigate Rosse...

 

R. Raccontare quella storia, da parte del quadro politico dei partiti e delle strutture istituzionali allora presenti nello scontro in atto, vorrebbe dire “mettere in piazza” i progetti e gli interessi, anche di “bottega” che li hanno in quel momento coinvolti.

A modo suo, e ovviamente con progetti ed interessi suoi, a tentare di aprire dal lato del potere una rilettura di quegli avvenimenti almeno più basata sui fatti avvenuti realmente, ci ha provato Cossiga dopo che aveva concluso il suo iter istituzionale. C’è stato una reazione a spron battuto da parte di tutte le forze politiche allora in campo, dalla destra alla sinistra… anche estrema, per farlo passare per pazzo. Non è un caso. Soluzione migliore, piuttosto che confrontarsi realmente con gli avvenimenti di quegli anni, e che costa loro meno sul piano politico, è invece lo spingere l’informazione, la propaganda, per alimentare la teoria dei “misteri”e dei “complotti”.

Noi abbiamo sempre affermato in modo chiaro il perché, e l’obiettivo politico che ci siamo preposti con quell’attacco. Le uniche “voci discordanti” dall’interno vengono da uno come Franceschini, il quale era in galera da cinque anni quando avvengono i fatti, e le sue “voci” arrivano svariati anni dopo gli avvenimenti, quando era oramai giunta la sconfitta e la fine dell’organizzazione. Ricostruzioni… per il miglior offerente.

Tornando invece ad un ragionamento serio: Aldo Moro è stato rapito ed ucciso dalle Brigate Rosse. Questo deve essere chiaro. E l’ultimo atto, della sua uccisione, l’hanno fatto assumendosene la piena responsabilità e come compimento dell’attacco che avevano portato. Il tutto, ovviamente, perché di fronte ad un rifiuto di qualsiasi altra soluzione da parte del quadro politico, abbiamo ritenuto non ci fosse altro sbocco possibile.

Detto questo, quando avvengono dei fatti di quella portata, nella politica, può succedere che soggetti con interessi contrapposti tra loro, salgano sulla scena e cerchino di averne un tornaconto.

Questa non è collusione, o l’essere “manovrati” o “eterodiretti”, è la legge banale della politica.

Quali erano i progetti in campo? Il nostro, molto chiaro e lo abbiamo urlato e dichiarato mille volte: distruggere la DC, mettere in crisi il quadro politico allora al potere.

Quali erano le altre forze in campo allora, in quella situazione, che hanno spinto cercando di condizionare ed indirizzare gli sviluppi e la conclusione di quell’azione?   

Primo, il Pci, padre e padrone della “politica della fermezza”, scelta che ha impedito qualsiasi altra possibilità di sviluppo all’azione, in quella situazione. Politica che in quel contesto gli ha permesso di assumersi un ruolo di primo piano, condizionando le scelte di tutto il quadro politico allora presente. Scelta “centrata”, anche se poi la ha pagata sonoramente nel suo sviluppo negli anni che sono seguiti. Non da meno Andreotti, che all’interno del suo partito ha ovviamente utilizzato quella situazione per modificarne i suoi rapporti di forza interni.

C’è chi dice, forze economiche,… gli americani… può darsi…

E penso che l’elenco a chi volesse proseguirne la ricerca potrebbe allungarsi parecchio.

Anche il fronte “opposto”, del resto aveva suoi interessi per orientare la conclusione dell’operazione. Basti vedere l’entrata in scena, completamente contrapposta di Bettino Craxi, in quel contesto. Anch’essa era altrettanto indirizzata da un interesse di partito, o detto in termini volgari “di bottega”. Quello di porsi come contraltare al processo politico in atto.

Penso sia questo “groviglio” di interessi e di progetti politici l’aspetto primo del perché “qualcun altro, forse, la sua storia non l’ha raccontata per nulla”. E la stravolge tutt’ora per battaglie di palazzo.      

 
 

Si parla di giornate della memoria, di amnistia, di soluzione politica e, puntualmente, si assiste a battaglie da curva sud. Chiudere con quegli anni deve essere una priorità per riappacificarsi con il passato e costruire insieme una memoria condivisa e le responsabilità collettive (come dice anche Maria Fida Moro). Ma come superare quegli anni?

 

R. Io ed altri compagni/e abbiamo speso anni della nostra attività, dopo la dichiarazione da parte nostra della chiusura di quella esperienza, perché si aprisse un dibattito che desse la possibilità al paese di storicizzare e cogliere perché un fenomeno di quella portata avesse attraversato l’Italia in tutti quegli anni. Coinvolgendo nel suo percorso decennale migliaia di donne e di uomini che ne erano stati i protagonisti.

Questa scelta, anche pagandone un prezzo, assumendo cioè spesso posizioni politiche e ruoli che non sempre erano condivisi da molti dei militanti, protagonisti di quel bagaglio.

Il tutto ovviamente senza voler invertire ruoli o giudizi da dare tra le controparti sui fatti avvenuti.

Pensavamo che capire vuol dire anche superare quella fase, coglierne i nodi sociali e politci che l’hanno generata. Questo ritengo sarebbe stato un interesse per tutto il paese, anche per le forze politiche che lo governano. Non si nasconde una storia di quella portata scopandola sotto il tappeto.

Ritengo che il non averlo voluto e saputo fare da parte delle forze politiche, sociali e culturali che “stavano dall’altra parte”, non ha solo stravolto gli avvenimenti di tutti quegli anni, ma ha anche reso più confuso e debole il quadro politico istituzionale.

Il prossimo anno è il trentennale di Via Fani… ci siamo oramai abituati che massimo una volta all’anno “riesplode” il problema, si scambiano accuse tra forze politiche o apparati, si immettono sulla scena possibili “misteri”… o ruoli svolti. E in questa condizione, il ciclo si ripete e si ripeterà all’infinito. Senza soluzione.

Oggi non ci credo più, non credo che sia possibile, neppure all’interno della sinistra affrontare quei nodi. Per me è una sconfitta , ma io in fondo sono un soggetto, e mi porto la mia storia personale e politica, con tutti i suoi drammi e pregi, sulle spalle. Molto peggio ritengo sia per lo sviluppo del paese e del suo quadro sociale e politico, incancrenito da quegli anni. Basti vedere le reazioni scomposte dei mezzi di comunicazione e delle forze politiche in campo, ogni qualvolta avviene una pisciatina che possa far risalire a quegli anni, per dimostrare lo stato nel quale si trovano. 

Ritengo che pur avendone sofferto e soffrendone direttamente di persona, in un dolore che è famigliare (ed è ben altra cosa dal fatto politico) sia ben più lucida e lungimirante su questo, la signora Moro quando accenna al percorso di costruire una memoria condivisa ed una responsabilità collettiva. Non per invertire ruoli, posizioni politiche, o metri di giudizio, ma per andarne oltre veramente.

 

Per venire poi, come accenna nella domanda, alle giornate della memoria “sul terrorismo” di recente applicazione da parte del Parlamento, provo una grossa tristezza. In un paese che è vissuto e si è trovato orientato lo scenario politico attraverso stragi, fasciste, ma anche “di Stato”, si diceva una volta, - che potremmo elencare partendo da Peteano, ma possiamo “limitarci” guardando a quelle degli anni ’70 con P.za Fontana, P.za della Loggia, San Benedetto Val di Sambro, la stazione di Bologna, ecc ecc, le quali hanno provocato la morte di centinaia di cittadini inermi- e si arriva a nominare come la giornata del ricordo e contro il terrorismo, come suo simbolo, la giornata della morte di Aldo Moro, chiarisce quanta cenere si intenda mettere sulla storia e su quella del vero terrorismo avvenuto nel paese.   

 

A proposito dell'apertura del dibattito avviato subito dopo aver dichiarato la conclusione dell'esperienza armata, voi avete cercato di aprire una discussione politica. Ma le forze politiche, sociali e culturali non hanno saputo (o voluto) raccogliere. Lei, nel 1993, nel motivare la sua volontà di non parlare in sede giudiziaria affermò che eravate pronti ad affrontare quegli avvenimenti invitando gli Andreotti, i Forlani a partecipare al dibattito in aula. Ma evidentemente l'aula giudiziaria, per ragioni strutturali, non era la sede adatta ad un processo di quel genere. Cosa vi aspettavate dagli Andreotti e dai Forlani, quale tipo di contributo?

R. Il dibattito che abbiamo tentato di aprire nel momento in cui abbiamo dichiarato chiusa la nostra esperienza, era rivolta ai movimenti sociali, alle forze della sinistra anche istituzionale, ed aveva come obiettivo primario il tentativo di storicizzare, per superarlo, il fenomeno della lotta armata che aveva attraversato il paese in tutti quegli anni, coinvolgendo migliaia di operai e studenti. Fenomeno che aveva condizionato fortemente la realtà sociale e politica in Italia.

Ripercorrere una storia alla sua estinzione politica ed organizzativa, anche per oltrepassarla.

Cosa che non è stata fatta, non la si è voluta affrontare, e questo sul piano politico dà secondo me anche spazio oggi, a chiunque lo voglia, di sentirsene “rappresentante” o “discepolo”. 

E’ chiaro che poi, da questo lavoro poteva sorgere un passaggio che coinvolgesse tutto il quadro politico istituzionale del paese e che portasse, al suo compimento, ad una “soluzione” in grado di affrontare anche la questione della detenzione e del carcere dei suoi protagonisti.

Ma questo è un altro punto rispetto alla nostra richiesta in quel momento specifico, e cioè durante lo svolgimento del processo, di chiamare a testimoniare in aula i dirigenti politici della DC e del potere politico di quegli anni. La nostra chiamata in aula allora era più legata ad un tentativo di trasformare un atto giudiziario, come la magistratura, secondo la sua funzione e logica, stava conducendo il processo, in un atto politico, come del resto il sequestro Moro era stato nel corso del suo compimento. Coinvolgendone in questo modo “la controparte” che ne aveva condizionato sviluppo e conclusione.  

 

Se nel 1987 i detenuti politici dichiarano congiuntamente "i militanti delle BR coincidono con i detenuti delle BR" e, quindi, in un certo senso nessuno è più autorizzato ad utilizzare quel simbolo e quel nome, perché dopo oltre 15 anni si parla ancora di Nuove Brigate Rosse? E' un progetto senza contesto sociale?

 
 

R. Quella storia si è chiusa, e si è chiusa non solo per noi, ma per tutte le organizzazioni combattenti espressione della realtà di quegli anni, con una sconfitta. E potremmo dire ancora un pò prima del 1987. Ma noi ci assumemmo allora la responsabilità di quella dichiarazione perché effettivamente venivano arrestati in quei giorni gli ultimi compagni/e che la rappresentavano.

Ciò che avviene dopo è un’altra storia. Questo è importante capire. A me non interessa giudicarla, o esprimere valutazioni morali o “sentenze” sui suoi protagonisti. Anzi, ritengo sia giusto sul piano umano sempre solidarizzare quando della gente come i compagni arrestati in questi anni vive delle condizioni di vita durissime in carcere. Ritengo però anche che l’analisi politica delle condizioni e delle forze in campo debba stare sempre al primo posto per esprimere valutazioni sui fatti.

E’ una fase storica che si è chiusa allora. Sono condizioni sociali e politiche sulle quali quella realtà è sorta e si è potuta esprimere, che sono terminate. Qualsiasi giudizio se ne voglia dare, la lotta armata in Italia, è stata possibile perché un’area sociale e di classe vasta gli è stata per diversi anni attorno. Acqua alimentatrice, ma anche girino del pesce. Questa realtà non esiste più. Una rivoluzione non si inventa. Si relaziona alle condizioni ed ai soggetti che si trova di fronte.

Quella si è chiusa, non per nostra volontà, ma perché siamo stati sconfitti e la realtà che si è sviluppata nel nostro paese e nel mondo in tutti gli anni che ne sono seguiti è un’altra.

Con questo non voglio certo dire in meglio… ma la realtà non si inventa a proprio piacimento.

 

Del “fare notizia” o clamore che poi ne sussegue, ogni volta che viene arrestato uno, che quasi sempre poi non ha mai sparato un colpo, o perché da qualche parte è apparsa una “scritta”, di questo già ne parlavo prima... ed è tutta un’altra storia. Mi sa tanto che sia il cane che si mangia la coda… o meglio, una classe politica ingabbiata su se stessa che urla al lupo per non cercare di capire perché un giorno è stata morsa.

 
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