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Diana Blefari: una vita persa ed un'occasione in meno...
Di Manlio (del 07/11/2009 @ 14:20:56, in Attualità, linkato 1946 volte)
Il 31 ottobre scorso si è suicidata in carcere la brigatista Diana Blefari Melazzi condannata all’ergastolo per l’omicidio del Prof. Marco Biagi. Una triste storia amplificata anche dalla tragedia di Stefano Cucchi, anch’esso morto in carcere in circostanze ancora da accertare.

I giornali hanno dato molto risalto alla questione e l’opinione pubblica è sembrata stupirsi molto, come se questi drammi fossero un qualcosa di improvviso, una cosa che in questa nostra società così evoluta e democratica deve essere per forza accaduta per sbaglio.

Fermo restando che chi sbaglia deve pagare e che se Diana Blefari era stata condannata all’ergastolo con sentenza passata in giudicato, quella pena avrebbe dovuto scontare, vorrei che passasse al tornasole della gogna mediatica di questi giorni, un concetto che, non so quanto in forma inconsapevole, sembra essere sfuggito ai più.

Una cosa è la pena, una cosa è il rispetto della identità e della dignità dell’individuo che in un carcere può entrare come criminale e può uscirne in tanti altri modi ma sicuramente deve uscirne vivo.

Nei giorni precedenti Diana Blefri aveva avuto dei colloqui con la Polizia: sembra che fosse sua intenzione dissociarsi ufficialmente per avviare una forma di collaborazione coi magistrati. Sulle sue spalle pesava la condanna all’ergastolo per l’omicidio di Marco Biagi, ragion per cui la brigatista aveva deciso, speranzosa, di attendere la decisione della Cassazione. Il verdetto era giunto sempre nella giornata di sabato: a quel punto, forse sentitasi sperduta, la Blefari ha ceduto e si è impiccata con un lenzuolo tagliato a strisce.

Due cose ci devono far riflette: il comportamento in carcere che viene riservato a ciascun detenuto e l’inevitabilità del suicidio.

La gente normale si meraviglia di come un “efferato delinquente” possa suicidarsi in carcere.
Secondo il legislatore la pena dovrebbe puntare alla rieducazione del soggetto, ma per la procedura carceraria il punto di vista è totalmente differente. Il carcere deve reprimere, deve azzerare, deve dimostrare chi è il più forte. E per questo utilizza un solo strumento: la cancellazione dell’identità personale.
Prima di meravigliarsi sarebbe meglio leggere ed informarsi di più, senza aspettare di diventare esperti leggendo due articoli di una stampa di parte o 10 interviste in rotocalchi del “pomeriggio in diretta”.

Il fenomeno Saviano non ci ha insegnato nulla? Le cose che, coraggiosamente, Roberto Saviano ha scritto in Gomorra sono ampiamente raccontate dalle cronache locali. Nessuna novità. Ma proprio nessuna. Salvo che, chissà perché, stavolta la macchina mediatica si è attivata con pronta efficienza. Ad essere maligni verrebbe da pensare che l’interesse di qualcuno poteva essere spostare l’attenzione da altre vicende ben più delicate…

Avete letto libri come “Patrie Galere”, “Dall’altra parte”? Conoscete la storia di Giuliano Naria, innocente dopo 8 anni di "carcerazione preventiva" nelle carceri speciali, che in questo "soggiorno obbligato" si è ammalato di anoressia? O la storia di Fabrizio Pelli, brigatista del gruppo reggiano che ammalatosi di leucemia è stato fatto morire in carcere? Avete mai parlato con un ex detenuto che, anche solo accidentalmente, è passato attraverso il circuito di quel Grand Hotel Excelsior che erano gli “speciali”? Lo sapete che la gente che è uscita da poco dal carcere spesso non ci è stata così tanto tempo per la gravità dei reati commessi quanto per il non aver accettato di cancellare la propria identità?
Eccolo il punto. La debolezza. Il carcere affonda il coltello nel tuo tallone d’Achille. Colpisce per punire in un rapporto di impari forza laddove la società non è stata in grado di prevenire.

Sempre prima di meravigliarsi, sarebbe bene conoscere le cronache. Ad esempio a quanti di voi è sfuggita anche questa notizia? >" Un detenuto non si picchia in sezione"<


Sul secondo punto, ovvero l’evitabilità del gesto estremo, la questione appare chiara. Dall’inizio del 2009 il suo stato di salute mentale e fisico, come testimoniano le parole scritte dal fidanzato Papini dopo i loro colloqui.

«Annientata. L’unica cosa che mi viene in mente in questo momento dopo aver­la vista... Si perseguita da sola... Vuole solo morire. Mi ha chiesto di portarle qualche cosa per morire velocemente: me lo ha chiesto più volte!». Per avere un’idea di quanto la de­tenzione (per un periodo anche al regi­me di «carcere duro» riservato a ma­fiosi e terroristi) abbia inciso sulle condizioni di Diana Blefari basta legge­re le lettere che — con tutt’altro tono, stavolta orgoglioso e a tratti sprezzan­te — scriveva quattro anni prima, nel­l’agosto 2005, all’indomani della pri­ma condanna all’ergastolo: «Per l’azio­ne Biagi ho piene responsabilità perso­nali, di cui vado fiera, e che mi rivendi­co pienamente... La rivendicazione della mia responsabilità personale va­le anche per gli espropri (cioè le rapi­ne, ndr) attività primaria e necessaria nella costruzione di un’organizzazio­ne comunista combattente...». E av­vertiva Papini che, un po’ a sorpresa, oggi si ritrova accusato di aver fatto parte anch’egli delle nuove Br: «Ti di­co questo perché tu sappia con chi ti stai rapportando, visto che ora la mia identità politica clandestina ha l’op­portunità di diventare pubblica, causa forza maggiore».

Una sofferenza psichica ignorata che viene oggi elevata alla schizzofrenia. Un precedente in famiglia: la mamma si era suicidata lanciandosi dal balcone. Tutto questo però non è valso a Diana l’essere dichiarata incompatibile con il carcere duro.
Vorrei ricordare come lo stesso tipo di atteggiamento non sia stato tenuto dai consulenti che, per contro, sono stati molto comprensivi nei confronti di un altro detenuto, tal Licio Gelli di Arezzo. All’ultranovantenne condannato a 12 anni per depistaggio nella strage di Bologna (85 morti, è bene ricordarlo) fu risparmiato il carcere grazie ad una perizia che lo definiva quasi moribondo.

Ed ecco come erano riusciti a cancellare l’identità di Diana Blefari. Il 29 maggio aveva scritto:
«Devi dire a tutti che io mi sono pentita, che tutto quello che vogliono io lo faccio, che se vogliono che mi cucio la bocca me la cucio, se vogliono che parlo dico tutto quello che mi dicono di dire, ma io non ne posso più di stare così. Io non so proprio cosa fare, chiedo per­dono a tutti ma basta, per pietà».
Dopo averti cancellato, ovviamente diventi un impotente strumento nelle mani di chi hai pensato di combattere.
Cosa vuol dire “tutto quello che vogliono io lo faccio”? Vuol dire che esiste una “quota conto terzi” che serve a mettere a posto pezzetti di verità che possono far comodo ai singoli?

Forse Diana Blefari, oltre alla sofferenza, prima di suicidarsi ha fatto appello a quell’ultimo brandello di dignità che, nel profondo, le era sinceramente rimasto.