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Chi controlla il passato controlla il futuro; chi controlla il presente controlla il passato

George Orwell
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Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
Il 10 giugno 1981, le Brigate Rosse di Giovanni Senzani rapirono, a San Benedetto del Tronto, Roberto Peci un piccolo passato come aspirante brigatista assieme al fratello Patrizio che, invece, non solo fece il "grande salto" diventando capo della colonna torinese delle BR ma, nel 1980, il suo pentimento portò a oltre 70 arresti ed un colpo decisivo sia dal punto di vista organizzativo che di conoscenza del fenomeno che da 10 anni attraversava l'Italia.
Sono passati tanti anni senza che la storia di Roberto Peci vedesse qualcuno disposto a raccontarla. Dopo un libro uscito nel 2005 ad opera del giornalista Giorgio Guidelli "Operazione Peci", arriva un documentario a firma di Luigi Maria Perotti, giovane regista marchigiano che ha ripercorso la storia dei due fratelli di San Benedetto dei quali ancora in molti nella cittadina marchigiana preferiscono dimenticarne l'esistenza.

Perotti, con coraggio, si è avventurato in un ginepraio di carte, riuscendo a coinvolgere, nel suo progetto di ricostruzione, anche la sorella Ida Peci e la figlia di Roberto che non ha mai potuto vedere il padre in quanto al momento dell'uccisione la mamma Gabriella era incinta.

“L’infame e suo fratello” è un film documentario di 92 minuti (co - produzione internazionale Rai (Italia) – NDR (Germania), è stato distribuito in Germania, Svizzera ed Italia ed è stato presentato al Festival di Roma (sezione Extra d’essai), a Documentary in Europe (Bardonecchia), nella rassegna 70/80 organizzata dal Museo del Cinema di Torino e nella rassegna per i documentari d’autore SUNDOC, organizzata dalla Cinemateca di Copenaghen.



L’Infame e suo fratello. Un film ben fatto che racconta, per la prima volta, la storia dei fratelli Peci a partire dalle origini a San Benedetto del Tronto. Lo vedremo in Italia?
Il film è stato presentato al Festival del Cinema di Roma, nella sezione “extra d’essai” – Cinema del Reale e in alcune rassegne. La versione ridotta è andata in onda all’interno del programma “La Storia siamo noi di Giovanni Minoli” e su History Channel.

Come le è venuta l’idea è perché ha pensato di raccontare proprio la storia dei Peci?
Io sono nato a San Benedetto del Tronto, proprio come Patrizio e Roberto e abitavo a qualche centinaio di metri da casa loro. Ma questo è solo uno dei motivi. Nel 1981 avevo sei anni, troppo pochi per capire cosa stesse accadendo. Per anni tornando da scuola mi capitava di passare davanti casa di Ida Peci e vedere la camionetta dei carabinieri che mitra alla mano pattugliavano la zona.
Poi, come quasi tutti a San Benedetto, ho dimenticato. Fino a quando, nell’era del terrorismo mediatico i video dei terroristi islamici hanno cominciato ad invadere l’etere di ogni angolo del pianeta.
Mi venne in mente che questa cosa era accaduta proprio dietro casa mia tanti tanti prima. E così ho iniziato a lavorarci

Quali sono le principali difficoltà incontrate nel realizzare il film?
Le persone dimenticano. Penso sia normale e per certi versi anche un bene.
La mente umana elabora quello che ha vissuto e a distanza di un quarto di secolo ricorda solo quello che l’aveva colpita. Spesso nelle interviste emergevano dati contrastanti. All’inizio pensavo a chissà cosa ci fosse dietro quelle imprecisioni che mi sembravano dette per coprire chissà quale altra verità, poi ho capito che non era così.

Come ha accolto la famiglia Peci questa sua idea? E’ stato difficile riportare Ida a quei giorni?
Ida ha fatto un salto nel passato. E’ stato doloroso per lei, ma nonostante tutto sentiva il dovere di farlo per Roberto. Non le andava giù che suo fratello, un lavoratore, un proletario, un uomo che in tutta la sua vita non aveva mai fatto male una mosca, venisse messo al muro e ucciso da traditore, da persone che predicavano una rivoluzione del popolo, ma attuavano vendette trasversali in stile mafioso contro esponenti del popolo stesso.

Dei Peci, si sa, non è disponibile molto materiale. Persino dei 7 comunicati delle Br nei 55 giorni del rapimento sono presenti solo alcuni stralci tra le carte processuali. Come ha risolto il problema delle fonti?
Ho usato gli atti dei vari processi, soprattutto quello relativo a Senzani e company che si è svolto presso il tribunale di Macerata. Particolarmente importante è stato il memoriale di Roberto Buzzatti, il carceriere di Roberto, divenuto poi pentito e testimone chiave di quel processo.
Un film documentario ha bisogno soprattutto di testimonianze ed avrei voluto intervistare le persone coinvolte, ma nessuno dei brigatisti del “Fronte delle Carceri” di Senzani ha voluto partecipare. Alcuni, dopo avermi dato la massima disponibilità, si sono ritirati all’ultimo minuto. Hanno una nuova vita, sono circondati da persone che poco sanno del loro passato e molto serenamente hanno ammesso di non avere la forza per rimettere tutto in discussione.
Altri hanno avuto un approccio completamente diverso.
Ricordo ancora la telefonata con Stefano Petrella, uno degli autori materiali dell’omicidio. Mi ha detto, molto cordialmente a dire la verità, che non era disposto ad analisi speculative di stampo giornalistico o documentaristico. Parlerà di Brigate Rosse solamente il giorno in cui il Parlamento deciderà di affrontare il tema, in maniera politica.

In occasione della riedizione di “Io, l’infame”, si è animata una polemica tra il Maresciallo Incandela e Patrizio Peci relativa alle reali motivazioni che avrebbero spinto l’ex brigatista a collaborare con la giustizia. All’accusa di Incandela che i veri motivi che portarono Peci al pentimento furono molto più dipendenti dal richiamo della “gola” che “dell’anima”, Peci ha replicato accusando a sua volta l’ex capo delle guardie carcerarie di Cuneo di essere un “boia” senza scrupoli, e di non avere alcun merito del suo pentimento. Che idea se ne è fatta lei?
Se dopo tutto quello che è successo si trovano dopo 25 anni a litigare per un paio di quaglie, forse si sono persi qualche passaggio.

La ripubblicazione di Io, l’infame è stata una nuova occasione per far riemergere la polemica sul presunto (almeno secondo qualcuno) doppio arresto di Patrizio Peci. Quale è la sua opinione su questa storia?
A mio avviso, porre l’accento su questo aspetto è abbastanza sterile.
Lo Stato era in guerra con i terroristi e mi sembra plausibile che gli uomini dello stato abbiano provato ad entrare in un’associazione segreta di cui sapevano poco o niente, infiltrando qualcuno al loro interno. Qualcosa di simile era già accaduto con Frate Mitra per l’arresto del primo nucleo e potrebbe essere accaduto ancora, quando il generale Dalla Chiesa ha assunto il comando del Nucleo Speciale Antiterrorismo. Detto questo non ci troverei nulla di strano, ma non ho trovato nessuna prova del doppio arresto di Patrizio e non credo che lui, da brigatista, abbia mai lavorato per conto dei Carabinieri.
Non ci sono prove. E di illazioni su questi anni ce ne sono pure troppe.

Come hanno vissuto i familiari di Peci in tutti questi anni?
Certe cose non si dimenticano molto facilmente.

Durante il sequestro di Roberto Peci, i brigatisti chiesero alla famiglia di dichiarare pubblicamente che le confessioni del prigioniero corrispondevano al vero. Il loro obiettivo era che in cambio della liberazione di Roberto, avrebbero probabilmente portato alle dimissioni di due “pericolosi” nemici come il giudice Caselli ed il Generale Dalla Chiesa. La RAI si rifiutò di ospitare la sorella e la moglie di Roberto, ed il loro appello fu raccolto solo da Radio Radicale. Purtroppo, non servì a nulla. C’era una via d’uscita a quella vicenda?
Nel film Ida Peci ha voluto leggere la lettera che le ha inviato Roberto Buzzatti, uno dei carcerieri di suo fratello. Buzzatti le ha scritto che Senzani era disposto a salvare Roberto Peci solo nel caso in cui le istituzioni avessero ammesso il doppio arresto. Considerando che quelle stesse istituzioni non permisero nemmeno la messa in onda di quel video dell’orrore, non credo.

Il momento più toccante del film è quando Roberta Peci, figlia di Roberto nata dopo la morte del padre, si lascia andare ad una riflessione: “Se mio zio non si fosse pentito, mio padre non sarebbe stato ucciso”. Un’amara considerazione, non le pare?
Sicuramente. Dal punto di vista di una ragazza cresciuta senza il padre, gli affari di Stato diventano irrilevanti.

Secondo lei la storia di Roberto e Patrizio Peci presenta ancora dei lati oscuri? Quali?
A mio avviso, più che la storia dei Peci è la figura di Giovanni Senzani a presentare delle zone d’ombra. Quello che subito dopo l’arresto i giornali battezzarono professor Bazooka, ha un ruolo tutto da chiarire in questa fase degli anni di piombo. Ora ha scontato la sua pena ed è tornato ad essere un uomo libero, ma non ha voluto incontrare Ida. Nell’unica dichiarazione rilasciata dice di essere rammaricato di non aver i soldi per ripagare le vittime, ma non spiega le ragioni dei suoi contatti con i servizi segreti e la camorra.

Nel film, Ida Peci torna a Roma per parlare con Sergio Zavoli, all’epoca Presidente della RAI, e chiedere una spiegazione per il gesto che, 27 anni fa, costò la vita al fratello. Zavoli non la riceve e si affida ad un comunicato nel quale ribadendo che, se si fosse comportato diversamente, si sarebbe creato un precedente che avrebbe spinto le Br ad altre iniziative del genere. Non era evidente che il caso Roberto Peci era “particolare” e che non si trattava di un rapimento qualsiasi del fratello di un pentito?
Zavoli ha scambiato quattro chiacchere con Ida in un corridoio del Senato, ma non ha voluto le telecamere. Sinceramente non so cosa si siano detti.


Luigi Maria Perotti ha voluto offrire ai lettori di Vuoto a perdere un ricco promo del suo documentario. Lo ringrazio ed invito tutti voi a visionarlo

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Di Manlio  11/06/2009, in Attualità (1810 letture)
Mi ha scritto Giorgia Celli, una delle tante cittadine di Ostia che non hanno condiviso la scelta della presenza di Ligio Gelli nella cittadina del litorale laziale.

La città si mobiliterà dandosi appuntamento davanti al Teatro Manfredi per una manifestazione pacifica alla quale hanno aderito già in molti.

Pubblico volentieri l'appello che mi è arrivato perchè ritengo che esprima molto bene i concetti chiave ed i valori che hanno guidato i promotori.

APPELLO ALLA CITTA'

Sabato 30 Maggio 2009, fra lo stupore e l’indignazione di tutti, veniva annunciato nell’aula consiliare del 13° Municipio, con la partecipazione ufficiale del presidente Giacomo Vizzani e di numerosi esponenti della maggioranza, la consegna del premio culturale “Città di Ostia” a Licio Gelli, uno dei personaggi più vergognosi della storia d’Italia.

Licio Gelli ha combattuto nelle “camice nere” al fianco del generale Franco contro la Repubblica Spagnola; ha militato nella Repubblica di Salò divenendo ufficiale di collegamento fra il fascismo ed il reich di Hitler; è stato protagonista delle trame più oscure e nere della storia del nostro paese: dal crac del banco ambrosiano, a Gladio, alla stagione dei tentati golpe e dello stragismo. Licio Gelli è stato condannato per depistaggio per la strage di Bologna. E’ “maestro venerabile” della Loggia Massonica P2 che aveva l’obiettivo, attraverso un disegno eversivo, di ribaltare l’assetto democratico del nostro paese.

I cittadini che si riconoscono nei valori non negoziabili della Costituzione e della Democrazia, rifiutano di associare il nome della nostra città a tale personaggio; respingono con la massima fermezza l’assegnazione di un riconoscimento per la “poesia” a tale spregevole individuo, “scrittore” soltanto di pagine vergnose della storia italiana.

Giudichiamo di una gravità inaudita il sostegno politico ed isituzionale dato all’iniziativa dal presidente Vizzani e dalla maggioranza del 13° Municipio, di cui registriamo, a tutt’oggi, l’assenza di una chiara e netta dichiarazione di dissociazione isituzionale e politica.

Allo stesso modo crediamo indispensabile, di fronte a quello che sta accadendo, schierarsi e prendere parola; rivendicare un altro modo di fare cultura ed un’ idea altra di città e di società. Cosi come è indispensabile difendere gli spazi di democrazia e di partecipazione e, insieme, le esperienze importanti realizzate dal basso sul nostro territorio.

Facciamo appello a tutte le realtà civiche ed artistiche, A TUTTI I CITTADINI E LE CITTADINE, affinchè esprimano la propria Iindignazione aderendo al nostro appello e costruendo insieme una mobilitazione civile e partecipata.

SABATO 13 GIUGNO ORE 17

DI FRONTE AL TEATRO MANFREDI DI OSTIA

(via dei Pallottini 10, difronte alla stazione Lido Centro).

MANIFESTAZIONE

RECITAL DI POESIE ED HAPPENING


Rete democratica
(hanno già aderito)
prime adesioni: ANPI Roma e Ostia, Ass. Caponnetto, Unione Inquilini, Caritas territoriale di Ostia Comitato amici della Madonnetta, ass. Severiana, Comitato civico entroterra 13, CCNO (Comitato Cittadini Nuova Ostia), Affabulazione, , Ostia che cammina, Le Sirene, amici di B. Grillo XIII Municipio e Lista Civica Beppe Grillo Roma cinque stelle, Sinistra e Libertà, LIBERA Municipio 13, Partito Democratico, missione sociale La Ciurma, Italia dei Valori, L’allegra banderuola, Verdi Municipio XIII, Gruppo Studentesco di Iniziativa Sociale del Liceo 'A. Labriola', Rifondazione Comunista Ostia e Acilia, Osservatorio civico 13, italialaica.it; Ass. Gruppo Laico di Ricerca; ass. S.i.a.m.o, , Giovani di via Senofane; Coordinamento dei Gruppi di Facebook per le dimissioni di Berlusconi, Partito Socialista del XIII° Municipio, Cobas Sanità Ostia, i Giovani per la Costituzione, Magazzino dei Semi, L'Alternativa' Onlus; Progetto 'Alina', Citto Maselli, Don Roberto Sardelli, Radici nel cemento
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Ieri mattina è scattato un nuovo blitz delle forze dell’ordine che hanno tratto in arresto un altro gruppo di presunti brigatisti tra i quali spiccano i nomi di Luigi Fallico (47), Beniamino Vincenzi, (38), Bruno Bellomonte (60) arrestati a Roma e Riccardo Porcile (39) e Gianfranco Zoia (55) arrestati a Genova. Una sesta persona è finita ai domiciliari per limiti di età ed altre 15 persone risultano indagate come fiancheggiatori. Tra di loro i nomi che hanno destato più sensazione sono quelli di Ernesto Morlacchi (35 anni, figlio di uno dei fondatori delle BR milanesi Pierino) e suo cugino Kamo Capossi.

Il gruppo era seguito da un paio d’anni quando gli inquirenti intercettarono una telefonata al negozio di cornici di Fallico. All’altro capo c’era Gianfranco Zoja, genovese armiere del gruppo, ed il contenuto della conversazione insospettì molto gli agenti soprattutto perché Fallico era un ex UCC degli anni ’80 e conosceva Nadia Lioce, del gruppo delle nuove BR-PCC che assassinarono i giuslavoristi D’Antona e Biagi.
Zoja stesso, nel 2004, andò a porre una lapide nel cimitero di Trespiano alla memoria di Mario Galesi, il brigatista che restò ucciso assieme all’agente della PolFer Emanuele Petri in occasione dell’arresto della Lioce il 2 marzo del 2003.

Una delle armi sequestrate. Attenzione al tetano...

Il gruppo era trainato da Fallico il cui impegno nella ricostruzione dei contatti con vecchi esponenti delle BR nel tentativo di ricostruire un progetto di lotta armata era noto agli inquirenti. Nelle intercettazioni si parlava di un possibile attentato da porre in atto in occasione del G8 che si sarebbe dovuto tenete in Sardegna e che poi è stato spostato in Abruzzo.

Oltre agli ovvi complimenti alle forze dell’ordine per questa importante azione preventiva, si sono levati i soliti cori di strumentalizzazione che, ormai, tenderei a definire in perfetto stile “post-strategia-della-tensione”.

I punti, per così dire, all’ordine del giorno sono stati grossomodo i seguenti:
1) le BR non sono mai morte e c’è un serio pericolo di ritorno della lotta armata
2) dobbiamo continuare a tenere la guardia alta ed essere severi nei confronti delle forme di protesta perché dietro si celano terroristi pronti a riportarci nel clima degli anni di piombo
3) il legame con le BR del passato è sempre evidente ma, stavolta, c’è la novità del coinvolgimento del figlio di uno dei brigatisti fondatori, assieme a Renato Curcio, delle BR a Milano ed in sostanza è come se, questa volta a differenza di altre, ci fosse anche una continuità materiale oltre che storica con le vecchie Brigate Rosse.

Vogliamo provare a rispondere seriamente a queste osservazioni?

1) Nella nostra società la spinta rivoluzionaria è sempre stata presente e sempre lo sarà perché siamo nati da una guerra civile che ha visto lottare fianco al fianco, in nome di un nemico comune, persone che avevano obiettivi totalmente differenti. La strategia di breve periodo era assimilabile, ma nel lungo periodo una buona parte di coloro che hanno combattuto il fascismo speravano in una “vera rivoluzione” per raggiungere una società di ispirazione marxista. Poi è successo che quella seconda rivoluzione non c’è mai stata perché i dirigenti del PCI post-liberazione diedero un altolà ed in molti restarono con le pive nel sacco ma non restituirono le armi. Le sotterrarono in attesa di tempi migliori. Poi successe anche che una buona parte di quelli che stavano dalla parte degli sconfitti, furono assimilati nelle strutture della nuova Repubblica, sempre in nome di quell’interesse comune di sconfiggere il nemico d’oltre cortina. Se si fosse avuto il coraggio di fare un Control-Alt-Canc, forse le cose sarebbero cambiate.
Ci saranno sempre dei giovani (e anche meno giovani) che fanno dell’ideale rivoluzionario un sogno e soprattutto una pratica politica. Non potremmo farci mai nulla. Ma la differenza con il passato è che mentre prima potevano contare su ampie fasce di consenso, infiltrarsi fino ad alti livelli delle istituzioni e della società, contare su un contesto internazionale che poteva garantirgli forza e finanziamenti, oggi appaiono solo dei “piccoli illusi” che non capiscono di fare il gioco del nemico, cioè di chi vuole gestire la società per conto degli interessi capitalistici.
Ma le avete viste le armi? Ridicoli residui bellici mezzi arrugginiti, ed è per questo, forse, che gli agenti che li mostravano ai fotografi erano incappucciati, per evitare di prendere il tetano. A parte le organizzazioni di stampo mafioso, il resto dei nemici si sono dimostrati più virtuali che reali ed è per questo che il travestimento da nuclei speciali mi è apparsa più una trovata di marketing che una necessità imposta dall’occasione.
Nessun rischio serio di ritorno di lotta armata, ma possibilità che l’esaltazione individuale porti a delle nuove tragedie che fanno male, in primo luogo alle vittime, ed in secondo luogo proprio a quegli strati di popolazione più deboli cui un rivoluzionario tende il braccio.

2) Le forme di protesta, anche le più estreme purchè nel rispetto delle leggi, in una democrazia rappresentano la garanzia dell’opposizione, del controllo e di quel campanello d’allarme che chi governa dovrebbe tenere presente per avere sempre la misura degli stati d’animo delle piazze. Ricordiamo che la TV non è la realtà, ma solo ciò che qualcuno ha deciso di farci vedere della realtà (e alle volte non è neanche quello, ma sarebbe un discorso troppo lungo). Se in una manifestazione contro il G8 o contro il decreto Gelmini vediamo qualcuno che si lancia delle sedie o che sfascia una vetrina o che, ancora, prova a “caricare” la Polizia, non vuol dire che quella forma di protesta è da bollare come terroristica, ma più semplicemente che quella forma di protesta vede la partecipazione (più o meno legittima) di individui che rappresentano “segmenti violenti” presenti in tutta la nostra società. Non dobbiamo sentirci gratificati e più tranquilli se la Polizia risolve con arresti e pestaggi ed il Governo propone una legge come il cosiddetto “Pacchetto Sicurezza” che limiterebbe il diritto a manifestare facendolo diventare una discrezionalità del Prefetto.
E’ certo, però, che dobbiamo continuare a tenere “alta la guardia” perché degli episodi isolati, purtroppo, non possono essere totalmente esclusi.

3) Come prima cosa è utile ricordare che Ernesto Morlacchi è semplicemente stato inserito nel registro degli indagati e non è stato preso nessun provvedimento nei suoi confronti. E un indagato è innocente, almeno fino a prova contraria. Poiché dubito che gli investigatori non abbiano letto il libro del fratello Manolo, la storia di “Ernestino il clandestino” non credo fosse una novità per loro. La conoscenza con certi personaggi deve averli portati ad ulteriori approfondimenti.
Ma se il legame con il passato è ancora vivo, è solo ed esclusivamente in virtù di un motivo. Quel passato non si è chiuso, nessuno ha avuto il coraggio di fare i conti con la propria storia (e non parlo dei brigatisti, evidentemente). Nessuno ha interesse a fare i conti con la verità anche perché in Italia si ha uno strano concetto di “verità condivisa”: non la si assimila alla somma delle verità di tutti i protagonisti, ma si tende ad identificarla con la verità che fa comodo a tutti i protagonisti. Fino a quando chi stava dall’altra parte (i vecchi partiti, i rappresentanti dei vecchi Governi, le istituzioni, i servizi, la magistratura, le organizzazioni massoniche e le lobbies economiche) non sarà disposto a raccontare la propria storia, che non è proprio limpida quella di Gesù Cristo, dovremmo rassegnarci ad avere emuli di ogni forma di estremismo.
Oggi si può ancora essere rivoluzionari, sognare una società diversa e più giusta, ma è sbagliato pensare che questo obiettivo possa essere raggiungibile con le armi e la “lotta di popolo armata”. Chiudere i conti sugli anni ’70 vuol dire riscrivere una storia condivisa che nessuno potrà più impugnare e strumentalizzare a seconda di come tira il vento. I nostalgici resteranno sempre, ma a nessuno verrà più l’idea di utilizzare gli stessi strumenti del passato, perché si sono dimostrati storicamente inutili.


Non commento, invece, la definizione delirante (oltre che strumentale) del leghista Boni:
«Chiudere definitivamente i centri sociali che il più delle volte si sono dimostrati essere un ricettacolo per violenti e delinquenti, che non esitano a mettere a ferro e fuoco le nostre città»
.

La Lega dice di fare molto lavoro sui giovani e nelle fabbriche per dare risposte alle richieste delle fasce sociali più deboli. Che si rimbocchi le maniche, allora, e se vuole estirpare il male della violenza, si preoccupi di lavorare per limitare al minimo “l’acqua in cui nuotano i pesci rivoluzionari”, ma non si illuda di poter chiudere l’oceano.

>> Speciale Arresti dell'11 giugno <<
>> Articolo di Giorgio Guidelli su Il Resto del Carlino <<
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Mi sia concesso di prendere in prestito un famoso verso del Sommo Poeta. Ma mi sembra che possa ben sintetizzare l’atteggiamento di chi ha per anni chiesto e cercato la verità sulla strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 (per la giustizia rimasta senza colpevoli dopo 11 gradi di giudizio) e, adesso che ci sono delle vere novità sulle quali aprire un dibattito serio che possa aiutarci a trovare una parola definitiva su esecutori e mandanti, stende un pietoso velo di non curanza per evitare di fare i conti con la propri storia (e quella altrui).

E’ uscito in libreria d un paio di settimane, un testo molto atteso. Un’inchiesta che, analizzando in maniera certosina tutti gli elementi a disposizione (molti dei quali ignorati, occultati o cancellati alla magistratura) ricostruisce una verità giornalistica che tiene conto di tutti i tasselli e li ricompone con un perfetto incastro.

Il segreto di piazza Fontana (di Paolo Cucchiarelli) non vuole essere verità giudiziaria. E’ un’inchiesta giornalistica che partendo dai fatti e costruendo su di essi delle nuove analisi arriva ad un’ipotesi logica che riesce a tenere tutto insieme.

La scelta della casa editrice Ponte alle Grazie è stata di effettuare il lancio in assoluta riservatezza, e solo il giorno prima della conferenza stampa è trapelata qualche indiscrezione. Nei giorni successivi, alcuni autorevoli quotidiani (Corriere della Sera, Manifesto, L’Unità) hanno commentato le sintetiche informazioni offerte ai giornalisti sostenendo l’impossibilità di una tesi come quella avanzata da Cucchiarelli. Ovviamente, senza aver letto una sola riga del suo imponente lavoro (700 pagine di pura inchiesta).
Ma come? Il 9 maggio, in occasione dell’ultima celebrazione della “Giornata per le vittime del terrorismo” non eravamo diventati tutti amanti della verità? Ed il Presidente Napolitano non aveva invitato tutti a contribuire alla ricerca di quei frammenti di verità che ancora mancano all’appello?

E cosa succede neanche un mese dopo? Che si hanno a disposizione 700 pagine per confrontarsi, dibattere, approfondire, ma la scelta politica (perché di questo si tratta) è che cali il silenzio su quella che potrebbe essere la svolta, dopo 40 anni, sull’evento che inaugurò, suo malgrado, anni spietati di sangue e conflitti?

E allora vorrei sottoporre alla vostra attenzione l’unico dibattito che al momento ci è consentito osservare. Protagonisti Aldo Giannuli, storico di riconosciuto valore che ha avuto il merito di far emergere molti documenti “scottanti” sul nostro passato (fu sua la scoperta de L’Anello) e lo stesso Paolo Cucchiarelli giornalista serio e obiettivo che ha svolto un lavoro decennale certosino e non asservito alle tesi di comodo (sue o dei gruppi political-chic).

Giannuli ha recensito, sul suo blog il lavoro di Cucchiarelli invitando l’autore a rispondere alle sue critiche. E la risposta di Cucchiarelli non si è fatta attendere, puntuale e precisa, a sottolineare che se si critica si deve aver letto bene ciò che si critica e se lo si è letto bene si può anche discutere dei contenuti.

Ma la critica “a prescindere”, tanto per sbandierare un drappo apparentemente intonso, mi sa tanto di censura. O, peggio, di voler togliere la parola agli altri con la violenza della propria arroganza.

E allora non diciamo più che la vogliamo questa verità. Non ce la meritiamo. Perché siamo davvero un “paese di merda” come ebbe il coraggio di affermare Antonello Piroso al termine di una bella puntata di Niente di Personale dedicata alle vittime dello stragismo.

Potete visionare in anteprima qui (alle 20.18 del 17 giugno Aldo Giannuli non ha ancora pubblicato la risposta) la contro-analisi di Paolo Cucchiarelli.
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Di Manlio  18/06/2009, in Storia (1942 letture)
Un gruppo su FaceBook per URLARE: vogliamo la verità su Piazza Fontana!

Quest'anno, come sai, ricorre il 40° anniversario della strage di Piazza Fontana e sarebbe bello poter giungere al 12 dicembre in maniera diversa dagli scorsi anni.
La giustizia ha scagionato tutti i colpevoli che in primo grado erano stati condannati. Ma la verità giuridica è solo una parte di verità: esistono anche la verità storica e, soprattutto, la verità politica.

Avrai sentito parlare dell'inchiesta di Paolo Cucchiarelli da poco pubblicata con l'editore Ponte alle Grazie intitolata "Il segreto di Piazza Fontana". E' un testo articolato, un'inchiesta solida, che partendo dagli elementi dimenticati, occultati o sottovalutati nelle inchieste giudiziare dimostra, in maniera inequivocabile, come le bombe del 12 dicembre 1969 a Roma e Milano fossero il risultato di un disegno architettato dai servizi segreti, portato avanti dalla strategia "della seconda linea" della destra eversiva e che ha visto il coinvolgimento degli anarchici come vittima di una trappola che era stata preparata con cura i tutto il 1969.

Un lavoro immane, dove tutti gli elementi del puzzle si incastrano alla perfezione per giungere ad una nuova ipotesi su come andarono realmente le cose. Ipotesi solida e confermata da molti riscontri e testimonianze presenti nel libro.

Come è stato accolto questo lavoro? La risposta unanime del "potere" è stata un velo di silenzio che, screditando a priori le conclusioni di Cucchiarelli, ha l'obiettivo di non far leggere l'inchiesta al grande pubblico.

Ma come? Solo poche settimane fa il Presidente Napolitano aveva esortato a scovare la verità sugli anni delle stragi e della lotta armata perché una riappacificazione è ancora possibile, perché ci sono le condizioni, e adesso che si avrebbe la possibilità concreta di avere dei nuovi elementi per individuare mandanti e colpevoli, si fa finta di niente?

Allora, cari politici, le vostre sono solo parole di comodo da utilizzare nelle occasioni ufficiali insieme alle vittime del terrorismo...

Quando la verità non fa comodo alla politica, ai gruppi di potere, ai reduci di quegli anni, alle strutture delle istituzioni si preferisce dimenticare.

Io non voglio dimenticare. Per questo ho creato un gruppo su FaceBook nel quale vorrei che ti iscrivessi per non far cadere nell'oblio forse l'ultima possibilità che abbiamo di uscirne con la verità. Dopo sarà troppo tardi.

Visionare il gruppo all'indirizzo http://www.facebook.com/group.php?gid=111480141059&ref=nf sarà a breve presente anche lo stesso Cucchiarelli che ci aggiornerà e discuterà con noi dei risultati della sua inchiesta.

Se ti va di parlare e se vuoi opporti a coloro che "censurano a prescindere", ti aspetto.
Se vuoi dare un contributo ancora più efficace, informa i tuoi amici di questa iniziativa e spingili ad iscriversi.
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Di Manlio  27/06/2009, in Attualità (2242 letture)
A tre anni di distanza dalla sua realizzazione e dopo che il regista Giuseppe Ferrara ha fatto di tutto per portarlo al grande pubblico, RAI Tre ha deciso di mandare in onda "in prima TV" il bel film "Guido che sfidò le Brigate Rosse" che narra la storia del sindacalista di Genova e che ebbe il coraggio di denunciare un operaio che in fabbrica distribuiva volantini delle BR.

Sfortunatamente rimase isolato e probabilmente anche per questo divenne un facile bersaglio delle BR genovesi che il 24 gennaio del '79 lo uccisero sotto casa.

La figlia di Guido, Sabina Rossa, oggi parlamentare del PD, ha scritto un bel libro "Guido Rossa mio padre" in cui narra la storia del padre e dell'inchiesta che lei stessa ha portato avanti dopo tanti anni.



Sabina Rossa

Il film era stato voluto dalla CGIL per celebrare il centenario di attività, è stato finanziato dalla RAI e dall'ILVA ma non ha mai avuto la possibilità di essere proiettato nei cinema o in TV. Un vero e proprio boicottaggio che spinse Ferrara a scrivere al Presidente Napolitano per chiedergli se lo Stato stesse dalla parte delle vittime o delle BR.

Strano destino quello di quest'ultimo film di Ferrara. Pronto dal 2006, andrà per la prima volta in TV domani sera, domenica 28 giugno, alle 23.15. Si, alle 23.15, quandoil grande pubblico sarà già con il pensiero al lunedi lavorativo.
Articolo 21 in un suo articolo si augura che qualche milione di italiani decida di vedere il film. Ce lo auguriamo ma difficilmente anche questa volta il bel film di Ferrara sarà visto dal grande pubblico.

In conclusione una considerazione personale. Peccato che il produttore Carmine de Benedictiis non potrà vedere il suo prodotto, dopo tanto penare. Ci ha lasciato nell'aprile dello scorso anno. Ma forse da lassù riuscirà a godersi in silenzio lo spettacolo. Sempre che il segnale di RAI Tre sia visibile...
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Di Manlio  12/07/2009, in Attualità (2678 letture)
Dopo 28 anni di silenzio, grazie al film di Luigi Maria Perotti “L’infame e suo fratello” (>leggi intervista a Perotti<) si torna a parlare del primo pentito delle BR, del fratello ucciso dopo 55 giorni di prigionia dalle BR di Senzani e, per la prima volta, entra in scena Roberta Peci, figlia di quel Roberto la cui tragedia fu ignorata dall’intera nazione.  A differenza di quello che si era verificato nello stesso periodo per l’assessore campano della DC, Ciro Cirillo. >Leggi la news<

Roberta chiede che al padre sia intitolata l’attuale via Boito, la strada nella quale Roberto fu rapito il 10 giugno del 1981.
E’ un tentativo di non rimuovere la memoria, più che di ristabilire la verità.
Poi Roberta, presente al sedicesimo Premio Libero Bizzarri DocFilmFest-Academy a San Benedetto del Tronto, si è lasciata andare ad altre dichiarazioni che in parte rappresentano dei messaggi ai soliti destinatari, in parte errori di valutazione storica dei fatti.

«Roberto Peci non era militante delle Br - ha spiegato la figlia -. Non credeva nella violenza. È stato una vittima innocente delle Br», che ha pagato «un prezzo irragionevole, troppo alto. Era un'antennista di 25 anni, morto ammazzato come un cane».

Premetto che la mia prima necessità è il rispetto verso dolore di una ragazza che nasce senza padre e che cresce portandosi appresso un aggravio di dolore per non potersi dare una giustificazione al fatto di non aver mai potuto ricevere una carezza dal genitore.
Premesso questo, non mi sento di condividere il fatto che non essendo Roberto Peci un militante delle BR fosse un convinto non violento. L’aver assaltato la sede della Confapi di Ancona in quel contesto storico e con le tipiche modalità di una banda eversiva, voleva dire essere coscienti che da li in poi il grande salto era possibile. Ed infatti il fratello Patrizio quel salto lo fece. Che poi si possa essere convinto che quella non fosse la strada giusta, che avesse meditato di mettere su famiglia e di lavorare da antennista è un altro discorso.

Non citando mai il nome dello zio Patrizio, Roberta rincara la dose: «Se il fratello di mio padre non si fosse pentito, Roberto Peci sarebbe ancora vivo […] non mi aspetto niente, non mi ha mai cercato. Come avrebbe potuto, se ancora sostiene che se potesse tornare indietro non cambierebbe nulla!».

E’ bene ricordare come Patrizio Peci si sia rifatto una vita, ha un lavoro, viva sotto falsa identità ed è ancora protetto dai carabinieri. Lui e la sua famiglia, in questi 28 anni, si sono chiusi nel silenzio e tutti i privilegi di cui ha goduto appaiono motivati più dalla necessità di dare protezione ad un segreto che all’incolumità personale.
Nei confronti di un ex brigatista pentito, lo Stato non si è mai preoccupato più di tanto dopo aver raccolto le sue, in molti casi misere, rivelazioni. Dai più fatte solo per il desiderio di evitare un ergastolo che da reali motivazioni di coscienza. Anzi, molti di essi, sono stati lasciati morire in carcere, massacrati dai compagni irriducibili, affogati nell’acqua del cesso, impiccati o sgozzati. Episodi ugualmente tragici a quelli di Roberto Peci.

E allora sorge il sospetto, che dietro la storia dei fratelli Peci, ci sia qualcosa di ancora indicibile, autorizzato ad altissimi livelli, portato avanti senza scrupoli. Qualcosa che a distanza di 28 anni non può essere ancora rivelato apertamente.

Se la famiglia Peci non ha potuto sfogare la propria rabbia e vedere assicurati alla giustizia anche coloro che causarono, con le loro scelte crudeli forse giustificate dal voler combattere con ogni mezzo e ad ogni costo il fenomeno brigatista, una vicenda terrificante come quella che vide protagonista Roberto, altri forse ritengono che i tempi siano maturi e iniziano ad assaporare il gusto delle proprie rivelazioni.
E così, uno dei protagonisti di quella storia, decide di contattare un bravo e coraggioso giornalista, Giorgio Guidelli, raccontando quello che Giorgio ha raccontato a noi il 24 aprile scorso, leggendo le dichiarazioni testuali della sua fonte. >ascolta la serata sulla storia di Roberto Peci<
Una roba da brividi che, ovviamente, nessuno raccoglierà perché nessuno vuole scottarsi le mani (o anche di peggio).

E, infatti, 28 anni fa ai funerali di Roberto non vi fu nessuna rappresentanza istituzionale (ad eccezione di Boato e Pinto). Neanche come forma di ringraziamento e di vicinanza verso la famiglia di uno che aveva consentito a quello stesso Stato di colmare le lacune che avevano da sempre impedito un’efficace azione contro le BR.
Lo Stato fu latitante durante il sequestro, abbandonando i Peci al loro destino, perché decise che la verità non valeva la vita di un operaio, mentre la sconfitta poteva essere messa in conto per liberare un assessore napoletano. Sempre a patto del silenzio, però. Perché anche Ciro Cirillo ha recentemente detto che anche Moro sarebbe potuto essere liberato se si fosse stati disponibili a pagare un riscatto come nel suo caso. Ma ha anche precisato di non voler aggiungere altro perché, pur avendo ottant’anni, ci tiene a morire di morte naturale.

Insomma, cara Roberta Peci. Se fossi in te, penso che il modo migliore che avrei per ricordare ed onorare la memoria di mio padre sarebbe la ricerca della verità che, è vero, potrebbe rivelarsi molto amara, ma che restituirebbe giustizia a chi per quella morte non ha mai pagato il giusto prezzo.
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Nelle scorse settimane mi hanno molto colpito una serie di esternazioni del "solito" picconatore Emerito Sen. Francesco Cossiga sull'eventuale ruolo di potenze straniere negli attacchi sferrati al nostro Premier con l'obiettivo di minarne la credibilità morale agli occhi di un popolo (a suo dire) innamorato del proprio leader e per questo inattaccabile dal punto di vista politico.
Alludo, ovviamente, alle vicende legate a Villa Certosa, alle feste organizzate ed alle finalità delle stesse. >Leggi l'articolo di Marco Cazora<


Subito dopo l'ex Presidente della repubblica, anche il Ministro Bossi ha sollevato il problema, oltretutto rincarando la dose ed arrivando ad accusare i servizi di intelligence di aver, in passato, messo delle bombe.
A me è sembrato strano che nessun magistrato abbia inteso convocare il senatur per verificare, data la gravità della sua affermazione, quali fossero in merito le informazioni in suo possesso. Ma tant'è, siamo in Italia...

Riporto le due dichiarazioni in questione e rimando ad uno speciale di approfondimento per il resto dei lanci di agenzia.

COSSIGA, SERVIZI VERIFICHINO SE C'E' STATA OPERAZIONE CONTRO L'ITALIA -29 giugno Adnkronos
I Servizi segreti verifichino se da parte dell'intelligence di "Paesi 'alleati ed amici'", vi e' stata "un'operazione di 'intossicazione' e di 'disinformazione' dell'opinione pubblica italiana e internazionali ed anche a livello di altri Governi esteri, nei confronti del nostro Paese e del suo Governo, al fine di screditare all'interno e/o all'estero la sua politica estera e militare o di influire su di essa''. Lo chiede il presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga, in un'interpellanza ai ministri dell'Interno, dell'Economia e della Giustizia, in riferimento all'inchiesta condotta dalla Procura di Bari che fa riferimento anche a vicende private del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.

BOSSI: I SERVIZI SEGRETI PRIMA USAVANO LE BOMBE, ORA USANO LE DONNE - L'INTERVENTO DI COSSIGA - 04 luglio Adnkronos
Il leader della Lega Umberto Bossi ribadisce di non credere "a una sola parola" sulla vicenda delle feste private a Villa Certosa con le giovani donne organizzate dal presidente del Consiglio. "A volte penso a quello che è successo e mi sembra una roba tutta organizzata - ha detto Bossi parlando dal palco di una festa della Lega ad Arcore, a poche centinaia di metri dalla residenza di Silvio Berlusconi Villa San Martino - i Servizi sono quelli che organizzano tutte quelle porcate. Mi sembra quello che avveniva anni fa. Allora era peggio perchè usavano le bombe. Oggi, vabbè, usano le donne".
Per Bossi "il fine è sempre lo stesso: destabilizzare i governi".
"Berlusconi forse - ha proseguito Bossi - ha un solo difetto: che invece di farsi accompagnare dalla polizia normale si fa accompagnare dai Servizi segreti. Meglio farsi accompagnare dalla gente della Lega, come faccio io, e dalla polizia normale, dalla Digos. Farsi accompagnare dai Servizi, mah...".


In questi giorni mi è giunta un'interessante analisi di un osservatore acuto e competente come Marco Cazora, amico che da tanto tempo si occupa (per pura passione) di "osservare" le vicende italiane con la sensibilità di colui che ha approfondito molte vicende del passato. >Leggi l'articolo di Cazora<

La domanda che voglio porre ai lettori è molto semplice: Cossiga quando chiede di verificare l'ingerenza straniera nelle vicende italiane,  parla per esperienza diretta? Forse allude a tutto ciò che è avvenuto in Italia da Portella della Ginestra a Tangentopoli (vicenda, quest'ultima, che oltre al ricambio di una generazione di politici, lo costrinse alle dimissioni anticipate da Presidente della Repubblica)?

La spiegazione alternativa, invece, sarebbe che il nostro Emerito si stia facendo troppo condizionare dai successi editoriali della coppia Steve Pieczenik-Tom Clancy. Sembra che almeno uno dei due si intenda molto di questi argomenti...
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In questi giorni mi è capitato di parlare spesso con altri appassionati di storia degli anni ’70.

Persone che sacrificano il proprio tempo libero e le proprie famiglie per cercare di capire meglio cosa ha attraversato l’Italia nei cosiddetti “anni di piombo”.

E al centro di quegli anni, come tutto a se richiamare, il caso Moro.
Ciascuno la vede a modo suo.
Ciascuno interpreta gli stessi elementi in mille sfumature diverse.
Ciascuno ha l’abilità di riuscire a convincerti che i suoi elementi “reggono” nella propria ricostruzione.

Nelle interminabili discussioni, si salta di palo in frasca, si parte da via Fani per giungere alle aree limitrofe a Roma, per tornare a via Fani e finire al materialismo storico applicato alla classe operaia delle grandi fabbriche degli anni ’70.
Mi sembra di essere una rana, che salto dopo salto, percorre le sponde del lago come un improbabile canguro reatino.

Ma mi sembra anche di essere in una grande caccia al tesoro in cui qualcuno, da un livello superiore, dirige gli indizi e si diverte ad osservare come si allontanano dalla meta i partecipanti, utilizzando la nota legge di Truman “Se non li puoi convincere, confondili”. Ma solo perché il gioco prevede un unico vincitore che, come premio, avrà il privilegio di accedere a tale esclusivo livello.

E per rappresentare questa sensazione non mi è venuto di meglio che il trovarmi in un campo di gigli che impregnano l’aria con un profumo che non è un profumo, intensi come un olezzo che non è una puzza ma che ti resta dentro per un tempo indefinito.
Eleganti, dal fusto eretto, dalle importanti proprietà medicali e che, nell’iconografia religiosa rappresentano la purezza.

Ricordiamoci, però, quanto Shakespeare sottolineò sui gigli: “Quando marciscono i gigli mandano un puzzo più ingrato che quello della malerba”.

A buon intenditor…
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Di Manlio  22/08/2009, in Pensieri liberi (2173 letture)
Ultimi giorni di relax per il popolo vacanziero, in una situazione da "limbo" in cui non sei fisicamente al lavoro ma neppure più con la mente in vacanza (discorso a parte per quelli che, come me, sfruttano le vacanze per sbrigare il lavoro arretrato con maggiore calma e all'ombra delle montagne...).

In questa strana atmosfera, negli ultimi giorni, ho riletto alcuni passi della nuova edizione di "Io l'infame", il racconto biografico della vita dell'ex brigatista Patrizio Peci primo pentito della storia delle BR, sulla cui vicenda, non mi stancherò mai di ripeterlo, non è mai stata fatta piena luce.

Nel libro, Peci racconta del tumore che l'ha colpito qualche anno fa e della sua lotta che l'ha portato alla vittoria contro questo terribile male. E di questo ne sono molto contento.
Sia per l'aspetto umano, perchè quel tipo di malattie portano ad una sofferenza atroce ed alla consapevolezza di trovarsi su una strada sulla quale, dietro ogni curva, può nascondersi un muro di cemento armato sul quale sarà inevitabile disintegrare la propria auto.

Ma anche perchè spero che Peci sopravviva molto a lungo, a sufficienza per raccontarci, quando i tempi saranno maturi e nessuno dovrà avere più nulla da temere, la vera storia di quei due mesi che vanno dal 15 dicembre 1979 (data della riunione della direzione Strategica alla quale partecipò) al 19 febbraio 1980 (data ufficiale del suo arresto).

Ormai nessuno più vuole che la gente finisca in carcere, nessuno si scandalizzerebbe più sapendo che uomini dei servizi (o delle istituzioni che combattevano le organizzazioni di  lotta armata) hanno sfruttato una ghiotta occasione per penetrare i segreti delle Brigate Rosse, conoscerne a fondo i meccanismi per poterli combattere e debellare. E' solo questione di scelte.

Quello che mi preoccupa in questi giorni è che molti (quasi tutti) dei personaggi che sono a conoscenza di quei fatti, non ci sono più (Dalla Chiesa, Pignero, Bonaventura) o non hanno alcuna intenzione di parlare (come il gen. Bozzo che ha fornito una versione dell'arresto di Peci del febbraio '80 radicalmente diversa rispetto a come lo stesso Peci la racconta nel suo libro...).






 


Dalla Chiesa                      Bonaventura               Bozzo                            

E allora mi auguro davvero che la vittoria di Peci sul suo male interno, possa farlo riflettere e dargli l'illuminazione necessaria per essere in pace con la propria coscienza. Almeno per dare un contributo di speranza a tanti familiari di vittime di quegli anni che intravedrebbero un barlume di verità, un piccolo spiraglio per capire meglio tanti episodi poco chiari. Dette a 30 anni di distanza, queste cose, ormai non arrecherebbero più conseguenze a nessuno ma solleverebbero molte coscienze da un dolore aggiuntivo dato dalla sfiducia di poter colmare le troppe lacune che tante ricostruzioni hanno.

Per cui "lunga vita all'infame", perchè se morisse anche lui potremmo dire addio all'ultima possibilità che abbiamo di scrivere la parola fine sulla storia di Patrizio Peci. Perchè le rivelazioni postume, ahime, non hanno il privilegio della smentita.
E ne sa qualcosa Germano Maccari (che proprio di questi giorni 9 anni fa morì in una patria galera): neanche 10 giorni dopo la sua scomparsa, Lanfranco Pace rilasciò un'intervista a "Sette" in cui affermava che lo stesso Maccari gli confessò di essere stato il solo a sparare contro Moro, dopo che Moretti fu colto dal panico e Gallinari da una crisi di pianto. 
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