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Chi controlla il passato controlla il futuro; chi controlla il presente controlla il passato

George Orwell
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Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 
Di Manlio  30/06/2008, in Attualità (2571 letture)
E’ stata pubblicata ieri sull’agenzia ANSA, un’intervista del giornalista Paolo Cucchiarelli al terrorista Ilich Ramirez Sanchez meglio noto come Carlos ‘Lo sciacallo’. (leggi profilo di Carlos)

L’iter dell’intervista è stato molto lungo e laborioso. Attraverso l’avvocato di Carlos Sandro Clementi, Cucchiarelli ha fatto pervenire le sue domande al terrorista rinchiuso nel carcere francese di Poissy. La signora Sophie Blanco ha tradotto in spagnolo sia le richieste che le successive risposte di Carlos, che infine ha voluto la versione finale per poterla sottoscrivere.
Quindi sull’autenticità delle parole di Carlos, nessun dubbio.

Cosa è emerso di nuovo dalle affermazioni di Carlos?
Molte cose (puoi leggere qui l’intervista integrale di Cucchiarelli), ma la notizia più importante è che, secondo il terrorista venezuelano, nelle ultime 48 ore del sequestro Moro, era ormai pronta un’operazione condotta da agenti del SISMI (definiti da Carlos “patriotti anti-NATO”) che avrebbero dovuto ‘sottrarre’ dalle carceri alcuni brigatisti italiani per essere condotti a Beirut dove un jet con a bordo membri dell’FPLP ed il Col. Giovannone, li avrebbe condotti, sotto la protezione dei servizi italiani, in un Paese che si sarebbe occupato di riceverli.
Il tutto sarebbe avvenuto sotto la guida dello stesso Giovannone ed altri ufficiali del SISMI che si recarono a Beirut più volte.
Ma Bassam Abu Sharif dirigente dell’OLP, cui l’FPLP pur facendone parte era da sempre in contrasto a causa della differente visione delle modalità di liberazione del popolo palestinese, fece filtrare l’informazione alle stazioni NATO in Libano, la cosa giunge rapidamente in Italia ed il blitz viene bloccato.
A seguito di ciò le BR, che ritenevano questo l’ultimo concreto spiraglio per una conclusione positiva del sequestro, uccisero il loro prigioniero ed i personaggi dei servizi che si erano resi protagonisti dell’operazione, furono allontanati dal SISMI.


L'autorizzazione posta da Carlos al termine dell'intervista

Una notizia bomba, non c’è che dire, che troverebbe conferma in una lunga serie di comportamenti:
  • vi fu una vera e propria epurazione dei servizi non giustificata dal fatto che questi erano stati creati da pochissimi mesi
  • il comandante dell’operazione era l’Amm. Fulvio Martini, vice direttore del SISMI, che fu allontanato dal SISMI. Egli era uomo di fiducia dell’On. Craxi che fu l’unico uomo politico che si impegnò nel trovare una forma di trattativa per salvare la vita a Moro. Fu proprio Craxi, divenuto Presidente del Consiglio, a richiamare Martini alla guida del SISMI
  • acquista un senso molto logico il famoso gerundio “eseguendo la sentenza” che i brigatisti utilizzarono nel loro ultimo comunicato. In pratica quando l’operazione sembrava avviata verso una positiva conclusione, ritenendo di essere già stati oggetto di numerosi bluff, i brigatisti decisero che questa sarà l’ultima possibilità concreta per evitare l’uccisione di Moro. Si tratta, dal loro punto di vista, di una specie di “decisione con riserva”, un ultimatum affinché non si trattasse dell’ennesimo bluff
  • il fatto di uccidere Moro la mattina presto senza attendere l’esito della riunione della Direzione della DC, diventa adesso leggibile e logica. I brigatisti ricevettero, nel corso della notte, la notizia della spiata e del conseguente stop all’operazione. Non avendo avuto, nelle parole di Bartolomei del 7 maggio, alcun segnale che la mattina del 9 qualche esponente democristiano si sarebbe potuto esporre politicamente con una dichiarazione a favore della trattativa, decisero che contropartite concrete non ve ne fossero più e si videro costretti a procedere all’esecuzione della loro sentenza

Ma quello raccontato da Carlos, può davvero essere considerato un segreto indicibile, che avrebbe potuto resistere per ben 30 anni?
Non c’è dubbio. Almeno per tre motivi:
  1. qualcuno aveva davvero deciso che Moro doveva morire, e non solo a livello di strategia ma soprattutto di comportamenti operativi
  2. qualcun altro aveva avviato una trattativa “mostruosamente segreta” della quale non si sarebbe mai dovuto parlare da parte di nessuno
  3. adesso è chiaro come il primo qualcuno abbia sabotato “l’indicibile trattativa” concretamente, decretando volontariamente la morte di Moro

Adesso abbiamo tutti gli elementi per andare più a fondo e trovare l’assassino con ancora in mano la sua bella “smoking gun”.
 
In una nuova intervista rilasciata ad Euronews il 10 maggio scorso, l'ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga torna a parlare dei 55 giorni e risponde alla domanda chiave sul sequestro Moro: "perché non fu salvato?"

Cossiga, in un colloquio in cui è apparso molto schietto e misurato, non fa che fornire una nuova conferma di quanto detto dal suo consulente Steve Pieczenik, che gli americani affiancarono all'allora Ministro dell'Interno per gestire al meglio la crisi politica in cui si trovò il nostro Paese all'indomani del rapimento di Aldo Moro.

In sintesi Moro non morì per effetto di una decisione presa da Cossiga o Andreotti (tesi spesso diffusa nell'opinione pubblica) ma perché non "crollasse lo stato".


Un'osservazione che, forse, può apparire una novità.
Cossiga ha sottolineato che se i socialisti avessero informato le autorità (in questo caso il Viminale) dei loro contatti, data l'importanza di tali personaggi, si sarebbe potuto scoprire il luogo dove i brigatisti avevano rinchiuso Moro.

«Ma davvero?» mi verrebbe da chiedere all'ex Presidente.

Recentemente, lo stesso Cossiga ha dichiarato all'ANSA un particolare relativo alla sera dell'8 maggio:
«Noi avevamo fatto un piano a reticolo. Avevamo suddiviso la città, il centro, in tanti quadrati. E la notte l'Esercito ci dava una mano per bloccare il settore e poi lo si passava al setaccio. Io avevo capito che se Moro era a Roma prima o poi lo si beccava. Infatti qualcuno nelle Br ha detto che la morte di Moro è stata affrettata perchè sentivano il cappio che li stringeva al collo».

Se i brigatisti hanno dovuto affrettare l'esecuzione del loro prigioniero (Maccari parlò addirittura di lampeggianti blu che si intravedevano a poche centinaia di metri da via Montalcini) evidentemente il "quadrato" che si stava per setacciare doveva essere quello giusto.
E allora mi chiedo se quell'operazione di polizia fu finalizzata ad individuare la "prigione del popolo" o se si trattò dell'ennesimo strumento di attuazione della strategia suggerita da Steve Pieczenik: fare pressione sulle BR affinché commettessero l'errore di uccidere il loro prigioniero.

In questa ottica diventa anche molto chiara l'affermazione che l'Avv. Giannino Guiso ha riportato in Commissione Stragi.

«Le BR sono arrivate ad uccidere Moro, a mio parere, perché sono state costrette a farlo;
quindi qualcuno le ha costrette a fare ciò»

Più chiaro di così...
 
Di Manlio  14/05/2008, in Attualità (6252 letture)

Venerdi 9 maggio, in concomitanza con il trentesimo anniversario dell’uccisione di Aldo Moro e della prima giornata nazionale a memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi, il settimanale “Panorama” ha pubblicato un’intervista esclusiva a Luigi Cardullo, ex direttore del super carcere dell’Asinara.
Cardullo fa riferimento alle intercettazioni ambientali che il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa aveva chiesto di effettuare per ascoltare i brigatisti detenuti nelle loro conversazioni all’interno degli spazi comuni.
Sebbene di queste intercettazioni ne sia venuta alla luce una sola (leggi il rapporto della DIGOS) che l’ex Direttore attribuisce ai brigatisti Naria e Fantazzini (?), Cardullo parla di un lungo periodo di ascolto durato dalla metà del ’78 alla fine del 1980, data in cui lasciò il carcere. Poco dopo cominciarono le sue grane giudiziarie finendo sotto inchiesta e condannato a 5 anni per corruzione e truffa, accuse dalle quali egli ha sempre proclamato la sua innocenza.

Le intercettazioni, chieste dal Generale Dalla Chiesa e dai capi dei servizi Grassini e Santovito, hanno dato la possibilità a Cardullo di venire a conoscenza di tre personaggi che erano in contatto con i vertici brigatisti ma che non sarebbero mai stati sfiorati da nessuna indagine. Questo, sottolinea Cardullo, nonostante delle informazioni raccolte furono informati sia Dalla Chiesa che i capi dei servizi.
       
Carlo Alberto Dalla Chiesa e Giuseppe Santovito

Cardullo non si è preso la responsabilità di fare i nomi di questi personaggi ma ha fornito un identikit che solo avendo i paraocchi non è possibile collegare alle rispettive persone. Queste le descrizioni dettagliate che Cardullo ha riportato a Giovanni Fasanella.
Un senatore del PCI detto “il vecio”, deputato nel ’58 e senatore nel ’63, partigiano, dirigente internazionale del Soccorso Rosso. Una donna di cultura detta “la zia”, dirigente del Soccorso Rosso italiano, donna di cultura molto in vista. Un alto ed insospettabile magistrato che lavorava al Ministero della Giustizia nella stessa stanza del giudice D’Urso che fu assassinato in un paese arabo e la cui vicenda fu archiviata.

Questa intervista ci pone di fronte ad una serie di problemi.
L’ovvietà sta nel fatto che qualcuno potrebbe essere tentato di iniziare la già vista crociata contro il culturame e gli intellettuali additandoli come causa e fattore di sviluppo del fenomeno della lotta armata nel nostro Paese. Mi sembra talmente banale che le BR avessero dei referenti molto in alto che sarei tentato di non perdere tempo ed andare oltre. Ma vi sembra che un’organizzazione che ambisce a fare la rivoluzione “costruisca la presa del potere” sull’operaio Cipputi e non si preoccupi di infiltrarsi nei Palazzi del Potere per costruire la propria rete di supporto?
E non mi scandalizza che delle persone che ricoprivano cariche importanti nello Stato (poche o molte, questo non sono in grado di stimarlo) abbiano potuto ritenere di appoggiare il progetto brigatista. Sicuramente non più di quanto mi possa indignare il fatto che, è questo è appurato e ampiamente documentato, altri personaggi chiave della nostra democrazia abbiano lavorato per conto di interessi ben diversi da quelli per cui hanno prestato giuramento (alludo ai vari depistaggi, alla massoneria, alla Gladio all’estero, ecc.).

Gli elementi più importanti che, secondo me, emergono dall’intervista sono almeno due.

In primo luogo, è giusto che un’intervista possa articolarsi sulla tecnica dell’indovinello facendo si che ad affermazioni così gravi non corrisponda un equivalente livello di assunzione di responsabilità? Sono certo che Fasanella abbia chiesto a Cardullo i nomi e tenderei ad escludere il fatto che l’ex Direttore non li abbia fatti in sede privata. Ma a questo punto è anche lecito chiedersi a cosa sia realmente servita questa intervista se non ad alzare l’ennesimo polverone che non contribuirà ad aggiungere chiarezza ma a scatenare nuove polemiche...
Per il momento nessuno ha ripreso la notizia. Non mi risulta che qualche giornale o qualche blog si sia espresso in merito.

In secondo luogo, la chiave per leggere la vicenda credo sia da ricercarsi nella frase “erano a conoscenza...”.
Se è vero che all’epoca l’antiterrorismo (e quindi Dalla Chiesa) aveva “pieni poteri” e quindi l’obbligo di riportare esclusivamente al Presidente del Consiglio e la stessa logica valeva per i servizi, ci chiediamo: “L’informazione non fu trasmessa o fu bloccata ai livelli più alti?”. E di conseguenza: “L’informazione non fu utilizzata perché qualcun altro era a sua volta filobrigatista o perché costoro non avevano interesse a scavare e risalire a certi livelli?”.

Cominciano a delinearsi scenari di cui si è sempre sospettata l'esistenza ma che sono sempre stati affrontati con troppa leggerezza, avvolgendo le responsabilità degli uomini di Stato dentro la facile coperta della "deviazione" o della "fermezza".
Per giustificare e per sotterrare.
 
Proprio oggi, emerge dall'ANSA, un particolare legato all'ormai famosa vicenda della seduta spiritica del 2 aprile '78 dalla quale emerse il nome di Gradoli come possibile luogo di prigionia di Aldo Moro e che diede vita, il successivo 6 aprile, ad una massiccia operazione di polizia nell'omino paese del viterbese tralasciando, invece, la possibilità che vi fosse una via Gradoli nel comune di Roma.
Il Presidente Giovanni Pellegrino nell'audizione del 23 giungo '98 in cui la Commissione Stragi ascoltò il Prof. Alberto Clò (padrone di casa il 2 aprile '78) ricorda perfettamente la spettacolarità dell'episodio:

PRESIDENTE
. Ma il 6 aprile però avrà saputo che si è fatta l'irruzione a Gradoli paese.
CLO’.
Assolutamente no.
PRESIDENTE.
Ne è stata data notizia su tutte le televisioni, ne ho ancora negli occhi le immagini.
CLO’.
Lo seppi quando scoprirono il covo.
PRESIDENTE.
No, mi riferisco al fatto che il 6 aprile la televisione trasmise le immagini dell'irruzione militare nel paese di Gradoli: serbo un ricordo molto preciso, ricordo ancora le tute mimetiche e questo paesetto con le sue casette dove si vedevano gli uomini che entravano con il mitra e facevano una perquisizione; un intero paese fu perquisito. Se qualche collega ritiene che il mio ricordo sia sbagliato, lo dica.

Nessun commissario smentì il Presidente. L'unico dubbio sul suo ricordo è che possa riferirsi al film "Il caso Moro" di Giuseppe Ferrara nel quale, effettivamente, si osserva quanto descritto dal Presidente Pellegrino oppure che Pellegrino abbia potuto vedere, in un momento successivo, immagini di repertorio.

Ora, a distanza di 30 anni, emerge una nuova "verità". Carlo Infanti ha realizzato un fil documentario nel quale ha intervistato gli amministratori locali del paesino Gradoli, in carica nel '78. Il vice sindaco Franco Lorenzoni ha ricordato come "l'unica cosa che si vide furono due posti di blocco nei due bivi di ingresso nel paese. Ma dentro Gradoli non vi fu nessuna ispezione, nè perquisizione. Niente. Le uniche cose che abbiamo saputo, in seguito, è che perquisizioni furono fatte in alcune grotte nelle vicinanze del paese e in casali abbandonati nella campagna, noi non sapevamo niente. Quello che poi è stato fatto successivamente vedere, anche in alcuni film di perquisizioni all'interno del paese sono cose tutte completamente false: non esistono"



Una veduta del paese di Gradoli (VT)

E' davvero incredibile che a tanto tempo di distanza vi siano ancora dubbi su fatti apparentemente scontati come la perquisizione del 6 aprile. Se si trattò di una montatura, ritengo saremmo di fronte ad una cosa molto grave.

Sui giornali del 7 aprile '78, in effetti, non uscì alcuna notizia riguardo l'operazione di rastrellamento. E neanche l'ANSA riportò nulla di simile.
Allora mi chiedo, se più che depistaggio si trattò di un insabbiamento (perché è evidente che, dopo la seduta spiritica, si evitò di tornare in via Gradoli...). L'asse Prodi-Cavina-Zanda Loi che percorse la notizia, evidentemente fu tenuto riservato fino al 18 aprile, quando la scoperta della base di via Gradoli fece emergere anche l'informazione raccolta dal Prof. Prodi. In quel momento, forse, si rese necessario far credere che all'informazione si diede seguito, ma ci si recò nel paesino e non nella via romana.

Se confermato, si tratterebbe di un episodio certamente grave. Non cambierebbe la sostanza delle cose, ma sicuramente la forma. Il depistaggio risulterebbe evidente e non motivato dal fatto che le indicazioni provenienti dalla "seduta spiritica" parlavano di "Gradoli - Bolsena - casa isolata con cantina".
Fu un fatto voluto.

Perché? Per tutelare i brigatisti? Per tutelare le proprietà immobiliari risalenti ai servizi? Oppure per tutelare una trattativa delicata che con una perquisizione in via Gradoli avrebbe potuto interrompersi prematuramente?
 
Si è parlato molto del libro che il giornalista francese Emmanuel Amara ha scritto sul caso Moro e che è stato pubblicato in Francia lo scorso anno.
Tutti hanno riportato la notizia più importante. O almeno quella che si è sempre ritenuta essere la più importante.
Pieczenik avrebbe ammesso di essere l'ispiratore del falso comunicato n. 7 che annunciava la morte di Moro e di aver deciso che sarebbe stato meglio per tutti se Moro non fosse uscito vivo dalla prigione delle BR.
Affermazioni sconcertanti, non c'è che dire e che da sole varrebbero il prezzo del libro che sta per uscire in Italia.
Ma la notizia più sconcertante che il consulente Steve Pieczenik offre al popolo italiano, secondo me, è un'altra e di tutt'altro spessore per chi è interessato ad approfondire la storia dell'Italia degli anni '70.

Scopriamo cosa ci rivela lo psichiatra americano, consulente personale del Ministro Cossiga nelle prime settimane del rapimento di Aldo Moro:

"Poco dopo il mio arrivo in Italia che mi resi conto del caos che vi regnava, specialmente dopo che Aldo Moro era stato sequestrato. Non passava giorno senza che ci fossero delle manifestazioni. C’erano scioperi continui. E, cosa ancora più grave, si era da poco verificato un chiaro tentativo di colpo di stato organizzato da alcuni esponenti dei servizi segreti e della loggia massonica Propaganda due, la cosiddetta P2"



Scusi, Pieczenik, potrebbe ripetere con calma (magari ci faccia lo spelling) questa sua affermazione? E a lei, Emerito Presidente Cossiga, la notizia è sfuggita? In tal caso, le dispiacerebbe fornire al Paese intero, cortese smentita?
 
Un modo alternativo quello di ricordare Aldo Moro a trent'anni dalla sua scomparsa. Una specie di “contro-trentennale” quello di Maria Fida Moro, figlia maggiore del Presidente della DC rapito e ucciso dalle BR il 16 marzo 1978 che assieme al figlio Luca ha avuto l’idea di musicare in blues le parole pronunciate da Aldo Moro durante interventi pubblici.
“Se ci fosse luce” è il titolo del brano.
Il nipote Luca ha voluto aggiungere alle parole del nonno le sue:
"Vorrei che tu fossi ricordato vivo
perché la forza del tuo pensiero
a distanza di 30 lunghissimi anni
possa suonare in questo blues
e cadere come una lama sulla coscienza
di chi ancora cerca di ucciderti".

La figlia di Moro ha detto ai giornalisti: “Mi batterò sempre perché Aldo Moro non sia ricordato come un oggetto in un portabagagli. È ingiusto. Era un padre e un uomo. A noi preme la verità e il ricordo della sua umanità e della sua bontà”. E ha anche aggiunto che ha inteso fare questo per “affermare il primato della verità, sul piano umano, del caso Moro”

L'iniziativa è stata presentata lunedi 28 gennaio presso la sede dei Radicali in via di Torre Argentina alla presenza di tre ex militanti della lotta armata: Sergio D'Elia (oggi deputato dei Radicali), Giusva Fioravanti (oggi in affidamento ai servizi sociali nell'associazione "Nessuno tocchi Caino" e Valerio Morucci, uno dei protagonisti del rapimento d Aldo Moro, presente in via Fani e telefonista-postino delle BR nel corso dei 55 giorni di prigionia del Presidente della DC.

Il desiderio della figlia dello statista è che l'anniversario della strage possa diventare l'occasione per ricordare l'umanità dello statista, "il padre, il nonno, non c'interessano i misteri. Spesso invece è stato ridotto ad un oggetto nel portabagagli di una Renault".

Dunque, alla figlia maggiore di Aldo Moro non interessano i misteri.
Vuol dire che non ci sono misteri tali da consentire una rilettura della vicenda?
Oppure che ormai dopo essersi battuta invano per trent'anni per la verità, avendo constatato l'impossibilità di perseguirla in tempi brevi, è diventato più importante restituire dignità alla figura del padre attraverso le sue qualità di uomo?
O è forse un modo di proporre la chiusura di quegli anni attraverso il recupero dell'umanità dei protagonisti piuttosto che partendo dalle responsabilità penali?
 
Di Manlio  24/01/2008, in Attualità (2256 letture)
Ieri sera è andata in onda una puntata speciale della trasmissione Ballarò, condotta da Giovanni Floris, di approfondimento sugli anni di piombo centrata sul bel libro di Mario Calabresi "Spingendo la notte più in la".
Il libro ha dato spunto a Floris ed ai suoi ospiti di parlare delle vittime degli anni di piombo e del loro dolore ancora profondo e aperto.
In studio, infatti, Mario Calabresi (figlio del commissario Luigi Calabresi, ucciso nel '72), Benedetta Tobagi (figlia del giornalista Walter Tobagi, ucciso nel '80 anche se non dalle BR, come erroneamente citato da Floris ma dalla Brigata 28 marzo) e Marco Alessandrini (figlio del giudice Emilio Alessandrini ucciso nel '79).

Il comune denominatore delle storie dei tre ospiti è stato, certamente, il senso di inutilità della morte dei rispettivi genitori e la sensazione di abbandono che lo stato . I tre personaggi, pur diversi nelle loro professioni, erano accomunati dalla grande passione per il proprio lavoro, erano delle persone con un alto senso della famiglia e dei valori e hanno lasciato ai loro figli un'eredità di pace e non di vendetta o caccia all'ergastolano.
Luigi Calabresi Emilio Alessandrini Walter Tobagi


Tutti e tre hanno sottolineato il diverso comportamento che lo Stato ha sempre avuto con gli ex militanti di organizzazioni di lotta armata rispetto alle loro vittime. Pur convenendo che quando una persona ha esaurito il suo debito con la giustizia secondo le vigenti leggi possa avere il diritto di rifarsi una vita non è apparso altrettanto giusto ai tre ospiti, il tentativo di rimozione della memoria che sembra spesso contraddistinguere i loro interventi.

E' giusto invitare l'ex fondatore di Prima Linea Sergio Segio, ad esempio, a dibattiti televisivi e ad interviste sui quotidiani? Naturalmente si. E' giusto che Sergio Segio scriva dei libri sugli anni di piombo? Naturalmente si. E' giusto indicare Sergio Segio come "collaboratore del gruppo Abele"? Probabilmente no.
Meglio sarebbe ricordarlo come "fondatore del gruppo armato Prima Linea, assassino del giudice Alessandrini, ora collaboratore del gruppo Abele".
Tutti devono avere una seconda chance, ma a nessuno deve essere concesso di cancellare il proprio passato reinventandosi una verginità "per il miglior offerente".

La domanda che pongo ai lettori è semplice: come rendere equilibrato il bisogno di rispetto di chi ha perso un familiare con la giusta volontà da parte di un ex militante della lotta armata di voler ammettere degli errori (e una sconfitta) e voltar pagina diventando un elemento positivo per la società?

L'interrogativo più interessante, tuttavia, l'ha posto, secondo me, Benedetta Tobagi.
Nella commissione Stragi, durata la bellezza di 12 anni, sono confluite 1.500.000 di carte. Sarebbe interessante per il Paese che fossero rese note, che la loro pubblicazione possa essere utile a chi voglia cercare delle altre risposte. In fin dei conti sono già 7 anni che la commissione ha chiuso i lavori.
Bene.

Ho recentemente parlato con la Dott.ssa Emilia Campochiaro, responsabile dell'Archivio Storico del Senato che mi ha assicurato che il prossimo 16 marzo saranno rese disponibili online tutti i documenti relativi alla vicenda del rapimento e l'assassinio di Aldo Moro (e degli uomini della scorta).
Si dice che il lavoro di archiviazione, però, non sarebbe stato compiuto da dipendenti interni del Senato, nonostante le recenti 10 assunzioni di professionisti specializzati in archivistica, ma da consulenti esterni.
Già, consulenti esterni. Che troppo spesso hanno una stretta assonanza con "nomine di partito".

Io vorrei sapere se tutto ciò corrisponde al vero o se è solo una voce maliziosa messa in giro per alimentare nuove strumentalizzazioni.
Se fosse vero, e sottolineo se, sarebbe lecito porci due domande:
1) come sono stati nominati tali consulenti? C'è stato un concorso per meriti? E, ovviamente, chi sono?
2) perchè aggravare i cittadini di ulteriori costi quando le professionalità interne non mancavano e, oltretutto, sarebbero state garanti di maggiore autonomia?

Attendo, fiducioso, le risposte.

Manlio
 
Di Manlio  23/10/2007, in Attualità (1501 letture)

Fine pena: mai e poi mai?

Riprendo un articolo pubblicato sul Corriere della Sera sabato 20 ottobre (presente nella sezione Articoli Leggi) nel quale vi è l'ennesima segnalazione relativa ad un ex brigatista (ma il discorso vale per i militanti di tutte le altre organizzazioni) e ad un suo incarico lavorativo presso un Ente Pubblico.

Anna Laura Braghetti, condannata all'ergastolo per il rapimento e l'uccisione di Aldo Moro e per l'assassinio di Vittorio Bachelet, collabora con l'agenzia del Ministero del Lavoro "Italia Lavoro" nell'ambito di un progetto denominato "Pari" che ha l'obiettivo la ricollocazione lavorativa di ex detenuti.
La Braghetti guadagna 1.300 € al mese ed il contratto, avviato nel luglio del 2006, scadrà al termine del 2007.

Naturalmente, ciascuno ha approfittato della ghiotta occasione, per dare il meglio di se. Da chi sostiene che chi ha combattuto lo Stato non può lavorare per ciò che ha tentato di abbattere a chi invita a rinchiudere gli ex terroristi in cella e a buttare la chiave.

Nessuno, e dico nessuno, che in queste occasioni colga l'opportunità per distinguersi al di fuori del coro e ribadire un concetto importante:
"Il nostro Paese si è dato l'ordinamento delle leggi speciali, prima, e degli "sgravi" giudiziari, poi, per tentare di chiudere un periodo buio e luttuoso della nostra storia. Ma questo è servito ad una riconciliazione sociale presupposto per la verità o è stato solo un tentativo frettoloso di rassettare il copriletto lasciando in disordine le lenzuola? E se è stato così, quale ne è stata la causa e, soprattutto, quale ne potrà essere la via d'uscita?"

Il commento di una persona intelligente ed informata come Giovanni Fasanella (leggi la notizia dal suo Blog) è la semplificazione del problema. "L'impunità in cambio del silenzio" infatti resta solo un gridare "al lupo al lupo" quando il lupo è lontano un chilometro dal gregge facendo finta di non vedere le mani del vicino che si aggirano furtive nei pressi del pollaio.
In queste occasioni mi sembra che siano davvero pochi coloro che si chiedono se i benefeci di cui i detenuti hanno fruito, il loro reinserimento nel mondo del lavoro siano avvenuti nel rispetto dei requisiti di legge. Perchè se così fosse, caro Fasanella, il problema non si risolve impedendo agli ex di rivestire i panni di essere umano. Si affronta andando ad approfondire chi ha scritto quelle leggi, cosa faceva in quegli anni e cosa fa adesso.

Mi sorge il dubbio che questo tipo di notizie non "nascano" casualmente ma, in qualche modo, facciano parte della strumentalizzazione Machiavellica "mischia sempre lo vero con lo falso acciocchè nessuno sappia più quale è lo vero e quale è lo falso". Perchè è uscita solo oggi? Se è relativa ad un contratto del 2006 possibile che, con tutte le inchieste fatte e tutte le polemiche su elezioni ed incarichi di ex terroristi in ambito pubblico (vedi casi D'Elia e Ronconi), sia emersa solo in prossimità della sua scadenza? O è lecito chiedersi se, forse, qualcuno abbia ritenuto l'attuale il momento più opportuno?

Giovanni Moro ha sollecitato, nel suo libro Anni settanta, la chiusura di quegli anni approfondendo le responsabilità politiche al di là delle responsabilità penali dei brigatisti. Quando sarà possibile tutto ciò? L'Italia, si sa, non è la patria del coraggio e sperare nel gesto eroico ed autonomo di qualche politico, storico, ex agente o ex brigatista, mi sembra improbabile. Allora quale è la strada per arrivare a comprendere fino in fondo le responsabilità collettive e fare un passo avanti nella chiusura di quegli anni?

"Fine pena: mai". E' scritto sul fascicolo dell'ergastolano. Ma non "fine pena: mai e poi mai e per nessuna ragione"

 
Di Manlio  15/10/2007, in Attualità (1493 letture)
Visto che l'obiettivo di questo spazio è quello di tentare di trovare una soluzione collettiva alla chiusura degli anni '70, mi è sembrato doveroso inaugurare il BLog con un articolo di Renato Farina dello scorso 7 ottobre.
L'ex giornalista vice direttore di Libero si è preso, finalmente, la rivincita nei riguardi di tutti coloro che lo hanno attaccato per la marginale vicenda del SISMI. Farina ha infatti fornito agli inquirenti, a riprova del suo straordinario attaccamento alle istituzioni, niente di meno che l'indirizzo web dell'organo ufficiale delle Brigate Rosse. Da ora in poi non saranno più necessarie lunghe indagini, arresti, carcere preventivo: basterà collegarsi al sito www.brigaterosse.org per cogliere in flagranza tutti (e dico proprio tutti visto che vi sono iscritti la bellezza di 628 utenti) i pericolosi eversori.

E' davvero inutile, credo, commentare tale notizia riportata dall'ex vice direttore di Libero che, ricordiamo, fu radiato dall'Ordine Nazionale dei Giornalisti (vedi articolo su L'Unità).

Analizziamo un attimo l'incipit dell'articolo:
"Prima di scrivere, un momento fa, ho preferito fare un controllo. Perché non ci credo, non riesco. Invece sì. Uno dei siti più attrezzati e belli che ci siano in Italia si chiama: www.brigaterosse.org. Le Brigate rosse hanno un sito internet, libero e prospero. Un tantino apologetico di reato, forse. Ma esiste e lotta insieme a noi. La copertina è la faccia di Moro prigioniero, ci sono le stelle a cinque punte. Poi c'è la sezione documenti. Messi in buon ordine. Integrali. È il manuale del terrorista, ideologico, pratico e glorificatore, molto elegante."

Farina ammette che, poichè la notizia era davvero esplosiva, ha voluto fare un controllo, verificare di prima persona. Come ogni agente segreto che si rispetti, verrebbe da dire.
Poi sottolinea il fatto di come si tratti di uno dei siti più attrezzati e belli tra quelli italiani, quasi a rimarcare come i brigatisti non badino a spese. Ed infatti tra i tanti documenti "apologetici" c'è perfino un manuale del terrorista. E pensare che un tempo i brigatisti sembra andassero nell'est europeo ad addestrarsi. Adesso possono farlo comodamente da casa loro.

Davvero incredibile.

Giacché ci siamo, vorrei segnalare a Farina una altro paio di scoop:
1) si è mai accorto di un sito che (questo si) inneggia alla ricostituzione del Partito Fascista? E' in rete, e chiede soldi per la campagna dei tesseramenti. E Libero è stato l'unico giornale a dedicare al sito qualche rigo nel marzo di quest'anno. Troppo indaffarato per dare importanza ad una notizia del genere?

2) si è mai accorto che nell'agosto del 2005 il sovversivo SISDE nella sua rivista GNOSIS ha pubblicato un articolo sulle Brigate Rosse rivalutandone il linguaggio e definendo che «Non era delirante, conteneva riflessioni» (vedi articolo per approfondire) e che "se le B.R. sono state sconfitte lo si deve anche a chi evitò letture superficiali del loro messaggio e predispose serie e coerenti risposte politiche, sociali ed operative".

Qualcuno sorriderà alla notizia, altri diranno che trattandosi di un atto di disinformazione mal confezionato, la gente non è stupida e non si farà prendere in giro. Sarà, ma faccio una semplice constatazione.
Il titolo di un articolo è l'aspetto più importante del testo, tanto è vero che la scelta è pertinenza dei direttori. Perchè? Perchè solo pochi lettori approfondiscono il contenuto per motivi di tempo o di interesse.
E allora su 500.000 persone che sfogliano il giornale solo il 10%, forse avranno letto a fondo e verificato la notizia. Per il restante 90% il messaggio che arriva è quello che dice il titolo.

Come è possibile sperare che si possa fare chiarezza su quegli anni, capire la nostra storia, perdonare e condannare quando c'è chi fa di tutto per distribuire disinformazione gratuita?
 
Di Manlio  13/09/2007, in Attualità (1517 letture)
In questa sezione sono pubblicati interventi legati ai fatti di cronaca legati agli anni '70
 
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