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Chi controlla il passato controlla il futuro; chi controlla il presente controlla il passato

George Orwell
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Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 
Di Manlio  16/03/2007, in Interviste (1933 letture)

Il regista Giuseppe Ferrara parla del caso Moro e lo fa con la chiarezza di sempre e la schiettezza di chi ha sempre lavorato senza "prendere ordini". Ha realizzato capolavori come "Il caso Moro", "Cento giorni a Palermo", "Giovanni Falcone", "I banchieri di Dio" ed è sicuramente uno dei personaggi più colti e trasparenti di una sinistra attenta attenta e coraggiosa, forse oggi quasi del tutto scomparsa. Scheda

1) Il caso Moro è uno degli avvenimenti che più hanno segnato la storia contemporanea del nostro paese. Centinaia di libri ma solo 3 film. Tra questi solo il suo ha cercato di raccogliere e presentare in maniera organica e senza preconcetti la vicenda. Perchè una così poca produzione artistica destinata al grande pubblico?

Non credo che tre film sullo stesso argomento siano pochi. Se poi si aggiunge un misterioso filmato (una fiction in diversi capitoli) girato dal regista Aurelio Grimaldi in Inghilterra (non ancora uscito e forse destinato all'oblio) nonchè un programma tv in preparazione per Mediaset (sempre fiction), direi che l'argomento ha avuto molta attenzione dai massmedia. L'ultima fiction di Mediaset, chiaramente schierata a confondere le acque, ha già provocato una reazione negativa della figlia di Moro, Maria Fida.
Se poi si aggiungono le puntate di PORTA A PORTA (Rai Uno) e dell'INFEDELE (La 7), tempestivamente dedicate a BUONGIORNO NOTTE, di netta approvazione del film di Bellocchio, seguite da almeno due tre milioni di spettatori, mi pare che al tema Moro cinema e tv abbiano dato grande spazio.
Se mai, la maggioranza di questo spazio è stata dedicata a chi sosteneva e sostiene la tesi anticomplotto, visto che soltanto il mio CASO MORO e PIAZZA DELLE CINQUE LUNE di Martinelli sono favorevoli ad una ipotesi che con disprezzo viene definita dietrologica (non conosco la posizione di Grimaldi). Sono convinto che l'opera di Martinelli non debba essere liquidata come disorganica e preconcetta: è un film viziato da un eccesso di spettacolarità e invenzione, basandosi però su una griglia storica assolutamente veritiera e rispettabile.
Concludendo, non si deve lamentare la mancanza di attenzione dei mass media all'argomento, ma la netta prevalenza data agli "innocentisti", a coloro che chiamano fuori dalla vicenda i poteri politici e forti, che invece sono i reali mandanti del delitto. Prevalenza che del resto risulta schiacciante anche nel campo editoriale (attenzione, però i libri sull'assassinio di Moro non superano la ventina).


2) Le conoscenze odierne sulla vicenda sono sicuramente superiori rispetto al 1986. Fare un film oggi sul caso Moro sarebbe più semplice o più difficile?

L'accoglienza entusiastica del film di Bellocchio, anche da parte della sinistra (che ovviamente ha commesso i suoi errori storici e si porta dentro pesanti complessi di colpa) dimostra chiaramente che tutti i poteri hanno archiviato il caso. Moro è stato ucciso SOLO dalle Brigate Rosse, punto e basta. Oggi fare un film veritiero sul caso Moro non sarebbe nè più facile nè più difficile, sarebbe impossibile.


3) Dal suo film e dal suo libro (che riassume i risultati della sua inchiesta) emerge chiaramente un ruolo determinante della P2, non in termini di "eterodirezione" ma di influenza esterna diretta ad intervenire sui gangli del potere. Quale è stato il ruolo della P2, secondo lei?

Le ultime indagini e le ultime notizie uscite dal segreto indicano nel servizio di intelligence chiamato ANELLO il responsabile della morte di Moro. Naturalmente l'ANELL0 era parallelo alla P2, il cui ruolo - nel vero e proprio golpe che è l'assassinio di Moro - svolge un ruolo attivo e determinante (come penso di aver dimostrato nel mio volume). Quello che però in quella sede non ho detto con chiarezza è che sia all'ANELLO che alla P2 faceva capo Giulio Andreotti.


4) Perchè non è stato mai possibile appurarlo fino in fondo?

Perchè Andreotti è un intoccabile. E' la sintesi del potere e dei misteri delle Prima Repubblica. C'è come un patto di ferro tra le forze politiche ed economiche che sancisce l'insondabilità di questi misteri. Del resto i poteri che hanno deciso la morte di Moro non hanno mai avuto interruzione dal dopoguerra ad oggi. Gli armadi a chiusura stagna che tengono ben serrati gli scheletri sono nascosti nelle profondità del Palazzo.


5) Al momento dell'agguato di via Fani un testimone chiave ha assistito alla scena da pochi metri. Nel suo libro racconta di come Alessandro Marini, invece, fu più volte minacciato e costretto a cambiare la propria versione. Perchè? Cosa aveva visto e chi non aveva interesse che potesse emergere?

Marini aveva riconosciuto, facendone nome e cognome, un brigatista. Che non era delle BR. La mia ipotesi è che fosse un infiltrato dei servizi segreti.


6) Chi ha pagato nell'affaire Moro? E chi non ha pagato per niente?

Hanno pagato Moro e la sua famiglia. Ha pagato il PCI che è stato emarginato per sempre fino alla sua decomposizione automatica. Non hanno pagato per niente Andreotti , Cossiga e Gelli.


7) Nel 2005 ha realizzato un film dedicato a Guido Rossa per celebrare il centenario della CGIL, film che sta trovando molte difficoltà nella distribuzione. A distanza di 20 anni cosa è cambiato nel suo modo di vedere e pensare a quegli anni.

E' cambiato il mio giudizio su Berlinguer, che a torto pensavo avesse subito l'intimidazione piduista e dei servizi USA. Invece, anche per merito di Rossa, militante sindacale di una lungimiranza straordinaria, oggi sono un convinto berlingueriano. La sua campagna per un'affermazione della morale nell'azione politica è ancor oggi di un'attualità sconcertante. Ed ho molti motivi per credere che la sua "scomodità" (soprattutto nei confronti di Craxi) gli sia costata la vita.

8) Brigate Rosse vecchie e nuove. Un tema, purtroppo, di attualità Secondo lei c'è un ritorno dei malesseri sociali che furono alla base di certe scelte oppure si tratta solo di gruppi isolati e fuori dalla storia che prestano il fianco a strumentalizzazioni di ogni genere?

No, le nuove BR sono come le pustole piene di pus che compaiono sulla pelle del viso a causa di una malattia interna che non trova altro modo per manifestarsi. Diceva Citati su LA REPUBBLICA che la nostra è una società dominata da asfissianti burocrati. E' così ed è socialmente letale.


9) In fin dei conti, secondo lei, Moro avrebbe potuto essere salvato?

Penso che Moro vivo sarebbe stato un pericolo per il riassestamento dei poteri piduisti, quelli che poi hanno portato al regime Berlusconi. Un rischio troppo grande che non doveva essere corso. Moro doveva morire in ogni caso. Giustamente sua moglie ha dichiarato in un processo: "Mio marito era una pietra da inciampo".

10) Quale può essere il ruolo di chi, a vario titolo e livello, si occupa di non far cadere nel dimenticatoio ciò che è successo?

Non si tratta solo di difendere la memoria del passato, ma di affermare anche i valori della democrazia che purtroppo in Italia non hanno mai prevalso. Invito tutti a leggere il bel libro di Gustavo Zagrebelsky IMPARARE LA DEMOCRAZIA e a trarne indicazioni operative.

 
Di Manlio  25/04/2007, in Interviste (3811 letture)

1) Come nasce l’idea di un sito sulle BR?

Tommaso Fera: Il sito nasce quasi per caso, nel momento in cui anni fa per pura passione e curiosità iniziai a fare ricerche su internet sulle Br. Mi trovai di fronte a poche informazioni, quasi nessun documento, difficoltà nello scegliere libri sull’argomento. Da qui l’idea di creare questo “spazio”. Inizialmente come semplice bacheca per i miei appunti, poi − notando l’interesse che il sito riscuoteva − decidemmo di fare qualcosa di meglio strutturato e funzionale.

2) Vi è mai capitato di essere definito “il sito delle Br”?

T. F.: Purtroppo sì. Il sequestro del sito fu presentato all’opinione pubblica proprio come la chiusura di un “sito delle Br” o, nella migliore delle ipotesi, come sito “filo brigatista”. E ancora oggi capita di ricevere mail di questo tono, anche se più raramente rispetto a qualche anno fa. La cosa naturalmente ci infastidisce e non poco. Basterebbe veramente una lettura anche sommaria del sito per capire che ci si trova di fronte esclusivamente ad un sito storico.

3) Il caso Moro occupa un grande spazio all’interno dei contenuti del sito. Ovviamente quando si parla di BR si parla soprattutto di caso Moro. Quale è la vostra opinione su quella vicenda?

Giuliano Boraso: Incontro sempre un gran disagio quando qualcuno mi chiede un parere sulla vicenda del sequestro-omicidio di Aldo Moro. Prima di tutto perché non credo di possedere gli strumenti necessari per dare una risposta sensata alla domanda. E in secondo luogo perché tali e tanti sono i contributi che la storiografia sull’argomento ha offerto che mi sembra sempre di ripetere cose già dette e ridette all’infinito. L’unica cosa che mi sento di dire è che trovo deprimente che il dibattito storiografico su una vicenda così importante per la storia recente del Paese si sia ridotta a una sorta di regolamento di conti tra “dietrologi” e… qual è il contrario di “dietrologo”? “Avantista”? “Avantologo”? Insomma, alla fine tutto si riduce sempre alla formula di un derby calcistico, e la cosa mi riempie di amarezza. Viene detto tutto e il contrario di tutto, con il risultato di creare un assordante rumore mediatico che riduce al grado zero la trasmissione di contenuti.

4) Hai scritto un libro “Mucchio selvaggio” molto approfondito e tra i pochi che ha parlato dell’organizzazione PL, spesso pensata minore, ma che in realtà non era meno importante delle BR. Per quale motivo un libro su PL e quale è stato il tuo approccio?

G. B.: La tua domanda contiene già parte della risposta: abbiamo pensato a un libro su Prima Linea appunto perché la storia di PL rappresentava e rappresenta ancora una strana anomalia nell’ambito della bibliografia dedicata agli anni di piombo, un vuoto storiografico difficilmente comprensibile in un Paese in cui si parla e si scrive di tutto. E questo vale sia per la memorialistica degli ex militanti (così scarna rispetto a quella degli ex brigatisti), sia per i contributi storico-giornalistici. Eppure PL, sia per numero di militanti che per estensione del proprio bacino di influenza e raccolta, sia per il suo attivismo militare, ha rappresentato qualcosa di importante nello scenario della lotta armata della seconda metà degli anni Settanta.

Inoltre la storia di Prima Linea, forse più e meglio di quella delle Br, permette di capire il filo rosso che unisce una fetta importante della storia della sinistra extraparlamentare (con particolare riferimento a Lotta continua) all’esperienza della lotta armata. E forse, a ben vedere, sta proprio qui la ragione prima di quella specie di amnesia storiografica che ha caratterizzato la rivisitazione della storia di PL.

5) Il fondatore di PL, Sergio Segio, ha duramente attaccato il tuo libro sia in occasione di interviste che all’interno del suo nuovo lavoro pubblicato da Rizzoli. Vuoi spiegare quali motivi erano alla base della sua critica?

G. B.: Qui mi metti in crisi: tali e tante, e così veementi, sono state le critiche di Segio che non so nemmeno da dove iniziare. Facciamo prima a dire che all’ex comandante Sirio del mio libro ha fatto schifo tutto: la ricostruzione storica, il linguaggio, l’interpretazione, l’approccio eccetera. Una cosa tengo a dirla: al suo posto avrei probabilmente reagito alla stessa maniera, magari cercando di alleggerire i toni, ma mantenendo inalterati i contenuti. Non perché dal mio punto di vista le opinioni di Segio siano condivisibili (non sono arrivato ancora a questo livello di autolesionismo). Ma perché anche quel tipo di reazione rientra all’interno di un modo d’essere che, al di là degli anni che passano, è difficile togliersi di dosso. Quella storia ci appartiene, dice Segio, è tocca a noi raccontarla. Non esiste che a farlo sia il primo, anonimo pischello che ha la fortuna di farsi ascoltare da un editore.

6) In tanti anni online con il sito, quale il più grande insegnamento che avete ricevuto e quale la più grande delusione?

G. B.: Questa, al contrario della precedente, è facile.

Delusione: leggere ancora qualche mail che ci accusa di essere filo-brigatisti, terroristi, e via dicendo. Insomma, constatare che in Italia, nel 2007, la piaga dell’analfabetismo è ancora diffusa. Basterebbe leggere le poche righe contenute nella pagina “Info” del sito per capire chi siamo e le ragioni della nostra presenza in Rete.

Insegnamento: che esistono tante persone con una voglia di conoscenza insoddisfatta per ciò che riguarda la storia recentissima del Paese. Che l’istituzione scolastica continua a ignorare questa richiesta di conoscenza, anche e soprattutto a livello universitario. Che c’è tanta passione in giro, e voglia di capire, conoscere, confrontarsi, al di là e contro l’informazione preconfezionata che gira nei media tradizionali.

T. F.: Condivido in pieno, non credo ci sia altro da aggiungere. Si va avanti e si lavora al sito proprio perché spinti da queste richieste di conoscenza.

7) Parliamo del sequestro del sito da parte della Polizia Postale di Milano. È come se la Polizia sequestrasse la casa di un privato perché qualcuno ha imbratta il suo muro con scritte inneggianti la lotta armata…

T. F.: Quella del sequestro è stata nel bene o nel male un evento che ci ha insegnato qualcosa. Mia opinione personale è che se il sito avesse avuto un nome diverso e fosse stato meno popolare a nessuno sarebbe venuto in mente un operazione del genere. Il sequestro credo sia stato semplicemente un “segno”. L’opinione pubblica andava in qualche modo rassicurata, bisognava dimostrare che qualcosa si stava facendo (non dimentichiamo che il sito fu chiuso una settimana dopo il delitto Biagi e i pochi risultati ottenuti nel combattere le “nuove Br” dopo l’omicidio D’Antona era sotto gli occhi di tutti). Interessanti sono state anche le reazioni alla notizia del sequestro: mentre la carta stampata perseverava sul filone “sito delle Br” nella Rete ci fu una vera e propria rivoluzione, arrivando a considerare il sequestro una vera e propria opera di censura.

8) Due sono le polemiche (relative agli anni della lotta armata) che hanno caratterizzato questi ultimi mesi: la nomina di ex militanti ad incarichi istituzionali e il presunto voler tappare la bocca, da parte dei media, alle famiglie delle vittime in favore di grande risonanza per le esternazioni degli ex. Cosa ne pensate?

G. B.: Per ciò che riguarda il primo punto, la nomina di ex militanti ad incarichi istituzionali, penso che non si debba usare la categoria giusto/sbagliato, ma qualcosa che gli si avvicina. In casi come questo parlerei di opportunità/inopportunità, o se preferisci userei una categoria di giudizio che in Italia è sempre stata storicamente sbeffeggiata: la categoria del senso del pudore, del limite dettato dalle circostanze. Niente in contrario, quindi, al Renato Curcio che spiega agli studenti dell’università di Lecce il senso del suo attuale (e straordinario) lavoro di ricerca, o la sua esperienza di ex militante. Niente in contrario a una Susanna Ronconi che si rimette in gioco, spende la professionalità di operatrice nel campo della tossicodipendenza e del disagio giovanile e la mette al servizio di una struttura pubblica.

A me quello che non va giù sono altre cose, del tutto diverse: le provocazioni, le forzature, quella continua voglia di protagonismo che prima trovava sbocco nell’uso delle armi e ora opta per altre vie, istituzionali, legalitarie. Non mi va giù il presenzialismo elevato a ragione di vita, atteggiamento che ho purtroppo riscontrato in alcuni santoni della lotta armata riciclati nelle vesti di opinionisti e guru mediatici.

9) Quali i progetti futuri per brigaterosse.org?

G. B.: Il nostro non è tanto un progetto, quanto un sogno: creare un gruppo di lavoro stabile, affiatato, per allargare il progetto e creare un vero e proprio centro di documentazione sulla storia degli anni Settanta che vada ben oltre l’esperienza dei gruppi armati. Ci pensiamo da tempo, ma incontriamo grandi difficoltà dovute al poco tempo a disposizione e alle limitate risorse a cui possiamo fare affidamento con costanza. Spero che col tempo qualcosa si possa muovere in questa direzione.

10) C’è un modo per chiudere con quegli anni, scoprire tutta la verità e voltare pagina?

G. B.: No, a mio parere non c’è. Almeno per il momento e per i prossimi due decenni. Troppi ancora i ricatti in gioco, troppe potenziali vittime di queste estorsioni sono ancora in vita, non c’è speranza di arrivare a breve a un punto fermo. Il dibattito sugli anni Settanta e sulla violenza politica che li ha attraversati è ancora ostaggio di una voglia di regolare i conti che ne altera e distorce i contenuti.

 
Di Manlio  28/05/2007, in Interviste (4428 letture)

1) Lei ha scritto un primo volume, "Odissea nel caso Moro", nel quale ha effettuato un lungo viaggio all'interno della documentazione della Commissione Stragi. Cosa l'ha spinta a questo impegnativo e lungo lavoro?

La consapevolezza che tra le carte raccolte dall’organismo parlamentare c’erano le risposte agli interrogativi in circolazione. Per effetto della chiusura della Commissione senza l’approvazione né la discussione di una o più relazioni conclusive, l’enorme massa di eterogenea documentazione raccolta durante i lunghi anni della sua esistenza sarebbe risultata difficilmente padroneggiabile da chi, a differenza di me, non ne avesse seguito quotidianamente l’afflusso e l’evoluzione. Tale patrimonio, perciò, avrebbe rischiato di disperdersi. Decisi quindi di cimentarmi personalmente nel salvataggio del salvabile e sottoposi i primi risultati all’attenzione del professor Giovanni Sabbatucci - persona che unisce la generosità alla straordinaria competenza professionale che tutti sanno- da me conosciuto quando ero studente di Storia dei partiti politici all’Università. Il positivo giudizio di Sabbatucci mi diede la fiducia per andare avanti.
 

2) Quali difficoltà ha comportato il dover analizzare un volume così massiccio di documenti?

Una grande fatica, ovviamente, e qualche incertezza iniziale nella strutturazione di capitoli e paragrafi. Tuttavia, direi che la quantità della documentazione abbia creato e crei tuttora più problemi ad altri che a me.

 

3) Prima di affrontare il suo lavoro, quale era la sua opinione sulla vicenda Moro?

 Quando giunsi in Commissione Stragi ne sapevo ben poco, ed ero impressionato dalla fama dei personaggi che vi ruotavano e dalle teorie “dietrologiche” che ascoltavo. Il fatto che il più delle volte costoro leggessero le carte in maniera molto diversa da come le leggevo io mi induceva ad attribuire loro una superiore profondità. A poco a poco, però, a furia di riscontrare nelle evidenze sotto i miei occhi tutt’altre cose rispetto a quelle interpretazioni, cominciai a domandarmi se a sbagliarmi fossi io o se fossero loro. 

 

4) I suoi testi sostengono la tesi del "quasi tutto è chiaro", che non e' certamente quella della maggior parte degli studiosi che hanno affrontato la vicenda. Se tutto e' stato chiarito ed e' nei documenti, perchè c'è ancora la necessità di creare sempre nuovi misteri attorno ad una tragedia di queste dimensioni?

Non pretendo che tutti siano d’accordo con me circa l’insussistenza di risvolti del caso Moro che  possano definirsi “misteri” ma, da un punto di vista scientifico, affermo che l’unica necessità per ogni studioso è quella di avvicinarsi il più possibile alla verità, quale che essa si riveli, senza prediligere per principio un determinato tipo di esito della ricerca piuttosto che un altro. Dunque, la creazione di nuovi e mirabolanti scenari piuttosto che il consolidamento di quelli già esistenti  (o viceversa) non dovrebbe essere avvertita alla stregua di una necessità. Ciò sarebbe fuorviante.

Non si può ignorare peraltro che il sensazionalismo, purtroppo ampiamente diffuso nel sistema dell’informazione, anche nel caso del delitto Moro si adatta bene a discutibili logiche editoriali. A livello individuale, analogamente, in alcuni casi gioca l’altrettanto criticabile idea che solo la scoperta di chissà quali misteri possa legittimare il proprio ruolo professionale; in altri casi, agisce il desiderio di distinguersi da quei poveri ingenui che sarebbero gli altri. E scatta così un meccanismo descritto da un aforisma di Flannery O’ Connor: quando una persona che è intelligente si mette in testa di esserlo, non c’è più modo di farla ragionare.

 

5) Ritengo che i brigatisti siano stati protagonisti assoluti della vicenda e che sia certo che non abbiano preso "ordini" da apparati esterni alla loro organizzazione. Non le sembra pero' inverosimile che strutture trasversali alle istituzioni non siano state in grado di essere piu' efficienti ed arrivare a gestire una trattativa direttamente con i vertici delle BR? Con modalità e finalita' di cui pero' nulla e' emerso e potrebbe essere forse questa l'area di indicibilità 'che ancora resta sul caso Moro. Cosa ne pensa?

Che sul caso Moro resti un’ <<area di indicibilità>> è un’opinione Sua e di altri, da me rispettata ma non condivisa.

Quanto all’eventualità di trattative segrete, non è questione di astratta verosimiglianza, la quale oltre tutto si attaglierebbe sia all’ipotesi che i servizi di sicurezza siano riusciti ad agganciare i vertici delle BR sia all’ipotesi opposta, specie considerando le pessime condizioni nelle quali essi versavano in quel periodo. Tra l’astrattamente verosimile ed il vero c’è in ogni caso un bel salto, ed è assai più significativo il fatto che, come Lei giustamente rileva, riguardo alle fantomatiche trattative tra brigatisti e servizi segreti <<nulla è emerso>> nonostante circa trent’anni di esplorazioni in tale direzione condotte da stuoli di ricercatori. Peraltro, le BR volevano un riconoscimento politico il quale, per sua natura, non poteva che essere pubblico, e lo volevano dalla <<DC e dal suo governo>>, come ripeterono in tutte le salse e in tutte le occasioni. L’oggetto della loro richiesta, dunque, era noto a tutti ed era incompatibile con il raggiungimento di un accordo segreto.

 

6) Sono note le sue divergenze dal pensiero del Senatore Flamigni e i lettori più informati ricorderanno un confronto a distanza tra voi due andato in onda su Radio Radicale. Perchè le vostre ricerche non sono state l'occasione per aprire un confronto intellettuale e produttivo per fare dei passi avanti nella ricerca della verità? Ho l'impressione che adesso esistano due schieramenti contrapposti (chi concorda con lei e chi con Flamigni) e questo non fa altro che allontanare ancor piùchi ha tesi fra loro contrapposte...

Nei miei lavori mi sono sempre confrontato ampiamente con le tesi di Flamigni. I suoi libri  contengono utili informazioni, la sua recente iniziativa di informatizzare gli indici dei 130 volumi degli atti della Commissione Moro faciliterà le ricerche future, e i dissensi non mi fanno disconoscere che anche a lui si deve l’approfondimento delle conoscenze sul caso Moro fino all’elevato grado attuale. Infatti, quando contemporaneamente al mio Odissea nel caso Moro uscì una nuova edizione del suo La tela del ragno, dalle colonne di <<Avvenimenti>> salutai l’evento come una buona notizia. Non sono stato ripagato di eguale moneta, ma poco importa.

Mi auguro che il pubblico guardi ai contenuti di ciò che lui ed io scriviamo, più che alla forma polemica in cui può capitarci di esprimere le nostre divergenze.

 

7) Secondo lei, chi oggi ha avuto da guadagnare sulla vicenda Moro e chi, ad esclusione della famiglia, ne ha invece subito conseguenze negative?

Politicamente, nel breve termine l’imboscata di via Fani condusse ad una rapida approvazione  della fiducia al governo Andreotti che il 16 marzo si presentava alla Camera con prospettive altrimenti incerte; nel medio termine, il corso della politica italiana si è mantenuto nel solco degli accordi tra Moro e Berlinguer, i quali avevano concordato di collaborare fino all’elezione del nuovo Capo dello Stato prevista per la fine del 1978, per poi fare il punto della situazione e decidere entrambi liberamente se proseguire su quella strada oppure no (per la cronaca, nel 1979 furono i comunisti a scegliere di rompere e di andare alle elezioni anticipate che poi persero, non i democristiani); nel lungo termine, l’Italia fu interessata da una serie di trasformazioni epocali in gran parte dovute a fattori indipendenti dalla vicenda Moro, quali una congiuntura economica internazionale e nazionale espansiva anziché recessiva come era stata negli anni Settanta, una ristrutturazione industriale le cui logiche prevalsero sulle resistenze sindacali, una nuova e più tesa fase delle relazioni tra Est e Ovest, nonché altri fenomeni ancora, tali da configurare un quadro assai diverso rispetto a quello cui si erano applicate le ricette di Moro. Parafrasando una celebre frase di Moro stesso, gli anni a venire dopo il 1978 non sarebbero stati nelle sue mani neppure se egli fosse rimasto sulla scena.

La scomparsa di Aldo Moro ha lasciato quel tipo di vuoto, incolmabile, che rimane alla scomparsa di una personalità elevata a prescindere dalle sue fortune politiche del momento.  

Tengo a sottolineare altresì che l’uccisione di Moro non giovò ai suoi sequestratori ed assassini, i quali  erano partiti con l’ambizione di suscitare sommovimenti rivoluzionari a catena in tutto il Paese e, al contrario, si ritrovarono politicamente più isolati di prima.

Da ultimo, osservo che al di là delle coordinate che ho tracciato, la domanda su chi abbia avuto conseguenze negative o invece guadagnato dalla morte di Moro può avere molteplici risposte, data la statura del personaggio, le quali non possono essere messe retroattivamente in relazione con la dinamica del sequestro e del delitto: ad esempio, il fatto che Moro fosse un autorevolissimo candidato alla successione di Giovanni Leone al Quirinale non deve indurci a sospettare di Sandro Pertini. Ci mancherebbe solo questa!   
 

8) Quando sarà possibile chiudere la vicenda Moro? E, soprattutto, in che modo?

Se per chiusura si intende l’individuazione dei responsabili, ancora manca all’appello qualche componente delle BR che partecipò all’operazione (mi riferisco essenzialmente ai due motociclisti presenti in via Fani con funzioni di appoggio e di controllo delle eventuali reazioni dei passanti), mentre per il resto ci siamo. Se parliamo in senso storiografico, il mosaico è pressocché completo. Il tutto, naturalmente, fino a prova contraria, il che vale per tutte le umane cose: quelle che non ammettono prova contraria sono le fedi o, peggio, le mere ostinazioni.

 
Di Manlio  15/06/2007, in Interviste (3549 letture)

1) Avv. Biscotti, lei che è stato parte civile degli ultimi processi contro le Brigate Rosse, oggi parlando di BR si fa riferimento spesso a Nuove Brigate Rosse così come trent'anni fa si parlava di "sedicenti" Brigate Rosse. Dai riscontri processuali come è opportuno definirle: nuove, vecchie o, semplicemente, Brigate Rosse?

Beh, forse trent'anni fa la parola "sedicenti" era da considerarsi più una valutazione "politica" di chi come nel PCI pur sapendo non voleva vedere e riconoscere che le azioni delle Brigate Rosse erano compiute da soggetti culturalmente formatisi a sinistra. Le BR di Lioce, Galesi e Morandi comunemente definite Nuove Brigate Rosse, hanno comunque origini profonde e non necessariamente legate alle prime azioni dei nuclei comunisti combattenti del 1992 e del 1994 nel momento in cui si sono strutturate come gruppo di avanguardia rivoluzionaria. Molto probabilmente l'attività di contiguità alla lotta armata da parte di questi soggetti trova piccoli riscontri sin dal 1986 quando durante le indagini per l'omicidio dell'ex Sindaco di Firenze Lando Conti, sia la Lioce che Morandi furono oggetto di perquisizione da parte degli investigatori. Ricordo che per quell'omicidio furono condannati i Brigatisti Cappello e Ravalli che a mio giudizio debbono considerarsi i leaders delle BR della metà degli anni '80 (omicidio Hunt, Tarantelli, Conti e Ruffilli). E dal loro arresto è seguita una fase di riorganizzazione fino alla nascita dei nuclei comunisti combattenti che, con l'esplicita approvazione delle loro azioni da parte dei leaders di cui parlavo, irriducibili in carcere, diventano Brigate Rosse Partito Comunista Combattente con l'omicidio D'Antona. La mia opinione è che questo filo di continuità arriva fino alle Brigate Rosse storiche e probabilmente l'anello di congiunzione tra le vecchie BR (fino al 1983) e quelle di Cappello e Ravalli potrebbe essere Barbara Balzarani che dalle gabbie due giorni dopo l'uccisione di Conti è l'unica a rivendicarne l'omicidio.

2) E' opinione comune che il filone toscano sia rimasto sostanzialmente inesplorato nella vicenda delle Brigate Rosse degli anni '70. E sembra che un legame di continuità territoriale con le Brigate Rosse attuali veda effettivamente protagonista la Toscana. Cosa c'e' di vero e, soprattutto, quale e' stato il ruolo del Comitato Rivoluzionario Toscano nella vicenda delle Brigate Rosse?

Diciamo che l'area toscana delle Brigate Rosse ancorchè oggetto di un importante processo celebrato a metà degli anni '80 ha lasciato qualche zona dove non è stato possibile fare piena chiarezza. Non è certamente una coicidenza che il rigenerarsi dell'organizzazione delle Brigate Rosse ha avuto come punto di riferimento l'area toscana. Come è ormai noto nella letteratura sull'argomento, il Comitato Rivoluzionario Toscano, nella vicenda delle Brigate Rosse, ha avuto un ruolo di grande rilievo soprattutto durante il sequestro Moro perchè, è pacificamente ammesso, il comitato esecutivo durante la prima fase del sequestro si riuniva proprio a Firenze in una base messa a disposizione dal Comitato Rivoluzionario Toscano.

3) Si riferisce all'abitazione che ospitò vertici delle BR nei 55 giorni, quella di via Barbieri di disponibilità dell'arch. Giampaolo Barbi?

Questo è quello che sembra essere emerso dagli atti della Commissione Parlamentare presieduta dal Senatore Pellegrino all'esito delle audizioni del Dott. Tindari Baglioni e del Dott. Chelazzi dove si afferma che fino all'epoca del sequestro Moro l'unico covo a disposizione fosse proprio quello di Via Barbieri (quello di Corso Unione Sovietica è successivo).

Io ritengo che fino all'epoca del sequestro Moro esisteva un altro appartamento a Firenze nella disponibilità delle BR che potrebbe avere le stesse caratteristiche descritte da Moretti. Ora le dico un'assoluta novità in merito che ho riscontrato e che sicuramente meriterà grande attenzione da parte degli studiosi per tutti i risvolti che ne comporta.

Gallinari nel suo ultimo libro "Un contadino nella metropoli" racconta che per ragioni di organizzazione fino all'autunno del '77 viveva insieme alla Brioschi e al "Rossino" (Bonisoli) in un appartamento a Firenze messo a disposizione da Giovanni, e nella nota del testo su questo passaggio, specifica che Giovanni era Senzani e che di fatto era il padrone di casa. Questo appartamento si trovava in una via a lato del costruendo Carcere di Sollicciano (zona che non ha niente a che vedere con Via Barbieri). Lascio immaginare ai più attenti cosa ciò può significare. Onde evitare querele mi limito soltanto ad evidenziare quanto emergerebbe dalle dichiarazioni di Gallinari: prima di tutto che Senzani era in relazione di fatto, sin dall'autunno del '77, con un membro del Comitato Esecutivo (Bonisoli) e con un membro del commando di Via Fani oltre che carceriere di Moro (Gallinari) e che esisteva un covo BR a Firenze dove si riunivano brigatisti di primissimo ordine, di cui Senzani era il padrone di casa, certamente fino all'autunno del '77. Non essendoci alcuna notizia della sua scoperta anche successivamente, ciò lascerebbe pensare che questo covo potrebbe essere stato attivo anche dopo l'autunno del '77, proprio alle soglie dell'operazione Moro.

4) Nell'ambito delle sue ricerche ha avuto modo di portare un'importante novità relativa alle registrazioni degli interrogatori di Moro. Ha evidenziato come le audiocassette contenenti gli interrogatori potrebbero essere tra quelle sequestrate in via Gradoli. Dal dicembre 2005 (data della pubblicazione di un articolo su Panorama) che lei sappia, qualcuno e' andato a verificare se tra i reperti esiste ancora traccia di quelle 18 cassette presenti nel verbale? Si e' tentato di recuperarne il contenuto? Insomma, come e' andata a finire?

Sul punto io mi sono limitato soltanto a far emergere la circostanza che a mio giudizio ritenevo e ritengo comunque utile, qualunque potesse essere il contenuto di quei passaggi registrati in una di quelle 18 cassette. So che in qualche modo è stato portato all'attenzione formale alla Procura di Roma ma al momento non so altro. La circostanza di questa cassetta con la "voce maschile che parla con compagni di alcuni articoli" è molto suggestiva, ma vi rimando ad una mia lunga intervista a Radio radicale* in sono sono spiegati tutti i dettagli.

5) Lei sta preparando un libro nel quale racconterà le sue riflessioni legate all'analisi dei documenti processuali. Quali elementi di novità, a grandi linee, secondo lei emergono da una lettura attenta ed approfondita che solo l'occhio di un avvocato può fare delle carte dei Tribunali? Sia in relazione al caso Moro che, più in generale, sulla vicenda complessiva delle BR?

Una novità sul caso Moro ve l'ho già anticipata, e vi assicuro, e lei certamente ben lo saprà, che non è facile argomentare sul caso Moro senza rischiare di essere male interpretati. Io ritengo che una lettura attenta degli atti sia processuali (ed è ciò che più piace) che parlamentari possa ancora oggi far emergere nuove circostanze, anche importanti. Io sono convinto che il caso Moro deve essere riaperto, solo la verità completa può portare alla vera giustizia.

6) Lei ha potuto osservare la vicenda delle BR certamente da un punto di vista diretto. Che idea si è fatto dell'autenticità del fenomeno e, in particolare, dello scenario che vide le BR protagoniste del rapimento e dell'uccisione di Aldo Moro?

Anche qui il discorso sarebbe lungo e complesso, però ritengo che le BR siano un fenomeno comunque del tutto italiano senza etero-estero-direzioni. Certo, non vi è dubbio che sia l'est che l'ovest non "stravedessero" per Moro e che di fatto sussisteva una loro accondiscendenza più o meno tacita al tragico sviluppo del rapimento.

7) Rispetto alla chiusura degli anni di piombo lei si è sempre dichiarato contrario perchè è ancora necessario fare piena luce su quelle vicende. Secondo lei quali soggetti devono ancora raccontare tutto e, soprattutto, cosa devono ancora raccontare al Paese?

Come dicevo prima soltanto tutta la verità può portare alla giustizia sostanziale per tutto quello che è accaduto nei c.d. Anni di Piombo. Ci sono però ancora tante zone oscure e anche tanti soggetti coinvolti che non hanno mai pagato perchè mai individuati e che probabilmente possono aver contribuito a fare delle Brigate Rosse l'unica organizzazione terroristica che ha saputo rigenerarsi negli ultimi trent'anni. E ci sono anche tanti soggetti che ancora sanno e non parlano.

E qui il pensiero di tutti deve andare alle vittime del terrorismo e al loro sacrificio perchè sono gli unici che ancora sopportano, troppo spesso in silenzio, il peso del piombo di quegli anni. Il loro sacrificio ha consentito alla democrazia di questo paese di tenere dritta la schiena e non esito a definirli come nuovi padri della patria.

8) Il Ministro Amato ha recentemente lanciato un allarme terrorismo sia in relazione agli arresti di febbraio sia delle minacce indirizzate a molteplici destinatari. Secondo lei esistono le condizioni per un allarme sociale e per l'introduzione di misure speciali di repressione?

Il clima, purtroppo, è sostanzialmente identico a quello dell'inizio degli anni '70, anche gli slogan sono gli stessi (e ahimè anche gli uomini dato che Maurizio Ferrari, brigatista che ha scontato trent'anni di carcere era lì tra i più acclamati del corteo de L'Aquila). Non me la sento di escludere che nella vasta area di "insofferenza" prima o poi qualcuno potrebbe "scavalcare il fosso" facendosi di fatto arruolare dagli spezzoni ancora in vita (e ce ne sono) delle Brigate Rosse. Il clima si sta facendo molto molto pesante. Ovviamente spero di sbagliarmi.

 

* L'intervista dell'Avvocato Valter Biscotti è stata pubblicata sul sito di RadioRadicale ed è rilasciata con licenza Creative Commons attribuzione 2.5

 
Di Manlio  03/09/2007, in Interviste (6183 letture)

Il contesto degli anni a cavallo tra la fine dei '60 e l'inizio dei '70 era caratterizzato dalle lotte operaie nelle grandi fabbriche, le lotte per la casa e per il lavoro e, in un secondo momento, le lotte studentesche. Un periodo segnato anche dalle stragi, interpretate da molti come la risposta violenta dello Stato a quelle lotte...

 

R. Affrontare la complessità dello scontro che lei accenna con queste premesse,(i movimenti, la reazione, le stragi ecc) e tutti gli elementi che lo hanno attraversato, più che una risposta necessiterebbe un libro. Cercherò di limitarmi a sintetizzare il tutto attraverso delle date che diano per sommi capi lo schema dei vari passaggi che quella realtà ha secondo me espresso. 

“Tra la fine dei ’60 e l’inizio dei ‘70” credo che sia un conteggio limitativo, non solo sul piano temporale, ma anche su quello politico e sociale di quel fenomeno.

E’ vero che il “Movimento” visto con la M maiuscola porta il ‘68-’69 come data della sua più elevata visibilità, ma io ritengo che per coglierne la complessità e la sua immensa capacità di tenuta e durata protrattasi 15 anni, le date da osservarne come “preludio” vengano ben prima.

E’ all’inizio degli anni ’60 che secondo me si chiude in Italia la fase del primo dopoguerra, quella della “ricostruzione” nella quale pur in presenza di contraddizioni e lotte, quella per la sopravvivenza, è ancora dominante. E’ da li che iniziano a vedersi i primi segnali di una società in una profonda fase di passaggio sociale e politico prodotto dallo sviluppo del nuovo modo di produzione capitalistico (la catena di montaggio, l’operaio massa) con tutte le contraddizioni che questo produrrà. Il luglio ’60 con i suoi scontri di piazza e i suoi morti è sì la risposta al governo Tambroni ed al ritorno dei fascisti sulla scena politica governativa, ma è ancor più il segnale di una nuova figura sociale che sta materializzandosi e prendendo forma nel paese. I ragazzi con le “magliette a striscie” sono l’espressione di una brace che fora la cenere e comincia ad esprimere e rivendicare dei bisogni che sono indotti dallo sviluppo che è avvenuto nella società capitalista nel dopoguerra.

Una brace che porta segnali che sono sociali, generazionali, culturali, ma che, messi assieme divengono un grumo che pone problemi politici, con la P maiuscola, non quella del palazzo. 

Come sempre tutti i fenomeni storici sono la somma di mille contraddizioni vecchie e nuove, nazionali ed internazionali, che si amalgamano, si contorcono, e producono il potenziale dell’esplosione. Ma il nuovo che esprime quel fenomeno dei primi anni ‘60 è prorompente ed è da lì secondo me che inizia il percorso sociale e politico che poi porterà agli sviluppi del ‘68-’69. 

Piazza Statuto è del ’62, e non è sola, ed è chiaramente il segno ormai di una rottura totale, da parte delle nuove figure sociali che stanno nascendo, con la politica del Pci e le vecchie forme organizzative della sinistra del primo dopoguerra nel nostro paese. E’ attorno a queste nuove figure che inizia anche nel mondo intellettuale una trasformazione degli interessi di ricerca, la quale porterà al sorgere di strumenti di analisi come quella dei “Quaderni”, etc.  

Capire questo è secondo me importante per spiegarsi il livello di sedimentazione che quella realtà ha prodotto, e i tempi della sua tenuta.         

Le stragi. Le stragi sono la risposta dello Stato, di una parte di esso, in quella fase, allo sviluppo della realtà di scombussolamento sociale e politico in corso. L’obiettivo che si pongono con quegli atti, è quello di “bloccare” il paese. Impedire che le tensioni che lo stanno attraversando possano spingerlo verso una sua trasformazione rivoluzionaria. Costringere sotto ricatto le forze politiche istituzionali, in particolare il Pci, ad ergersi a difensore dello stato di cose presente, contro il pericolo di una sua trasformazione reazionaria. E’ un nodo importante questo da cogliere.

La situazione sociale e politica del momento è rivoluzionaria. Le stragi servono ad impedirne un suo sviluppo. Trent’anni dopo lo stesso Cossiga parlerà del ruolo “stabilizzante” di quelle stragi. Ritengo che mai parola d’ordine di quel periodo fu più centrata che l’identificarle appunto come “stragi di Stato”.    

 

Lo scenario storico vede le lotte sociali al centro di uno scontro politico-sociale di livello elevatissimo. La politica, ed il PCI in particolare, si mostrò sorda alle richieste provenienti da quelle lotte. Ci fu un arrocco, più che un tentativo di comprendere e rispondere...

Il PCI, per molti giovani di sinistra dell'epoca, rappresentò un po' una delusione. Larghe parti della sinistra estrema entrarono in contraddizione con la linea ufficiale del partito. Il '68, in questo senso, rappresentò una rottura con il partito e gli anni successivi furono il tentativo di proporre un'alternativa...

 

R. Il Pci era stato costruito e si era sviluppato nel primo dopoguerra in un bagaglio storico e sociale che veniva messo fortemente in discussione da quelle nuove figure operaie e giovanili che lo sviluppo capitalista di quegli anni aveva prodotto.

L’operaio del Pci era stato quello che nel ’45 aveva difeso le fabbriche dai tedeschi, le aveva ricostruite dopo i bombardamenti, come “ricchezza del paese”, anche se di proprietà di padroni che prima erano stati un buona parte fascisti. La figura classica dell’operaio del Pci era quella dell’operaio professionista che “creava” produzione, che “partecipava” allo sviluppo del paese che proveniva dalla guerra e dalla miseria.

Il risultato di questi sacrifici andava al padrone, ma per lui “militante”, queste erano solo le premesse del sol dell’avvenire, o nella parte più cosciente, della ricchezza prodotta nel paese, da raccogliere poi in un futuro prossimo con … “la presa del potere”.

La nuova figura dell’operaio massa, sorta con lo sviluppo della produzione capitalista del dopoguerra, radeva al suolo questa ideologia, la base di questi “valori”.

Il nuovo operaio non era più “solo” uno sfruttato che doveva fare propria, attraverso la lotta politica e sociale, quella produzione. Ne era una figura “estranea”. La nuova organizzazione della produzione e del lavoro, la catena di montaggio non gli appartenevano: ne viveva solo la sua estraniazione, assommata ai ritmi dello sfruttamento, dell’emarginazione e dalla precarietà delle condizioni nelle quali viveva. Questo in relazione con una società che si sviluppava e produceva ricchezza… per pochi. Rabbia e lotta “spontanea”, che parte da bisogni primari, (la sopravvivenza, la casa..) ma che prende presto coscienza della sua potenzialità: il padrone per produrre la sua ricchezza non può in quella fase fare a meno di lui. Questo rende politico lo scontro.

Le parole d’ordine che lo attraversano non sono solo sul salario, sono oggettivamente, e pian piano per molti anche soggettivamente, di potere.

I “bisogni” del salario, dei ritmi, visti come staccati dalle “leggi” della produzione e del mercato. 

Questo il Pci non poteva capirlo. Era estraneo alla sua storia ed al suo percorso sia di analisi che di esperienza politica. Lo sviluppo del capitalismo produceva un nuovo quadro sociale, e questo a sua volta, si immergeva in una condizione internazionale (vedi tracollo del colonialismo, Cina, Vietnam, America Latina) che rendeva potenzialmente rivoluzionaria la situazione.

E’ questo secondo me che va tenuto presente per comprendere la “sordità” del Pci di fronte a quella realtà. Non poteva guidarla perché non poteva nella sua interezza concepirla.           

 
 

L'esperienza delle Brigate Rosse nasce dalle lotte sociali, nei quartieri e nelle grandi fabbriche fuori dalle logiche partitiche ed istituzionali. Le "avanguardie" che portano avanti quel tipo di lotte non si pongono come una rottura dal PCI ma sono un'altra cosa rispetto al PCI. Quali sono state le logiche che hanno portato dalle lotte sociali alla scelta della lotta armata?

Scelta che si relaziona con l'evoluzione delle lotte che portano alla formazione di una sinistra comunemente definita extraparlamentare all'interno della quale si rafforza il pensiero che "era possibile vincere". In un certo senso voi proponente una sinistra offensiva mentre la sinistra istituzionale, da voi criticata, mostrava un eccesso di gioco difensivo...

 

R. Le Brigate Rosse nascono da un percorso interno a quella situazione. E’ un percorso nel sociale, nella materialità dello scontro in corso, ma è ancor più il prodotto di una interpretazione tutta politica della fase nella quale ci troviamo, che ne fanno i suoi militanti.

E’ da li che ne vengono i passaggi e le scelte. Il prodotto di una analisi delle condizioni esistenti in quel momento, ed una scelta politica che abbiamo ritenuto la naturale conseguenza.

Le lotte in corso in quel periodo in se, non sono “soggettivamente” contro il Pci, ne sono fuori oggettivamente.

Sono “fuori dalle logiche partitiche ed istituzionali”, ma non sono fuori dalla politica.

Proprio perché non si pongono il problema della “mediazione” della politica, sono oggettivamente politiche a tutti gli effetti: sono antagoniste. Sono senza mediazione possibile. Il “salario uguale per tutti”, “la casa si prende, l’affitto non si paga”… due delle tante parole d’ordine espresse da quel movimento, sono fuori dalla possibile contrattazione sindacale. La classe operaia non si “dialettizza” con la controparte padronale: esige direttamente una trasformazione totale della sua condizione di vita.

Questo è chiaro che il movimento lo vive come un’onda prodotta dalle sue condizioni precarie ( emigrato emarginato e senza una casa, schiavo di un lavoro che lo rende un ingranaggio della catena, ecc) che esige trasformare. Ma è proprio da questo inizio delle lotte che prendono vita due fenomeni importanti, i quali trasformano oggettivamente lo scontro: 1) la scoperta da parte del movimento della sua forza e di conseguenza della potenzialità dirompente che contiene la sua lotta; 2) la presa d’atto da parte della sua avanguardia cosciente che questo potenziale può esprimersi su problematiche ben più ampie, in grado di modificare nella sostanza politica lo stato di cose presente: la questione del potere.

E’ quello che è successo allora. Ed è da questo, che susseguono le scelte politiche ed organizzative che man mano poi prenderanno forma.

La questione della lotta armata sta nel processo, ma è un suo sviluppo. E’ una scelta soggettiva, ma che è via via sviluppata dalla condizione dello scontro. Ma qua siamo già sulle forme organizzative.

Le prime Brigate Rosse nascono nelle grandi fabbriche del nord come forma organizzata, all’interno delle lotte, in grado di tenere lo scontro in atto di fronte alla controffensiva padronale che sta sviluppandosi (licenziamenti delle avanguardie, denunce e processi, ecc). Costruire cioè un contropotere organizzato all’interno della fabbrica che sia in grado di condizionare le scelte e il comportamento della controparte. Questa è la prima fase delle Brigate Rosse.

Lo scontro col Pci e con il sindacato in questa condizione è tutto politico: mettere in evidenza come un’altra forma organizzata all’interno della classe operaia sia in grado di sostenere quelle esigenze operaie che loro stanno svendendo al padronato.

E’ da questa realtà che man mano si dipana la maturazione di un processo prodotto da mille rivoli.

Il primo è che la lotta, portata a quel livello, prende anche nella sua sostanza l’altezza dello scontro politico, quella di un dualismo di potere sulla lotta per il comando; il secondo è che la contraddizione esce dalla fabbrica, attraversa la vita sociale della metropoli, divenendo così sempre più contraddizione politica con l’istituzione che la governa. Questi sono i fenomeni oggettivi che sorgono da quei passaggi. Ma non sufficienti per spiegarne gli sviluppi.

Infatti in quella condizione, anche buona parte della sinistra antagonista di quegli anni (Potere Operaio; Lotta Continua, ecc ecc), in un modo o nell’altro c’era arrivata, seppur con forme organizzate tra loro differenti.

Quello che fanno i militanti delle Brigate Rosse è un passaggio oltre. L’analisi che esse fanno è tutta politica, ed essa, li porta alla conclusione che ci sono i potenziali e le condizioni per trasformare quelle lotte sociali ed economiche in scontro politico per il potere.

Qui sta il filo rosso per seguire man mano lo sviluppo dei percorsi e delle scelte successivamente fatte dall’Organizzazione . Ovviamente questa scelta soggettiva si è via via misurata, scontrata e condizionata, dagli sviluppi dello scontro in atto nel paese, e dalle scelte politiche della controparte. Basti vedere P.za Fontana, ecc. Ma la cosa che ci tengo a chiarire è che il nodo delle scelte effettuate all’origine è tutto politico, e ne sta a monte, anche se ci si relaziona.

Forse, con l’aria che tira oggi, molti se leggeranno questo ci prenderanno per pazzi, ma noi (per fortuna e con orgoglio) eravamo “figli del novecento” e cioè pensavamo non solo che fosse possibile, ma anche che fosse necessario e giusto, come si dice ironizzando Lenin: “prendere il palazzo d’inverno”, cioè il potere politico dello stato.

Questa penso sia la chiave interpretativa prima, di “quali sono state le logiche che (ci) hanno portato dalle lotte sociali alla scelta della lotta armata”.

 
 

La sinistra istituzionale non rispose alle istanze provenienti dalle lotte: non seppe o non volle?

 

R. Quello che io posso interpretare delle scelte che il Pci fece in quegli anni è che siano state il risultato naturale di un miscuglio di problematiche composito, che erano poi il prodotto di tanti elementi: sviluppo del suo percorso storico, della sua composizione sociale, della collocazione politica del paese, ecc. Il ruolo di “frontiera” nel campo della politica internazionale nel quale si trova il nostro paese, in un mondo diviso in blocchi, con tutto ciò che significava e con le scelte conseguenti fatte al proposito da Togliatti, e man mano sviluppate dal partito dopo Salerno; l’ambito sociale e storico nel quale si è costruito il suo militante, (la “Costituzione” la “politica dei sacrifici”)… Tutti “principi” in contraddizione stridente con le problematiche che poneva l’operaio della catena di montaggio o lo studente di Valle Giulia in quegli anni.

Ritengo che in questo quadro di problematiche, nel partito non potesse che dominare l’incapacità di capire questa nuova realtà e i fenomeni che essa conteneva. 

Ciò che aveva di fronte era un movimento soggettivamente antagonista a quelle regole.

Date queste premesse, dal partito, come naturale, tendeva ad emergere una contraddizione che è “storica”, purtroppo, nel movimento comunista: chi negli ambiti sociali “miei” non è d’accordo con me è sicuramente un “nemico” o un provocatore prezzolato. Una storia che conosciamo bene.  

Con questa chiave di lettura è chiaro che poi non possa altro che determinarsi una classe dirigente del partito molto incancrenita, ed incapace non solo di dialettizzarsi con gli avvenimenti sociali, ma anche solo di “governare” quelle tensioni e quelle modifiche dirompenti, che in qualche modo lo coinvolgono. (Basti vedere dal suo interno la contraddizione “Manifesto”)    

 
 

Per molto tempo (e forse ancora oggi in qualche maniera accade ciò) le Brigate Rosse sono state sedicenti, cosiddette. Il 16 marzo, ad esempio, il Corriere della Sera utilizza le virgolette e scrive: Il Paese rifiuta il ricatto delle "Brigate Rosse". Perchè questo alone di mistero...

 

R. C’è un dato in politica, nella storia del movimento comunista, che è oggettivo: non ammettere la differenza di visione politica o sociale all’interno dell’ambito nel quale sei radicato.

Una brutta malattia, ma purtroppo esisteva… ed esiste. 

E’ chiaro che partendo da questa premessa, chi si muove diversamente da te in quell’area, è l’avversario da estirpare.

Il passo successivo è che ovviamente non può essere che… “al servizio del nemico”

Un caso che può dare luce di questo, sta proprio qui a Reggio Emilia, da dove vengo io. La maggioranza di noi (5/6) ,che eravamo divenuti nomi noti come brigatisti, venivamo dal Pci, e tutta la città lo sapeva benissimo… Il mistero di Pulcinella. Eppure pubblicamente esistito per anni.

Ritengo comunque che, al di là della propaganda dei mezzi di comunicazione, in quegli anni ci siano state situazioni e condizioni nel paese tra loro molto differenti. Un problema è ciò che appare sui giornali, un altro è ciò che sanno, pensano o vivono, quegli operai e quei cittadini che oggettivamente si relazionano nelle fabbriche o nei quartieri con la nostra presenza attiva di propaganda e di combattimento. Nelle grandi fabbriche del nord, la presenza brigatista era ben conosciuta ed accettata, anche se non necessariamente sempre condivisa, da buona parte degli operai presenti. Non è un caso che è proprio quando arriviamo a Guido Rossa che recepiamo, seppur in ritardo, il grosso mutamento in corso nella realtà del paese. Che una fase politica si stava chiudendo. O in molti settori era già chiusa.

Per arrivare a come poi i giornali o i mezzi di comunicazione della classe al potere gestiva l’informazione, è chiaro che essa veniva usata come strumento di guerra contro l’avversario.

E’ una legge di tutte le guerre, affermare e propagandare che il nemico, è prezzolato, brutto e cattivo. Su questo basti leggere ciò che successivamente Cossiga, una volta smesso il suo ruolo di ministro, e ancor più una volta sconfitti noi, scrive. Arriva tra le altre cose ad affermare placidamente degli svariati incontri e riunioni svoltesi in quegli anni tra lui e Pecchioli per concordare quali falsità mettere in circolazione con l’obiettivo politico di screditarci e isolarci. Niente di nuovo sotto il sole.    

 
 

La risposta del PCI alle lotte nelle fabbriche fu il tentativo di realizzare un'unione tra le classi, anche sulla base dell'esperienza del Cile che, a detta del PCI, dimostrava come non fosse possibile andare al potere se non con un accordo con la borghesia. La sinistra rivoluzionaria, invece, riteneva che c'erano le condizioni per continuare lo scontro ad un livello superiore...

 

R. Quello è un passaggio. L’analisi di Berlinguer sul colpo di stato in Cile è sicuramente una accelerazione di questo percorso. Ma non è secondo me la sua origine. Da parecchio tempo il partito traccheggiava tra l’ambiguità e il vivere di rendita. “La resistenza”, “la Costituzione”, “la Pace”, tutti elementi sicuramente radicati nella sua anima di fondo, tra i suoi militanti, ma che partivano tutti da un dato molto preciso e fatto proprio già da Togliatti quando è venuto via dall’Unione Sovietica: un pianeta diviso in blocchi; e noi appartenevamo a quello occidentale.

Le tensioni “Secchiane”… “ha da venir baffone”… ecc ecc, erano sovrastruttura all’interno del partito che coinvolgevano una certa base, e ancor più noi giovani, ma non era la linea e le prospettive del suo progetto politico.

La trasformazione sociale che produce quel movimento esce da questo impianto.

La sinistra rivoluzionaria che da quella realtà prende forma, per davvero ragiona e vive, immaginando la possibilità di una rivoluzione totale. Qualcosa che modifichi, nella sostanza, il modo di produzione esistente, la collocazione internazionale del paese, i rapporti in atto tra le classi sociali. Quello che si esprimeva non era una tattica diversa all’interno della trasformazione della stessa società. Erano due strategie differenti per due società differenti. Qui sta il nodo.   

 

Quando si parla degli "anni di piombo" si parla quasi sempre di Brigate Rosse e delle altre organizzazioni rivoluzionarie, contando i morti e criminalizzando un'intera generazione. Quando qualcuno esce di galera o fa qualcosa come personaggio pubblico (alludo alla recente semiliberta' concessa alla Balzerani o alle tante conferenze di Curcio) si sollevano i soliti cori di coloro che vorrebbero veder marcire in galera gli ex militanti di organizzazioni di lotta armata.
Il fatto che in Italia vi siano state stragi di "Stato", attentati, tentativi di golpe, repressione contro anche forme pacifiche di lotta sociale sembra interessare davvero poco e scandalizzare ancor meno. C'e' qualcosa che non torna, o no?

R. Molto semplice: perché un movimento rivoluzionario che attacca “il palazzo”, che pone come elemento base della sua stessa esistenza il tentativo di scardinare le basi della società capitalista, è un nemico totale, assoluto. La sua presenza antagonista mette in discussione gli elementi basilari del potere, dello Stato. Va annientato, non solo organizzativamente, ma ancor più va creato su di lui il terrore per le generazioni a venire, impedire così con ogni mezzo che possano avere anche solo la malsana tentazione di poterci riprovare.

Le stragi, i tentati o recitati golpe, le repressioni contro anche le forme pacifiche di movimento e lotte sociali, stanno nel DNA dello Stato, del potere politico e delle sue stesse leggi di esistenza.

In Italia è da quando ero ragazzo che si parla di “servizi segreti deviati”, ma nessuno ha mai avuto la malaugurata idea di “raddrizzarli”. Perché così servono, e così continueranno a servire. Ogni tanto, al massimo, c’è qualche grido “al lupo”, ma più che altro per far sentire qualche rumore di sottofondo che ricalibri all’interno del quadro politico i rapporti di forza tra strutture, apparati e forze politiche. Niente più.

 

.. e quando si parla di Brigate Rosse, si finisce sempre per parlare della vicenda Moro. Ma la storia delle BR è un'altra, fatta di centinaia di azioni contro esponenti che nell'ambito delle lotte sociali erano visti come nemici...

 

R. Il sequestro Moro è una azione che avviene nel 1978. Le Brigate Rosse sono presenti nello scontro italiano dal 1969-70, quando partono nella attività combattente con gli incendi delle macchine dei capi officina alla Pirelli, alla Sit-Siemens di Milano….

Quasi dieci anni di presenza, di azioni grosse e piccole, di disarticolazione o di propaganda, di scelte sviluppate nella conduzione dello scontro, con passaggi politici man mano praticati.

Il fronte di intervento è stato vasto e articolato per tutta la storia dell’organizzazione, dalle fabbriche e le sue strutture di direzione, alla Confindustria, agli “apparati della repressione”: Carabinieri, Magistratura, personale delle carceri, Polizia.

Se man mano che lo scontro si sviluppa, si arriva a Moro, è perché nella nostra analisi politica dello scontro in atto, è da tempo che noi abbiamo individuato la Democrazia Cristiana come anello centrale e “cuore” politico dello stato imperialista che combattiamo.

Obiettivo di conseguenza centrale da disarticolare. 

Quando si arriva a Via Fani infatti, le azioni contro la Democrazia Cristiana da noi portate a compimento nel paese sono già state decine e decine (macchine bruciate, perquisizioni di sedi, ferimenti di dirigenti, ecc). 

E’ da quell’analisi e dal percorso combattente sviluppato in quegli anni che si arriva a Via Fani, alla “questione Moro”. Tolto dal contesto quell’azione diviene un’altra cosa da quella che è invece veramente stata per noi nella sua programmazione e conduzione.

 

Lei ha più volte affermato che le Brigate Rosse hanno raccontato la loro storia, una storia politica. Ma qualcun altro, forse, la sua storia non l'ha raccontata per nulla, soprattutto in relazione al caso Moro. Ma di questo non si può chieder conto alle Brigate Rosse...

 

R. Raccontare quella storia, da parte del quadro politico dei partiti e delle strutture istituzionali allora presenti nello scontro in atto, vorrebbe dire “mettere in piazza” i progetti e gli interessi, anche di “bottega” che li hanno in quel momento coinvolti.

A modo suo, e ovviamente con progetti ed interessi suoi, a tentare di aprire dal lato del potere una rilettura di quegli avvenimenti almeno più basata sui fatti avvenuti realmente, ci ha provato Cossiga dopo che aveva concluso il suo iter istituzionale. C’è stato una reazione a spron battuto da parte di tutte le forze politiche allora in campo, dalla destra alla sinistra… anche estrema, per farlo passare per pazzo. Non è un caso. Soluzione migliore, piuttosto che confrontarsi realmente con gli avvenimenti di quegli anni, e che costa loro meno sul piano politico, è invece lo spingere l’informazione, la propaganda, per alimentare la teoria dei “misteri”e dei “complotti”.

Noi abbiamo sempre affermato in modo chiaro il perché, e l’obiettivo politico che ci siamo preposti con quell’attacco. Le uniche “voci discordanti” dall’interno vengono da uno come Franceschini, il quale era in galera da cinque anni quando avvengono i fatti, e le sue “voci” arrivano svariati anni dopo gli avvenimenti, quando era oramai giunta la sconfitta e la fine dell’organizzazione. Ricostruzioni… per il miglior offerente.

Tornando invece ad un ragionamento serio: Aldo Moro è stato rapito ed ucciso dalle Brigate Rosse. Questo deve essere chiaro. E l’ultimo atto, della sua uccisione, l’hanno fatto assumendosene la piena responsabilità e come compimento dell’attacco che avevano portato. Il tutto, ovviamente, perché di fronte ad un rifiuto di qualsiasi altra soluzione da parte del quadro politico, abbiamo ritenuto non ci fosse altro sbocco possibile.

Detto questo, quando avvengono dei fatti di quella portata, nella politica, può succedere che soggetti con interessi contrapposti tra loro, salgano sulla scena e cerchino di averne un tornaconto.

Questa non è collusione, o l’essere “manovrati” o “eterodiretti”, è la legge banale della politica.

Quali erano i progetti in campo? Il nostro, molto chiaro e lo abbiamo urlato e dichiarato mille volte: distruggere la DC, mettere in crisi il quadro politico allora al potere.

Quali erano le altre forze in campo allora, in quella situazione, che hanno spinto cercando di condizionare ed indirizzare gli sviluppi e la conclusione di quell’azione?   

Primo, il Pci, padre e padrone della “politica della fermezza”, scelta che ha impedito qualsiasi altra possibilità di sviluppo all’azione, in quella situazione. Politica che in quel contesto gli ha permesso di assumersi un ruolo di primo piano, condizionando le scelte di tutto il quadro politico allora presente. Scelta “centrata”, anche se poi la ha pagata sonoramente nel suo sviluppo negli anni che sono seguiti. Non da meno Andreotti, che all’interno del suo partito ha ovviamente utilizzato quella situazione per modificarne i suoi rapporti di forza interni.

C’è chi dice, forze economiche,… gli americani… può darsi…

E penso che l’elenco a chi volesse proseguirne la ricerca potrebbe allungarsi parecchio.

Anche il fronte “opposto”, del resto aveva suoi interessi per orientare la conclusione dell’operazione. Basti vedere l’entrata in scena, completamente contrapposta di Bettino Craxi, in quel contesto. Anch’essa era altrettanto indirizzata da un interesse di partito, o detto in termini volgari “di bottega”. Quello di porsi come contraltare al processo politico in atto.

Penso sia questo “groviglio” di interessi e di progetti politici l’aspetto primo del perché “qualcun altro, forse, la sua storia non l’ha raccontata per nulla”. E la stravolge tutt’ora per battaglie di palazzo.      

 
 

Si parla di giornate della memoria, di amnistia, di soluzione politica e, puntualmente, si assiste a battaglie da curva sud. Chiudere con quegli anni deve essere una priorità per riappacificarsi con il passato e costruire insieme una memoria condivisa e le responsabilità collettive (come dice anche Maria Fida Moro). Ma come superare quegli anni?

 

R. Io ed altri compagni/e abbiamo speso anni della nostra attività, dopo la dichiarazione da parte nostra della chiusura di quella esperienza, perché si aprisse un dibattito che desse la possibilità al paese di storicizzare e cogliere perché un fenomeno di quella portata avesse attraversato l’Italia in tutti quegli anni. Coinvolgendo nel suo percorso decennale migliaia di donne e di uomini che ne erano stati i protagonisti.

Questa scelta, anche pagandone un prezzo, assumendo cioè spesso posizioni politiche e ruoli che non sempre erano condivisi da molti dei militanti, protagonisti di quel bagaglio.

Il tutto ovviamente senza voler invertire ruoli o giudizi da dare tra le controparti sui fatti avvenuti.

Pensavamo che capire vuol dire anche superare quella fase, coglierne i nodi sociali e politci che l’hanno generata. Questo ritengo sarebbe stato un interesse per tutto il paese, anche per le forze politiche che lo governano. Non si nasconde una storia di quella portata scopandola sotto il tappeto.

Ritengo che il non averlo voluto e saputo fare da parte delle forze politiche, sociali e culturali che “stavano dall’altra parte”, non ha solo stravolto gli avvenimenti di tutti quegli anni, ma ha anche reso più confuso e debole il quadro politico istituzionale.

Il prossimo anno è il trentennale di Via Fani… ci siamo oramai abituati che massimo una volta all’anno “riesplode” il problema, si scambiano accuse tra forze politiche o apparati, si immettono sulla scena possibili “misteri”… o ruoli svolti. E in questa condizione, il ciclo si ripete e si ripeterà all’infinito. Senza soluzione.

Oggi non ci credo più, non credo che sia possibile, neppure all’interno della sinistra affrontare quei nodi. Per me è una sconfitta , ma io in fondo sono un soggetto, e mi porto la mia storia personale e politica, con tutti i suoi drammi e pregi, sulle spalle. Molto peggio ritengo sia per lo sviluppo del paese e del suo quadro sociale e politico, incancrenito da quegli anni. Basti vedere le reazioni scomposte dei mezzi di comunicazione e delle forze politiche in campo, ogni qualvolta avviene una pisciatina che possa far risalire a quegli anni, per dimostrare lo stato nel quale si trovano. 

Ritengo che pur avendone sofferto e soffrendone direttamente di persona, in un dolore che è famigliare (ed è ben altra cosa dal fatto politico) sia ben più lucida e lungimirante su questo, la signora Moro quando accenna al percorso di costruire una memoria condivisa ed una responsabilità collettiva. Non per invertire ruoli, posizioni politiche, o metri di giudizio, ma per andarne oltre veramente.

 

Per venire poi, come accenna nella domanda, alle giornate della memoria “sul terrorismo” di recente applicazione da parte del Parlamento, provo una grossa tristezza. In un paese che è vissuto e si è trovato orientato lo scenario politico attraverso stragi, fasciste, ma anche “di Stato”, si diceva una volta, - che potremmo elencare partendo da Peteano, ma possiamo “limitarci” guardando a quelle degli anni ’70 con P.za Fontana, P.za della Loggia, San Benedetto Val di Sambro, la stazione di Bologna, ecc ecc, le quali hanno provocato la morte di centinaia di cittadini inermi- e si arriva a nominare come la giornata del ricordo e contro il terrorismo, come suo simbolo, la giornata della morte di Aldo Moro, chiarisce quanta cenere si intenda mettere sulla storia e su quella del vero terrorismo avvenuto nel paese.   

 

A proposito dell'apertura del dibattito avviato subito dopo aver dichiarato la conclusione dell'esperienza armata, voi avete cercato di aprire una discussione politica. Ma le forze politiche, sociali e culturali non hanno saputo (o voluto) raccogliere. Lei, nel 1993, nel motivare la sua volontà di non parlare in sede giudiziaria affermò che eravate pronti ad affrontare quegli avvenimenti invitando gli Andreotti, i Forlani a partecipare al dibattito in aula. Ma evidentemente l'aula giudiziaria, per ragioni strutturali, non era la sede adatta ad un processo di quel genere. Cosa vi aspettavate dagli Andreotti e dai Forlani, quale tipo di contributo?

R. Il dibattito che abbiamo tentato di aprire nel momento in cui abbiamo dichiarato chiusa la nostra esperienza, era rivolta ai movimenti sociali, alle forze della sinistra anche istituzionale, ed aveva come obiettivo primario il tentativo di storicizzare, per superarlo, il fenomeno della lotta armata che aveva attraversato il paese in tutti quegli anni, coinvolgendo migliaia di operai e studenti. Fenomeno che aveva condizionato fortemente la realtà sociale e politica in Italia.

Ripercorrere una storia alla sua estinzione politica ed organizzativa, anche per oltrepassarla.

Cosa che non è stata fatta, non la si è voluta affrontare, e questo sul piano politico dà secondo me anche spazio oggi, a chiunque lo voglia, di sentirsene “rappresentante” o “discepolo”. 

E’ chiaro che poi, da questo lavoro poteva sorgere un passaggio che coinvolgesse tutto il quadro politico istituzionale del paese e che portasse, al suo compimento, ad una “soluzione” in grado di affrontare anche la questione della detenzione e del carcere dei suoi protagonisti.

Ma questo è un altro punto rispetto alla nostra richiesta in quel momento specifico, e cioè durante lo svolgimento del processo, di chiamare a testimoniare in aula i dirigenti politici della DC e del potere politico di quegli anni. La nostra chiamata in aula allora era più legata ad un tentativo di trasformare un atto giudiziario, come la magistratura, secondo la sua funzione e logica, stava conducendo il processo, in un atto politico, come del resto il sequestro Moro era stato nel corso del suo compimento. Coinvolgendone in questo modo “la controparte” che ne aveva condizionato sviluppo e conclusione.  

 

Se nel 1987 i detenuti politici dichiarano congiuntamente "i militanti delle BR coincidono con i detenuti delle BR" e, quindi, in un certo senso nessuno è più autorizzato ad utilizzare quel simbolo e quel nome, perché dopo oltre 15 anni si parla ancora di Nuove Brigate Rosse? E' un progetto senza contesto sociale?

 
 

R. Quella storia si è chiusa, e si è chiusa non solo per noi, ma per tutte le organizzazioni combattenti espressione della realtà di quegli anni, con una sconfitta. E potremmo dire ancora un pò prima del 1987. Ma noi ci assumemmo allora la responsabilità di quella dichiarazione perché effettivamente venivano arrestati in quei giorni gli ultimi compagni/e che la rappresentavano.

Ciò che avviene dopo è un’altra storia. Questo è importante capire. A me non interessa giudicarla, o esprimere valutazioni morali o “sentenze” sui suoi protagonisti. Anzi, ritengo sia giusto sul piano umano sempre solidarizzare quando della gente come i compagni arrestati in questi anni vive delle condizioni di vita durissime in carcere. Ritengo però anche che l’analisi politica delle condizioni e delle forze in campo debba stare sempre al primo posto per esprimere valutazioni sui fatti.

E’ una fase storica che si è chiusa allora. Sono condizioni sociali e politiche sulle quali quella realtà è sorta e si è potuta esprimere, che sono terminate. Qualsiasi giudizio se ne voglia dare, la lotta armata in Italia, è stata possibile perché un’area sociale e di classe vasta gli è stata per diversi anni attorno. Acqua alimentatrice, ma anche girino del pesce. Questa realtà non esiste più. Una rivoluzione non si inventa. Si relaziona alle condizioni ed ai soggetti che si trova di fronte.

Quella si è chiusa, non per nostra volontà, ma perché siamo stati sconfitti e la realtà che si è sviluppata nel nostro paese e nel mondo in tutti gli anni che ne sono seguiti è un’altra.

Con questo non voglio certo dire in meglio… ma la realtà non si inventa a proprio piacimento.

 

Del “fare notizia” o clamore che poi ne sussegue, ogni volta che viene arrestato uno, che quasi sempre poi non ha mai sparato un colpo, o perché da qualche parte è apparsa una “scritta”, di questo già ne parlavo prima... ed è tutta un’altra storia. Mi sa tanto che sia il cane che si mangia la coda… o meglio, una classe politica ingabbiata su se stessa che urla al lupo per non cercare di capire perché un giorno è stata morsa.

 
 
Di Manlio  25/12/2007, in Interviste (5823 letture)

Tra le iniziative private che si sono svolte durante i 55 giorni di prigionia di Aldo Moro, particolarmente significativa è stata la vicenda che ha visto protagonista l'Onorevole della Democrazia Cristiana, Benito Cazora che, sfruttando i canali della malavita che lo avevano contattato, si attivò moltissimo rischiando a livello personale ma restando sempre all'interno dei confini della legalità.

Forse riuscì a trovare la chiave per aprire la porta della "prigione del popolo" ma probabilmente qualcun'altro aveva provveduto a "cambiare la serratura".

Benito Cazora è stato sempre citato nella pubblicistica in relazione a due episodi molto importanti: una segnalazione che ricevette con riferimento alla zona di via Gradoli indicata come "zona calda" nella quale concentrare le ricerche e la questione delle foto scattate dal meccanico Gerardo Nucci, abitante in via Fani, subito dopo la fuga del commando che avrebbero potuto immortalare persone riconducibili alla malavita calabrese (foto che, consegnate al magistrato Infelisi, non saranno mai più ritrovate).

Ho ritenuto interessante ed utile approfondire il ruolo di Benito Cazora, il contatto proveniente dagli ambienti della malavita calabrese, i reali e concreti elementi che l'Onorevole mise a disposizione delle istituzioni, le difficoltà incontrate nel suo percorso.

Sono stato contattato da Marco Cazora, che come tanti lettori ha voluto mandarmi un suo piccolo (nel senso di breve) ma importante contributo. Ne è nata un'amicizia ed una stima reciproca che mi ha portato a parlare a lungo con Marco e farmi un'idea nuova della figura di Benito Cazora (purtroppo defunto nel 1999) e dei suoi sinceri e concreti tentativi di salvare la vita ad Aldo Moro.

Alla vicenda Cazora non è stata data, secondo me, l'importanza che meritava. E' stata sottovalutata nel corso dei 55 giorni ma, soprattutto, dimenticata negli anni a venire. L'ultima intervista di Benito Cazora fu pubblicata poco prima della sua morte dal mensile Area (giugno 97, pag. 34-36 leggi) a cura della giornalista Paola Di Giulio coordinata da Gian Paolo Pelizzaro che, in quel periodo, approfondì la vicenda di via Gradoli con un corposo dossier che uscì in più puntate tra maggio e luglio sempre del 1997.

Il 18 aprile 2008, inoltre, Marco ha rilasciato una lunga intervista ad Alessandro Forlani nell'ambito della rubrica "Parole in frequenza" nella quale ha fornito ulteriori particolari della vicenda che vide suo padre protagonista e parlando anche degli anni a venire e di come quel tragico episodio abbia poi condizionato la vita privata e la carriera politica di Benito Cazora.

A Marco ho voluto fare qualche domanda aggiuntiva per dare al lettore un quadro più completo del contesto nel quale si mosse suo padre.


1) Marco, ci può ricordare, brevemente, il percorso politico di suo padre Benito Cazora?

Durante la 2° guerra come diversi bambini credo, distribuisce clandestinamente il giornale della D.C.. Decimo di undici figli e a 8 anni orfano di padre, inizia molto presto a lavorare coltivando intanto la passione per la politica. Iscritto alla D.C. diventa segretario di sezione, poi consigliere comunale a Roma, quindi assessore ed infine parlamentare sino al 1985.

2) In che rapporti era suo padre con Aldo Moro?

Dobbiamo ricordare che un tempo (sembra ormai lontanissimo lo scioglimento della Democrazia Cristiana) il partito era diviso in correnti e questo non permetteva grandi rapporti con i leader di correnti diverse. Di conseguenza tutto si “limitava” ad una forma di stima e di grande rispetto che portava mio padre, per esempio, a dare del Lei a persone del calibro di Moro o Fanfani. Ho l’impressione che oggi tutto sia molto diverso.

3) Nel tempo sono emersi due importanti episodi che, nell'arco dei tragici 55 giorni, hanno visto protagonista Benito Cazora. In primo luogo l'intercettazione telefonica con il segretario di Moro Freato nella quale suo padre racconta di un esponente della malavita calabrese che lo contattò per tentare di recuperare delle foto scattate in via Fani. E poi c'é la soffiata proveniente sempre da un esponente della 'ndrangheta che lo esortava a cercare la prigione di Moro nella zona della Cassia (nei pressi di via Gradoli). Ce li può raccontare meglio?

A questo proposito ci tengo a precisare, che la frase spesso pubblicata “l’ On. Benito Cazora incaricato dalla D.C. di sondare gli ambienti della malavita” non corrisponde al vero. Certo è che all’epoca non coincisero molto i tentativi di mio padre con quelli del partito.

Le trattative intercorse con esponenti della ‘ndrangheta all’inizio non furono ovviamente diretti.

Mio padre fu contattato da una persona qui a Roma che disse di essere un suo elettore e di essere in grado di fare qualcosa riguardo il tentativo di salvare l’ On. Aldo Moro. Ci fu un incontro per cercare di capire quanto questo personaggio fosse attendibile, ma poi bisognava prendere dei rischi e provare qualunque azione. Fu tutto terribilmente veritiero e così nacquero i rapporti con il fantomatico calabrese, rapporti che durarono fino alla scoperta del cadavere dell’On Moro.

Nel trascorrere di quei 55 giorni ci furono altri fatti oltre a quelli da Lei citati che portarono mio padre a sperare in una soluzione diversa. Ma i timori nel muoversi in acque tanto torbide furono molti.

Soffermandomi sui 2 episodi, mi sento portato a queste considerazioni: non si ipotizza forse che fossero troppo pochi i membri del commando per una simile operazione? Inoltre non si è giunti negli anni ad avanzare altrettante ipotesi inerenti al ruolo dei servizi “segreti”? Di conseguenza era probabile la presenza di personaggi noti ai calabresi? Ma come verificare sin da subito se quanto raccontato era vero? Curiosamente, con tempismo eccezionale, il rullino sparì e chi ne era responsabile non fu rimosso immediatamente dalle indagini, cosa che ci si aspetterebbe da un Paese “normale”. Occorre prendere atto che, invece, lo stesso le portò a termine con la solerzia ed il risultato che tutti gli riconosciamo. Per quello che riguarda Via Gradoli poi, oltre a quanto riferito da mio padre, dobbiamo ricordare l’espediente della seduta spiritica. Risulta evidente, pertanto, che non fu il solo stranamente ad indicarla. Ma poi fu scoperto un covo in Via Gradoli? Cosa rispose Cossiga alla moglie di Moro riguardo una via Gradoli a Roma e non un paese?

4) Per essere più precisi. Cosa intende con "fu tutto terribilmente veritiero"?

Fu veritiero per due ordini di motivi.

Il primo è legato a quanto avvenuto in quei 55 giorni, il secondo per quanto conosciamo oggi a distanza di 30 anni. Le trattative intercorse tra mio padre e le persone di quell’ambiente non le possiamo racchiudere nell’ ambito delle foto e di Via Gradoli, anche se entrambi sono estremamente significativi. E' opportuno ricordare; perchè ai più non è noto; che quei due “suggerimenti” altro non furono che un segnale di disponibilità e conoscenza che sarebbe andato ben oltre se i cosiddetti interlocutori istituzionali avessero accettato di metterli in condizione di “agire” sul territorio con la libertà di cui in quel momento non disponevano. Ad esempio posso dire che un incontro avvenne nel carcere di Rebibbia.

Con il passare degli anni inoltre, attraverso le nuove acquisizioni, ci possiamo rendere conto di quanto sia verosimile la presenza di altri componenti estranei alle BR e come sia possibile pensare ad un disegno più ampio, forse allora impensabile, perchè convinti ingenuamente dell’esistenza di brutali ma genuine frange armate di destra e di sinistra. E nulla di più.

5) Per tornare a via Fani, quindi, considerando che le foto furono scattate da Nucci al termine dell'agguato e non potevano riprendere gli attentatori all'opera, è possibile che potesse trattarsi di malavitosi calabresi legati ai servizi la cui presenza in via Fani sarebbe stata difficile da giustificare?

E’ possibile. Dovremmo chiederci a questo punto cosa significhi la presenza dei servizi.

Non avremo mai la risposta definitiva non solo perchè esiste il segreto di stato, ma soprattutto perchè siamo di fronte alla "ragion di Stato". Avrà mai qualcuno il coraggio di dirci di quale "ragione di Stato" esistesse all’ epoca? E quale prima? E, di conseguenza, quale è oggi? O se, in fondo, rimane sempre la stessa?

La realtà è che la ricerca della verità richiede un più ampio respiro anche se poi arrivandoci rischieremmo di rimanere senza fiato.

Anche se rischia di sembrare offtopic, vorrei fare un esempio concreto. C'è sempre stato un ampio diattito, nel nostro Paese, su quali siano stati, da sempre, i rapporti tra la politica e la mafia e, soprattutto, tra servizi e mafia. A volte si ha l’ impressione che le forze di polizia, la magistratura non siano in grado di ottenere i risultati sperati ma che quando finalmente si giunge alla cattura di un importante boss ci si sia arrivati perchè qualcuno ha ritenuto che fosse arrivato il momento giusto. Se così è, la domanda opportuna da porsi è chi ha il potere di decidere quale sia il momento giusto e, soprattutto, perchè. Una risposta che mi sono dato è "se quando cambiano i governi generalmente cambiano anche i vertici istituzionali (ripensiamo alle nomine degli enti nell’Italia parastatale), allora perchè non pensare ad un cambio ai vertici di quella che “oggi” si scopre essere la più grande “azienda” italiana? Insomma è davvero pensabile che in 60 anni tutto sia rimasto così com’era o sarebbe più opportuno riflettere sul significato di una presenza che verosimilmente non sopravviverebbe a se stessa se non per il volere di qualcosa molto più grande?

Per tornare al caso Moro, non ci stupiremmo se in Via Fani si scoprisse che ci sono stati anche calabresi o membri dei servizi stessi chi riuscirebbe a definire con esattezza quale confine li separi? Non ci stupiremmo ma magari potremmo schifarci. E’ giusto dire a chi muore per lo stato per quale stato muore.

6) Come mai il nome di Benito Cazora è sempre stato associato a boss o presunti boss malavitosi?

Le iniziative intraprese erano spesso del tutto personali ed era difficile pensare a qualcosa di diverso dal cercare soluzioni in ambienti contigui o comunque in grado di avvicinare le BR. Per il sequestro di Cirillo ci furono trattative con la camorra? Perchè poi con la camorra visto che i sequestratori erano brigatisti?

7) Suo padre si adoperò anche all'interno della DC per la salvezza di Moro? Secondo lei aveva delle concrete possibilità di giungere ad una conclusione positiva ma non fu ascoltato o, agli occhi dei compagni di partito, era solo in possesso di deboli piste che furono sottovalutate?

Se c’era cautela da parte sua, ce ne era ancora di più da parte di apparati di partito e non, che scettici, inoperosi, molto spesso rincuoranti e protervi evitarono di dar seguito a quanto riferito.

8) Quindi non si sente di poter affermare che suo padre fu fermato? O si?

Non è facile dire se sia stato fermato o se, semplicemente, non gli si è creduto.

Veda, nella vita molto spesso siamo circondati anche da persone intelligenti, volenterose, ma non per questo le si ascolta. Soprattutto in determinati ambiti, preferiamo affidarci anche a cialtroni pur di avere a che fare con qualcosa che riteniamo attendibile, e se qualcuno non lo possiamo controllare, gestire, diventerà automaticamente inaffidabile.

Questo credo sia valso non solo per mio padre (non ne farei pertanto una questione personale) e se accade più spesso oggi rispetto a ieri, forse ne intuiamo il perchè.

Certo è che il suo interferire in quella vicenda gli ha creato negli anni sempre maggiori difficoltà politicamente ed all’interno del partito. Sarà sicuramente una coincidenza ma sarei curioso di sapere se altri, ognuno nel proprio ambito, solo per aver cercato di operare al di fuori dei canoni convenzionali, hanno incontrato maggiori ostacoli nella propria professione.

Mi auguro che prima o poi qualcuno si dedichi a ricercare chi ha pagato e chi ha guadagnato in termini professionali. Se ne potrebbero ricavarne delle semplici casualità ma magari si potrebbe aggiungere un elemento di riflessione in più che, qualcuno troverà sterile o capzioso, mentre io ritengo che osservare negli anni quanto accaduto ci fornirebbe una visuale più ampia del disegno, del raggiungimento degli obbiettivi e di chi ne furono gli attori principali, i caratteristi e le comparse.

9) Immagino che, essendosi impegnato per evitare la sesta tragedia (dopo i cinque agenti morti in via Fani), la notizia del ritrovamento del cadavere di Aldo Moro lo dovette turbare non poco. Cosa fece dopo il 9 maggio? Cosa vi ha detto dei suoi tentativi di salvare la vita di Aldo Moro?

Cosa fare dopo quel 9 maggio, se non riprendere la vita, viverla in una prospettiva diversa, ricordare, meditare, considerare, soffrire? Ma nulla di più era possibile. Ho sempre seguito mio padre sin da piccolissimo, ero affascinato da lui, dal suo lavoro. Nel 1978 avevo 16 anni e come molti giovanissimi di allora vissi quei 55 giorni in stato di sospensione, i Tg e le loro edizioni straordinarie avevano preso il posto dei pensieri comuni di un adolescente.

I racconti avvennero durante (parziali) e dopo.

10) Che tipo di racconti le fece suo padre? Considerazioni generali sulla vicenda o particolari sul suo ruolo?

Nulla di più di quanto si sappia.

Debbo dire che le considerazioni appartennero agli altri, di contro a lui spettarono le constatazioni: da quel momento in poi ci fu sempre la sensazione che il suo ruolo fosse stimato come inopportuno e di conseguenza molte cose cambiarono.

In politica, per quanto si voglia mistificare la realtà, il popolo non segue l’idea, segue il più forte e se l’idea, anche la più bella, viene emarginata, il più forte fa la storia. E’ ancora viva in me, che per molti anni ho vissuto e fatto politica, quella continua pesantezza dovuta al senso di diversità che i potenti trasmettevano agli altri, contagiandoli.

Quale miglior modo di capire che sottile fastidio abbia sortito nella mente del comando.

11) Secondo lei suo padre ha mai avuto il rimpianto di aver avuto la possibilità di salvare, con un'iniziativa autonoma, la vita di Aldo Moro ma che non gli fu possibile?

Credo di sì, anche se il trascorrere degli anni, la maggiore conoscenza degli eventi, lo hanno portato ad una consapevolezza diversa. Cosa sarebbe accaduto poi se fosse ancora in vita non è dato sapersi, ma forse sarebbe facilmente intuibile.

Non sono in grado di conoscere quello che fu il suo percorso mentale negli anni, ma posso certamente valutarlo essendogli stato accanto affettivamente e professionalmente. Ha sofferto per sempre quell’esperienza anche perchè chi gli è stato contro lo ha indotto, volente o meno, a non dimenticare. Ma c’è qualcosa che accompagna sempre coloro che pagano prezzi alti per scelte che altri reputano sbagliate: l’essere consapevoli di aver fatto la cosa giusta e non pentirsene anche se tutto questo ha un costo. Molto elevato.

12) Benito Cazora non è stato un personaggio che ha voluto ergersi a star negli anni a venire. Nessuna dichiarazione sui giornali, nessun libro, nessuna intervista se si esclude un breve intervento del 1993 al TG2. Eppure il suo contributo avrebbe potuto essere utile. Si é trattato di una sua volontà o di una necessità?

Non si è mai tirato indietro, non è mai stato reticente o pigro nel raccontare, non poteva autoinvitarsi ai diversi processi Moro o alle Commissioni Parlamentari. Semplicemente ha risposto a chi glielo ha chiesto. Non era tipo da libri, amava la politica, quella vera, attiva. E meno che mai avrebbe potuto sentirsi una star.

Molto più semplicemente si sentiva un emarginato che non era riuscito a dare un contributo concreto per qualcosa in cui aveva creduto e sperato disperatamente.

13) Secondo lei, Marco, Aldo Moro si poteva salvare? E se si, perché non ci si é riusciti?

Spero mi perdonerà se sarò lapidario. No, non si poteva salvare.

14) Lei é stato un osservatore privilegiato che ha potuto vivere, al fianco di suoi padre, i fatti in diretta, più che le carte di storici, politici e magistrati. Se è possibile conoscerla, quale é la sua opinione personale sul caso Moro?

Dal ’78 ad oggi molte cose sono cambiate.

La nostra società, le nostre abitudini, i nostri consumi. Molti direbbero che è cambiata anche la politica, ma forse così non è. Se partiamo per esempio da Portella della Ginestra, passando via via sopra tutti i cadaveri che il nostro caro Paese si è lasciato alle spalle sino ad oggi, ci accorgiamo che sono trascorsi 60 anni. E i colpevoli?

E’ impossibile dimenticare quel “io so” di Pasolini, che pur senza prove induceva a riflettere. E sono proprio i libri e gli sforzi degli studiosi che ci aiutano a comprendere il cammino nebuloso di questa Italia.

Forse cerchiamo troppe prove e le cerchiamo troppo lontano, e magari ci sono così vicine. Quanto scoperto in 30 anni sul caso Moro fa rabbrividire. Senza dubbio l’aspetto che mi inquieta di più è l’innumerevole elenco di persone coinvolte: P2, massoneria, servizi “deviati”, malavita, liberi professionisti.

Che fine hanno fatto tante persone? E la loro carriera?.

E’ forse giunto il momento di rendere noi cittadini consapevoli di una verità che non conosciamo? Dopo la liberazione ci siamo trasformati in colonia? Esiste un vicerè?

L’“emerito” Cossiga durante il caso Moro da Ministro degli Interni ha gestito tutto, con quale risultato? Gli è passata ogni cosa sotto gli occhi, dalla P2 in poi. Ma quante illuminanti lezioni ci impartisce ancora oggi...

L’ Italia è proprio uno strano Paese, quando non viene trovato il colpevole si riesce a premiare l’incompetente di turno con la sua carica più alta.

I giorni sono lunghi mentre gli anni se ne volano. Doveva andare così, deve andare così, domani... domani.

 
Di Manlio  23/04/2008, in Interviste (4277 letture)
Giuliano Boraso lo abbiamo già ascoltato circa un anno fa in relazione al progetto brigaterosse.org che porta avanti assieme all’amico Tommaso Fera. Nicola Biondo ho avuto il piacere di conoscerlo in occasione della nuova edizione di Vuoto a perdere e le sue riflessioni mi sono state molto utili nel far emergere la controversa vicenda relativa al ruolo di informatore di Ronald Stark.
Sono entrambi profondi conoscitori dei fenomeni eversivi, entrambi hanno pubblicato un libro di peso: Mucchio Selvaggio (Boraso, Castelvecchi 2006), l’unica storia completa di Prima Linea non narrata dal punto di vista dei protagonisti e per questo obiettiva e documentata e Una primavera rosso sangue (Biondo, Edizioni Memoria 1998), un tentativo riuscito di rimettere a posto tutti i documenti emersi sino al momento sul caso Moro per evidenziare come non sia possibile riorganizzare la conoscenza della vicenda per giungere ad una sola chiave interpretativa.
Giuliano e Nicola sono i protagonisti dell’operazione più importante del trentennale del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro, una ricorrenza diventata evento di marketing per autori, registi e giornalisti impegnati più a “guardare il dito e non la luna”.
Se non ci fossero stati loro, le loro competenze ed il loro lavoro umile e silenzioso, oggi non avremmo l’importante testimonianza di Steve Pieczenik e staremmo ancora a credere che ad uccidere Aldo Moro siano state la linea della fermezza e la sola volontà dei brigatisti.
Un documento del genere avrebbe provocato un terremoto di interrogazioni parlamentari, richieste di riapertura di indagini, fine di carriere politiche. Se non fosse che in Italia quella storia è in ostaggio di una “cricca di giornalisti e storici che si contano sulle dita di una mano e che determinano l’agenda del dibattito”.
E’ triste, ma è così. Non si può ancora parlare dei comportamenti dello Stato, delle decisioni, delle omissioni, delle trame che, parallelamente al progetto brigatista, hanno fatto si che qualcuno potesse perseguire interessi politici ed economici facendone cadere la responsabilità esclusivamente sulle Brigate Rosse.
Ed è disarmante la risposta che mi ha recentemente fornito un assoluto protagonista (da parte dello Stato) di quelle vicende, solo pochi giorni fa, quando alla mia domanda: “Ma perchè non parli, ormai una serie di cose le abbiamo capite” ha gelidamente risposto “No, non si è capito proprio nulla. Sono passati troppo pochi anni per parlarne...”


1. Ci può raccontare la genesi di questo importante lavoro editoriale?

Boraso: Tutto ha inizio negli ultimi giorni del 2006, quando sul forum del sito che curo insieme a Tommaso Fera, www.brigaterosse.org, un utente che si firma Pino pubblica un messaggio nel quale spiega di aver letto l’edizione francese del libro di Emmanuel Amara (uscito in Francia da un paio di mesi), concludendo il suo post con la domanda: «Che cosa si aspetta a parlarne in Italia?».
A quel punto cominciamo a informarci sul libro. Lavorando per uno studio editoriale, Oblique Studio, sono interessato alla faccenda anche da un punto di vista professionale. Compriamo una copia del libro su www.amazon.fr, lo leggiamo e, dato l’effettivo interesse dei contenuti dell’intervista di Pieczenik, verifichiamo se qualche editore è interessato a pubblicare il libro di Amara. Contatto Nicola Biondo che, oltre a essere un amico, è uno dei più affidabili e competenti esperti del caso Moro. Nei mesi successivi, siamo intorno alla primavera de 2007, l’Unità e il settimanale Left dedicano un paio di articoli al libro che però non ha ancora trovato una sua casa editrice italiana. Sembra incredibile, ma non riusciamo a incontrare l’interesse degli editori italiani. Fino a quando un giorno Nicola mi chiama, dicendomi che la casa editrice Cooper vuole pubblicare il libro. Siamo a dicembre, è passato esattamente un anno dal messaggio di Pino. Tre mesi di lavorazione e Abbiamo ucciso Aldo Moro è in libreria in coincidenza con il trentesimo anniversario del sequestro di Aldo Moro.


2. Quali difficoltà avete incontrato per adattare l’edizione francese al contesto italiano?

Boraso: Innanzitutto difficoltà legate ai tempi di lavorazione, molto stretti. Se pensiamo che i diritti del libro sono stati comprati a fine dicembre, poco prima delle vacanze natalizie, e che tra dicembre e gennaio il libro è stato tradotto da Alice Volpi, curato da Nicola con la realizzazione di un apparato di note fondamentale per il pubblico italiano, editato e impaginato, ci rendiamo conto che essere riusciti a farlo uscire nella prima metà di marzo è stato un bel colpo.
Non dimentichiamo poi che Amara ha scritto un libro per un lettore francese, sicuramente meno competente in materia rispetto al lettore italiano. Il lavoro di Nicola in tal senso è stato di fondamentale importanza: l’apparato di note ha permesso di integrare le informazioni trasmesse da Amara con una serie di acquisizioni documentali e storiografiche successive all’uscita del libro in Francia e indispensabili per il pubblico di lettori italiano.
C’è poi stato un lavoro di verifica della trascrizione delle interviste contenute nel libro, che si basa per gran parte su una serie di testimonianze orali raccolte dall’autore. Amara ci ha fatto avere le registrazioni audio delle interviste. E noi ci siamo preoccupati di verificarne e garantirne la fedeltà, anche in considerazione del fatto che si tratta di un libro tradotto.


3. Pellegrino, nell’introduzione, parla di “lettura nuova e per più profili sconvolgente” dei fatti noti…

Boraso: “Nuova” e “sconvolgente”: Pellegrino non poteva scegliere aggettivi più appropriati. Peccato che sia uno dei pochi a essersene accorto. Sconvolgenti non sono solo le rivelazioni di Pieczenik. Sconvolgente è il fatto che su quel libro non si sia aperto un dibattito, che sia passato praticamente inosservato sui mezzi di comunicazione di massa, salvo rare eccezioni. Sconvolgente è il fatto che in questo paese il dibattito storiografico sul caso Moro e sugli anni di piombo in generale sia monopolio esclusivo di una cricca di giornalisti e storici che si contano sulle dita di una mano e che determinano l’agenda del dibattito, stabilendo ciò che può esserne oggetto e ciò che invece deve esserne escluso.
Per le più svariate ragioni che non sempre hanno a che fare con il valore storico e documentale del contributo in questione.


4. Cosa ritiene abbia portato di nuovo questa intervista nella discussione sul lato oscuro dello Stato nella vicenda Moro?

Boraso: Pieczenik descrive i 55 giorni del sequestro Moro dall’interno del comitato di crisi istituito dal Governo italiano. Racconta, con una lucidità e un pragmatismo tutto americano, come il Governo italiano abbia deliberatamente scelto di sacrificare la vita di Moro per un calcolo politico, per quella che il consulente americano chiama “ragion di Stato”. In sostanza, Pieczenik conferma dalla sua viva voce tutto quello che già sapevamo, ma che nessuno aveva mai avuto il coraggio di mettere nero su bianco o di svelare davanti a una telecamera.
Cosa produce tutto questo nel “dibattito storiografico” in corso? Niente. Zero. Al massimo un’alzata di spalle. Un sorrisetto ironico. Un buffetto. Questo paese è precipitato in un abisso di cinismo e di indifferenza, mali che fino a pochi anni fa erano confinati solo in certi ambienti e che ora sembrano essere invece trasversali e distribuiti ovunque. In occasione dell’anniversario del 16 marzo, Rai Tre ha trasmesso una puntata del programma “Enigma” interamente dedicata al caso Moro durante la quale l’episodio della seduta spiritica dei professori bolognesi è stata definito “verosimile” e all’analista statunitense Edward Luttwak veniva permesso di dire ogni fesseria senza il benché minimo contraddittorio.
Non so quale contributo il libro di Amara abbia portato. Di certo ha confermato che stiamo vivendo un momento storico nauseante.


5. Dal punto di vista delle fonti, quanto può essere ritenuto importante questo documento-intervista?

Biondo: Il lavoro di Amara si basa su una serie di interviste in video: a uomini politici, ad ex brigatisti, a studiosi. È una buona occasione, sia per un lettore esperto che per uno meno aduso a questi argomenti, di farsi un’idea. Non c’è alcun dubbio che l’intervista a Steve Pieczenik è di grande importanza e sostanzia il titolo del libro. Ma in fondo “ad aver ucciso Aldo Moro” hanno concorso in tanti e il libro di Amara riesce, attraverso le voci dei protagonisti, a raccontare questa tragedia italiana. Forse proprio perché si trovavano di fronte a un giornalista straniero, gli intervistati si sono sentiti “più liberi” di scavare nei propri ricordi. Il racconto di Pieczenik entra a pieno titolo nella ricostruzione generale sul caso Moro, ma sopratutto sulle modalità con le quali lo Stato italiano ha combattuto il terrorismo italiano. Che l’inviato americano affermi davanti a una telecamera che Moro doveva morire con le sue rivelazioni è senza dubbio una testimonianza che non può essere licenziata con un’alzata di spalle.


6. Qual è stata la prima impressione nella lettura delle dichiarazioni di Pieczenik?

Biondo: Non sono rimasto sorpreso. Le verità dell’esperto americano sono senza dubbio degne dell’Italia di Machiavelli o di Andreotti o dell’America di Henry Kissinger. La frase che più mi ha colpito è questa: “Moro era disperato e avrebbe sicuramente fatto delle rivelazioni piuttosto importanti ai suoi carcerieri su uomini politici come Andreotti. È in quell’istante preciso che io e Cossiga ci siamo detti che bisognava cominciare a tendere la trappola alle Brigate Rosse. Abbandonare Aldo Moro e fare in modo che muoia con le sue rivelazioni”. Quanto racconta Pieczenik lo avevamo sospettato in molti, altri lo temevano. Io credo che la sua testimonianza andava proposta ai lettori italiani. Mi ha colpito molto vedere nel documentario di Amara il Presidente Cossiga guardare nel televisore del suo studio il viso e la voce del “suo” consulente che raccontava tutto questo.
Peraltro non una delle affermazioni di Pieczenik contrasta con le acquisizioni processuali e documentali, anzi trova piena conferma in esse. Punto primo: altri consulenti del Ministero dell’Interno, nello stesso comitato di Pieczenik affermano che Moro avrebbe dovuto accettare di morire. E’ il caso del professore Vincenzo Cappelletti che in Commissione Stragi ha affermato: “Di fronte a queste inattesissime lettere di Moro, la gente fu colta da un enorme stupore. [...] Io ne ricevetti una profonda delusione morale [...] perché Moro doveva accettare di morire, anche se ovviamente aveva tante ragioni dalla sua parte in quanto era stato rapito; tuttavia, a mio avviso egli avrebbe dovuto accettare di morire. Se erano veri i valori in cui Moro credeva, egli avrebbe dovuto accettare di morire”.
Punto secondo: da tempo è noto che il comunicato del lago della Duchessa non proviene dalle Br. E soprattutto, non è un’operazione fatta a fin di bene, come qualcuno in modo disinvolto afferma. Quel comunicato era una minaccia nei confronti dei brigatisti ma anche nei confronti dell’ostaggio. Basta rileggerlo: l’ideatore di quel volantino fa riferimento ai membri della Baader Meinhof, un gruppo armato tedesco di estrema sinistra, i cui membri sono morti in carcere. Nel 1978 era opinione comune che fossero stati uccisi dalle forze di polizia come rappresaglia dopo che i loro compagni avevano ucciso, dopo averlo sequestrato, il capo della Confidustria tedesca Martin Schleyer. L’autore del volantino accosta la morte violenta dei componenti della Baader Meinhof a quella dei brigatisti che detengono Moro. Nel comunicato si afferma anche che “il corpo di Moro si trova nelle acque limacciose del lago della Duchessa (ecco perché si dichiarava impantanato)”. In una lettera al ministro Cossiga Moro scrive indirizzandosi ai suoi amici della DC “Che Iddio vi illumini per il meglio, evitando che siate impantanati in un doloroso episodio, dal quale potrebbero dipendere molte cose.” Secondo Aldo Moro, il rischio di essere impantanati riguarda i dirigenti della Dc nel momento in cui non si impegnassero nella sua liberazione. Liberazione che, scrive Moro, sarebbe auspicabile “in nome della ragione di Stato, visto che, “io mi trovo sotto un dominio pieno e incontrollato”. In questa lettera è Moro a indicare alla Dc le vie di una possibile soluzione al suo rapimento. Chi scrive il falso comunicato manda una risposta direttamente al presidente della Dc: è lui a essere “impantanato”, e non i dirigenti del suo partito. È una risposta chiara, definitiva e minacciosa. Infatti l’esperto americano dice che il suo obiettivo era “lasciare morire Moro con le sue rivelazioni”.
Terzo punto: è un fatto che gli scritti di Moro sono stati amputati dagli stessi brigatisti e poi da chi li ha trovati la prima volta. La versione del memoriale che viene ritrovata solo nel 1990 risulta in alcuni punti ancora incompleta. E anche su questo punto i fatti confermano quanto dice Pieczenik: le rivelazioni di Moro dovevano essere oscurate. Quarto e ultimo punto: vi furono trattative, dice Pieczenik, con l’obiettivo di intrappolare le Br e costringerle a uccidere l’ostaggio. Nel comunicato numero 4 del 10 aprile le Br scrivono: “Denunciamo come manovre propagandistiche e strumentali i tentativi del regime di far credere nostro ciò che invece cerca di imporre: trattative segrete, misteriosi intermediari, mascheramento dei fatti.”
Servono altre conferme? Secondo me sì, l’americano dice anche molte altre cose ma sui punti fondamentali, la versione di Pieczenik si incastra perfettamente con i dati di fatto ormai acquisiti.


7. Cosa, secondo lei, Pieczenik avrebbe potuto aggiungere al suo racconto?

Biondo: Sicuramente molte altre cose. Pieczenik racconta che per raggiungere il suo obiettivo venne deciso di far venir fuori un falso volantino brigatista. Ciò avvenne il 18 aprile del 1978 con il comunicato numero 7 che indicava in uno sperduto lago dell’Abruzzo il luogo dove si trovava il corpo del Presidente della DC. Fu una trappola, dice Pieczenik, che aggiunge che a quel punto le Br non potevano fare altro che ucciderlo. Ecco, io credo che la versione di Pieczenik non spiega molte cose. Come poteva immaginare che le Br solo in virtù di quel comunicato avrebbero ucciso Moro e blindato le sue rivelazioni? Io sono dell’idea che la scoperta del covo di via Gradoli, ad esempio, è un’altra delle “trappole”. Lo stato ha agito con l’obiettivo fissato da Pieczenik: far morire Moro e le sue rivelazioni. Per fare questo ha intrappolato le Br con una serie di escamotage, tipo quello del falso comunicato numero 7. E probabilmente con altre operazioni di accerchiamento. Con buona pace di autorevoli commentatori i fatti dimostrano che l’allagamento che porta alla scoperta del covo di via Gradoli fu di natura dolosa. Le foto scattate dalla polizia all’interno del covo non dimostrano nulla se non l’insipienza di chi vorrebbe utilizzarle per dimostrare il contrario. La testimonianza della prima persona che entra nel covo, il vigile del fuoco Leonardi, dimostra che quell’allagamento fu doloso. Nel libro di Amara, cito in nota il verbale del suo interrogatorio al processo Moro in cui si legge:
“PRESIDENTE Questa doccia come era tenuta?
LEONARDI Su un manico di scopa.
PRESIDENTE Il rubinetto era aperto o guasto?
LEONARDI Era aperto. Noi lo abbiamo chiuso. Siamo stati chiamati dall’appartamento di sotto perché quest’acqua filtrava nel muro.
PRESIDENTE Questo per noi ha una certa importanza. Lei ha trovato, quando è entrato, il rubinetto della doccia aperto. Questa doccia era trattenuta da un manico di scopa e l’acqua filtrava dal rubinetto della doccia attraverso una fessura del muro?
LEONARDI Sì.
PRESIDENTE Lo scarico della vasca era aperto?
LEONARDI Sì.
PRESIDENTE Ora le farò vedere le foto, sono i rilievi della polizia. La mia domanda è semplice: se la doccia fosse rimasta in posizione normale, avrebbe scaricato nella vasca? Non era otturato lo scarico?
LEONARDI No, l’acqua defluiva.
PRESIDENTE La particolarità era che invece di defluire nello scarico defluiva sul muro?
LEONARDI Esatto.
PRESIDENTE Nella vasca da bagno, di solito, la doccia è agganciata. Questo gancio c’era?
LEONARDI La doccia, praticamente, era agganciata su un manico di scopa messo di traverso dentro la vasca.
PRESIDENTE Era possibile appenderla al muro, al posto suo?
LEONARDI Certo.
PRESIDENTE Queste sono le foto scattate dopo l’intervento della polizia. Questa è la vasca da bagno. Ci dica la posizione della doccia quando lei è entrato.
LEONARDI La scopa stava di traverso e la doccia vi stava appoggiata sopra e dava verso il muro.
PRESIDENTE Il buco sul muro era evidente?
LEONARDI Si vedeva uno spacchetto […].
PRESIDENTE Fu lei a rimettere la doccia al suo posto e a chiudere il rubinetto?
LEONARDI Sì.

Leonardi peraltro trova una casa sottosopra: armi e munizioni buttate su un letto, documenti in bianco e volantini Br sparsi per l’appartamento, due bombe a mano per terra. Se non ci fosse stato tutto questo, il covo Br non l’avremmo mai scoperto come tale e Mario Moretti, forse, sarebbe ritornato lì e avrebbe trovato l’amministratore del condominio che gli comunicava l’allagamento del bagno. E invece quel disordine era funzionale a bruciare quel covo che peraltro, come è noto, era stato segnalato almeno un paio di volte alle forze dell’ordine, per tacere della famosa seduta spiritica che porta la polizia nel paesino di Gradoli e non in una via della città dove era stato compiuto il rapimento. Nello stesso giorno in cui viene “scoperto” il covo, fa la sua comparsa il volantino ideato da Pieczenik: le Br sono di fatto accerchiate. Non per niente Patrizio Peci, tra gli altri, affermerà che le Br avevano accelerato la decisione di uccidere Moro perché temevano di essere scoperte.
I fatti sono chiari: qualcuno il 18 aprile 1978 si spaccia per brigatista e contemporaneamente l’appartamento dove abita Moretti viene fatto scoprire. Sarebbe interessante se Moretti ci dicesse se le condizioni in cui ha lasciato il suo appartamento la mattina del 18 aprile sono le stesse che vede non appena entra il vigile Leonardi, così da poter capire chi ha messo in piedi quella sceneggiata. Ma a lui non importa nulla: ormai è un uomo libero, con una nuova vita e soprattutto è rimasto vivo.


8. Conferme, sulle dichiarazioni di Pieczenik, non ce ne sono state, ma neanche smentite categoriche. Come mai le dichiarazioni sono apparse sui quotidiani senza scalfire alcunché? O si è trattato di “calma apparente”?

Biondo: Sinceramente non lo so. Per esperienza personale, posso dire che le dinamiche dei mass media mi risultano spesso oscure. Credo che il racconto di Pieczenik abbia creato qualche imbarazzo. Insomma, un cittadino americano, consulente del dipartimento di Stato, che dirige la prima unità di analisi antiterrorismo voluta da Henry Kissinger, che viene chiamato ad affrontare la crisi del sequestro, che ha sempre rifiutato di tornare in Italia a raccontare la sua versione dei fatti e che poi, a distanza di 30 anni dice queste cose, immagino abbia fatto imbestialire tanta gente. Ma non i diretti protagonisti, chiariamo bene. I presidenti Cossiga e Andreotti, i brigatisti implicati nel sequestro, sono uomini di mondo, conoscono le regole del gioco: “Mai rispondere ad una dichiarazione che fin dall’inizio li mette in difficoltà”. Ho avuto modo di confrontarmi pubblicamente con l’ex-sottosegretario alla Presidenza del Consiglio (con delega ai servizi segreti) Franco Mazzola. Lui giura di non aver mai sentito dire nei giorni del sequestro che c’era l’idea di tirare fuori un falso comunicato e che nell’unica volta in cui ha visto Pieczenik questi non ha mai detto una cosa simile. Mazzola afferma questo anche sulla base di un appunto di una riunione avvenuta l’11 aprile 1978. Mazzola non è un ingenuo e sa benissimo che una decisione simile, come quella di un falso comunicato di quel tipo, non si mette a verbale e che meno persone ne sono a conoscenza meglio è.
Io credo di aver fatto solo il mio dovere, con l’aiuto fondamentale di Giuliano Boraso: proporre questo libro a un editore italiano, Cooper, che a sua volta, con grande intelligenza e professionalità, ha fatto il suo dovere e cioè pubblicarlo dopo le necessarie verifiche. Il resto, tutto il resto, non mi interessa.
Non credo che il Presidente Cossiga abbia mandato a morte il suo amico Aldo Moro a cui era umanamente legatissimo. Ma è indubbio che conosce i retroscena dell’operazione del lago della Duchessa. Io credo che sia rimasto stritolato dalle indicazioni di Pieczenik che altri hanno avallato e a cui lui non ha saputo opporsi. Spesso l’uomo di Stato Francesco Cossiga ha smesso i suoi panni per difendere con estrema forza, a torto o ragione, le sue posizioni e i suoi convincimenti avvicinandosi così alle passioni dei semplici cittadini. Sarebbe davvero importante se lo facesse anche stavolta, se riuscisse a lasciare nel suo testamento politico la verità su chi, insieme a Steve Pieczenik, ha deciso freddamente che “Moro doveva morire con le sue rivelazioni”. Solo lui, credo, ha la forza di poterlo fare.
 
Di Manlio  14/07/2008, in Interviste (4299 letture)
Nicola Biondo e Massimo Veneziani hanno, probabilmente, aperto una vera e propria voragine all'interno dei "meccanismi operativi occulti" che hanno caratterizzato il "Palazzo" durante i 55 giorni del rapimento di Aldo Moro. Scrivendo un libro sulla figura di Tony Chichiarelli che ha, tra gli altri, due grandissimi pregi:
- l'aver scavato attorno ad una figura volutamente sino a questo momento trascurata
- l'aver messo insieme una ricostruzione della sua vita che dimostra che il falsario non ha solo prestato la sua manovalanza agli apparati dello Stato, ma in più di un'occasione, ha intersecato attivamente non solo il caso Moro ma anche altri delitti politici avvenuti nel nostro Paese.

Un atto di coraggio, quello di Biondo e Veneziani. Una vera e propria iniziativa politicamente "scorretta", che va al di fuori delle righe proprio perché oltre le cose già scritte spesso si celano molte risposte o, più semplicemente, la possibilità di porsi le stesse domande sotto un altro punto di vista.
Il falsario di Stato (edizioni Cooperfiles) è un libro da "gustare". Perché si legge tutto d'un fiato, perché non è un romanzo ma un tentativo, riuscitissimo, di raccontare una storia vera, partendo dalle fonti, ma senza le pretese di dover dimostrare qualcosa. Semplicemente, mostrare.
In questa intervista, alla quale gli autori hanno risposto congiuntamente, ho cercato di approfondire i "dietro le quinte" e di offrire al lettore uno strumento in più per conoscere meglio la storia di un falso delinquente.

Ultimo dettaglio non da poco, il libro è in corsa per il premio Scerbanenco per il miglior noir edito. Credo sia importante per tutti coloro che si occupano di queste vicende che un lavoro di questo tipo possa ricevere un premio che merita e possa portare attenzione su una figura come quella di Tony Chicchiarelli sulla quale ci sarebbe ancora molto da scoprire... Per chi lodesidera, questo è il link dove votare
http://www.noirfest.com/cerba.asp

1) In tanti anni nessuno è andato a fondo nella conoscenza del “personaggio” Chichiarelli. Semplice sbadataggine o volontà di non approfondire una storia “scomoda”?
"Il falsario di stato" è la prima biografia su Tony Chichiarelli. Altri studiosi si sono interessati a questo incredibile personaggio, finanche Giancarlo De Cataldo nel suo Romanzo Criminale ne individua il ruolo di frontiera a metà tra apparati dello Stato, Br e banda della Magliana. Noi abbiamo acceso un riflettore su Chichiarelli perché siamo convinti che la sua storia andava raccontata: perché interseca alcuni tra i più gravi delitti politici del nostro paese e poi perché la vita e la morte di Chichiarelli sono in un certo modo indicative della commistione tra mondo legale e illegale. E’ un perfetto personaggio da romanzo criminale, un eccezionale e dimenticato protagonista del nostro far west contemporaneo. Tony è un ragazzo sveglio, ambizioso e generoso che nasconde nello stesso tempo una personalità contorta e una mente votata al crimine: dalla seconda metà degli anni ’70 si lega ad alcuni personaggi che daranno vita alla banda della Magliana, come Danilo Abbruciati, ad estremisti di destra a confidenti dei servizi segreti e lui stesso inizia a definirsi un fiancheggiatore delle Brigate Rosse. Certo, ci sono degli esempi negativi: quelli di alcuni “studiosi” che affrontando il caso Moro e più in generale gli anni di piombo hanno appena sfiorato il personaggio Chichiarelli, evitando attentamente di parlarne. Queste amnesie non ci meravigliano provenendo da personaggi che nella loro ricerca si pongono un obiettivo a prescindere, quello di dimostrare che tutto è chiaro nella storia italiana e ciò che non lo è semplicemente lo ignorano, lo fanno scomparire. Il Falsario di Stato è la storia di uomini piccoli piccoli i cui nomi non compariranno mai nei manuali dei Licei e delle Università. Ed è un peccato, perché senza di loro, senza i loro gesti, molto della storia ufficiale, perde il suo senso profondo: diventa incompleta, ripulita e parziale..

2) Appare chiaro, dal vostro libro, che Chichiarelli disponesse di complicità “molto in alto” e che potesse permettersi, nelle sue azioni, un atteggiamento molto spregiudicato e che, per contro, non ritenesse di dover correre rischi particolari. Come mai?
Chichiarelli è insieme un bandito e un soldato. Un bandito che vive nel sottobosco criminale romano e un soldato che lo Stato usa per alcuni lavori sporchi. Sapeva di correre dei rischi altissimi e nello stesso tempo che in virtù dei suoi incarichi riservati era un intoccabile. Chi lo ha protetto possiamo solo provare ad immaginarlo. Noi abbiamo invece individuato i nomi di alcuni esponenti delle forze dell’ordine che, pur avendo elementi schiaccianti sulla sua condotta criminale, non lo hanno mai fermato. Documenti importanti sulla carriera criminale di Chichiarelli sono scomparsi. La stessa indagine sulla sua morte è stata archiviata: il giudice che ha indagato ha scritto “le zone d’ombra sono rimaste”.

3) Contatti con la Banda della Magliana, con i servizi, con informatori dei servizi, ed anche con personaggi coinvolti nel Golpe Borghese. Autore di due comunicati (il falso n. 7 ed il falso n. 10), si autodefinisce simpatizzante delle stesse Br. E forse entra addirittura in contatto con il memoriale. Potrebbe lo stesso Chichiarelli aver avuto un ruolo “cerniera” nella vicenda Moro?
Che abbia avuto un ruolo non c’è alcun dubbio. E non solo quello di abile falsario: Chichiarelli è un uomo d’azione che compra e vende armi, che frequenta ambienti dell’estrema sinistra romana, il bacino di reclutamento delle Br, e nello stesso tempo è in ottimi rapporti personali con uno dei capi della Magliana, quello che più di altri boss ha avuto un ruolo in molte faccende “politiche”, Danilo Abbruciati. E’ possibile solo coltivare l’ipotesi che Chichiarelli avesse rapporti diretti con alcuni brigatisti. Rimane il fatto che, secondo alcune nostre fonti nell’entourage del falsario, questi abbia avuto effettivamente contatti con le Br.

4) Nel 2004 Andreotti ha dichiarato che, durante la trattativa Vaticano-Br, il contatto delle Br cercò di accreditarsi preannunciando la pubblicazione del falso comunicato della Duchessa. E' possibile che Chichiarelli abbia giocato un ruolo anche in questa partita? Se sì, per conto di chi e con quale fine?
L’idea di legare il falso comunicato alla disponibilità della Santa Sede al pagamento di un riscatto in cambio della vita di Moro è stata di Andreotti. Sicuramente il Presidente ha buoni motivi per farlo. Un dato però è certo: il Presidente ha sempre taciuto un particolare e cioè di aver ricevuto il giorno prima della beffa del Lago della Duchessa una telefonata che preannunciava come un bluff quello che sarebbe stato il comunicato numero 7 scritto da Chichiarelli. Questo particolare viene alla luce solo per bocca dello stesso senatore a vita nel 2004. Per quanto riguarda la fazione che Chichiarelli ha servito nel redigere il falso comunicato è ormai noto che il padrino di quell’operazione è Steve Pieczenick, l’esperto americano chiamato da Francesco Cossiga al Viminale durante il sequestro Moro. L’americano ha affermato che quel comunicato fu una sua idea con l’obiettivo – dice –“ di lasciare che Moro morisse con le sue rivelazioni”. Se Pieczenick ammette di essere stato l’ideatore, Tony Chichiarelli ne è stato l’esecutore.

5) Secondo una perizia riportata nel libro, il primo comunicato in codice e il settimo comunicato Br (quello vero, non quello falso) sono opera della stessa mano. Questo fa immaginare che Chichiarelli possa aver svolto un ruolo tutt'altro che marginale nel caso Moro. Si può ipotizzare un Chichiarelli addirittura interno alle Br e non un "disturbatore" esterno?
Le perizie sono prodotti umani e come tali passibili di critiche e di errori.
Tony ha svolto un importante ruolo nel caso Moro: solo la manifesta timidezza intellettuale di alcuni nega questo dato di fatto. Non abbiamo certezze assolute sul fatto che Chichiarelli fosse “interno” alle Br. Alcuni indizi porterebbero a questa conclusione ma non bastano. Tony firma svariati documenti brigatisti, alcuni dei quali minacciano di rendere noto il memoriale e le modalità della scoperta del covo di via Gradoli. Segue e probabilmente conosce Mino Pecorelli, fa ritrovare una serie di documenti su alcuni progetti di attentato a note personalità, vende armi a destra e a manca, compie la più grande rapina mai realizzata in Italia e la firma con la stella a cinque punte: tutto questo lo fa su ordine di qualcuno. E’ scaduto il tempo per conoscere nomi e cognomi dei suoi padroni, dei mandanti. Possiamo solo collegare i fatti e cercare di interpretarli. Chichiarelli è stato un soldato che ad un certo punto doveva morire, forse perché aveva esaurito il suo lavoro e poteva ricattare qualcuno. La sua è una storia nera, di un ragazzo a suo modo romantico e generoso che attraversa come una meteora alcune tra le pagine più oscure della nostra storia. E’ rimasto sullo sfondo perché in fondo è rimasto un perdente, un servitore delle logiche distorte del Potere: ha contributo a scrivere un pezzo importante della nostra buffa e crudele storia Patria e non è molto edificante per il potere che la sua storia venga conosciuta.

6) Secondo voi a chi faceva realmente capo il falsario?
L’utilizzo di criminali da parte di uno stato in alcuni delicati affari è una costante in questo Paese e non solo. Non troveremo mai le prove per rispondere a questa domanda: l’importante è pero conoscere queste storie.

7) Ci sono degli elementi che pur essendo stati raccolti nella sua ricerca non è stato possibile inserire nel libro? Per motivi di “documentabilità” o per indicibilità?
Certo, capita a tutte le ricerche! Capita anche quando si scrive un romanzo, dover tacere alcune cose. Nel nostro caso basta dire che sono stati smarriti verbali di perquisizione nell’abitazione del falsario, è introvabile il testo del suo interrogatorio fatto dalla Polizia e sono stati smarriti alcuni reperti riguardanti il suo omicidio: abiti, proiettili e altro ancora.

8) Ritiene che Chichiarelli potesse lavorare non tanto per il servizio italiano quanto per una “sovra-struttura” dei servizi, sostanzialmente occulta, ed è per questo che non è stato possibile dare alla sua vicenda, nel corso degli anni, la giusta importanza e condurre adeguate indagini?
Non lo so. Noi siamo riusciti a dimostrare che Chichiarelli è stato un “falsario di Stato”. Questo è già un passo. La mia sensazione è anche che le indagini sulla sua morte non sono state all’altezza della complessità del caso.

9) Se è acquisita la conoscenza del falsario come autore materiale del falso comunicato n. 7, si è invece più volte ipotizzato che abbia potuto anche essere l’autore delle due fotografie scattate a Moro durante la prigionia. E che abbia mantenuto per se altri scatti originali. Cosa può esserci di vero in questa ipotesi?
Tony fa ritrovare acclusa alla rivendicazione “brigatista” della rapina alla Brink’s Securmark due frammenti di foto polaroid che ritraggono un drappo brigatista. In precedenza nel 1979 fa ritrovare un borsello che conteneva tra le altre cose una rivendicazione del delitto Pecorelli e due cubi flash per Polaroid. E’ il suo "modus operandi": far ritrovare degli oggetti che rimandano alla vicenda Moro. Io non credo che Tony sia stato all’interno della prigione delle Br, credo invece che sia stato molto vicino ad alcuni brigatisti. Il comunicato numero 7 poteva scriverlo qualsiasi normale falsario e in cambio avrebbe avuto un compenso. Tony no, lui continua per anni a lasciare messaggi minacciosi e sibillini come a dire: “io so come sono andate le cose a Moro, a Pecorelli”.
Per tornare alle foto che lui fa ritrovare: nessuna perizia è mai stata fatta su quei frammenti, non sono mai stati posti a confronto con le due fotografie che le Br scattarono a Moro e inviarono ai giornali

10) Recentemente l’esperto americano Pieczenik si è attribuito l’idea di dover realizzare un falso comunicato per far scattare la sua trappola alle Br. Secondo voi quale può essere il legame tra l’ideatore e l’autore materiale del comunicato?
Il legame è nei fatti. L’americano è l’ideatore di quell’operazione che Tony porta a termine e che poi continua per anni. La più grande beffa politica, quella del lago della Duchessa, ha nomi e cognomi. Che poi le reazioni politiche e quelle degli studiosi e dei mass media siano vicine allo zero, non importa. Speriamo che il nostro libro possa colmare in parte questa mancanza. Spesso passano alla storia i grandi generali e dei soldati nessuno si ricorda più. Tony è stato un soldato dimenticato di quella guerra, nobile e nerissima insieme, che lo Stato ha ingaggiato contro l’eversione in Italia tra gli anni ’70 e ’80. Per vincere quella guerra sono serviti anche i banditi, i criminali, i “pirati” come Danilo Abbruciati, Tony Chichiarelli e molti altri.

Per le domande 4 e 5 ringrazio Antonino Iovino che, tra i lettori, ha risposto al mio invito di porre alcune domande all'ospite dell'intervista.
 
Il '68 quarant'anni dopo

Prendendo spunto dal suo ultimo libro "'68, l'anno che ritorna"  (Rizzoli, 2008) ho provato a chiedere a Franco Piperno fondatore di Potere Operaio e leader del movimento romano, quale sia l'eredità positiva e negativa che il movimento di contestazione del '68 ci ha lasciato.
Oltre che per aver attraversato da protagonista gli anni della contestazione, Franco Piperno è anche noto per l'impegno civile che lo caratterizza nei dibattiti cui è chiamato a partecipare. Pur non avendo scritto molti libri è uno dei principali osservatori dei movimenti di resistenza critica al processo di globalizzazione che non si fonda sulla condivisione dal basso
. '68 l'anno che ritorna, è un testo che parte dall'esperienza sessantottina e dal suo significato nel tentativo di fare un bilancio politico, culturale e sociale di un sogno infranto di giovinezza e rivoluzione di chi, come lui, si è schierato dalla parte dei perdenti perchè i posti della ragione erano già tutti esauriti.


Sono passati 40 anni ma ancora c’è chi difende il ’68 attribuendogli il merito di aver reso possibili molte riforme sociali di cui godiamo tutt’ora, e chi lo attacca indicandolo come causa principale dei “disastri” che hanno attraversato l’Italia negli anni successivi e che in parte ci portiamo sino ad oggi. Quale è l’eredità positiva che il ’68 ci ha lasciato?
Franco Piperno: La critica alla modernità. Il ’68 proprio perché era un movimento di giovani intellettuali ha attaccato lucidamente il nucleo della sofferenza moderna che è l’astrazione della modernità. L’idea dei diritti dell’uomo e tutto il resto che ha messo su un imperialismo quanto mai chiuso e ideologico. Criticare i diritti dell’uomo tra le tribù indiane sopravvissute è totalmente ridicolo in quanto caratterizzate da una concezione della vita e dei legami sociali completamente diversi, poco basata sull’individuo e molto sul collettivo. Quello che ha elaborato l’Europa nel ‘700 è un’idea di divisione dei poteri di rappresentanza legata irriducibilmente alla stessa Europa. Faccio un esempio. La distinzione tra potere giudiziario e potere esecutivo è semplicemente che in Europa i nobili vengono sistemati a fare i giudici e invece il Re acquista questa capacità esecutiva che prima non c’era. Quindi si arriva alla rappresentanza che sono in realtà i borghesi del ‘700, il Re che è la tradizione della mano pubblica e poi i giudici che sono i nobili che sono privati degli altri poteri e gli si dà il potere di giudizio. Pensare che invece il risultato della scienza politica è valida per l’Oceania come per la Lapponia è talmente ridicolo e provinciale che più non si può.
Stiamo assistendo alle rovine di questo tentativo perché quello che sta accadendo con la globalizzazione è giusto la messa in evidenza della sua incapacità di funzionare. E ancora ne vedremo delle belle. Ma il ’68 ha fatto questo 40 anni fa, è talmente evidente che quando riprenderà una critica pratica alla nostra società saranno i magazzini del 68 a fornire gli strumenti e i sentimenti per affrontare questa guerra.

Il “68” ha portato con se elementi negativi che hanno prodotto effetti visibili anche nella nostra società?
F.P.: Certo. Molti, come succede nei momenti di grande cambiamento. Intanto l’elemento della violenza che ferisce non solo chi la patisce ma anche chi la pratica. Penso alle ferite interne, ovviamente, ai mutamenti di carattere e della sofferenza che è implicita nella violenza sociale, non in quella criminale che ha altre radici ed è sempre limitata nel tempo. Qui si è trattato di un fenomeno di massa. Poi, come accade nelle sconfitte, è che la sconfitta non è semplicemente il fatto che tu “non sei riuscito” ma anche che interiorizzi questo e passi dall’altra parte! Ci sono pentiti di vario genere che occupano posti rilevanti. Fortunatamente in Italia, come in Giappone in Germania non sono tanti. In Francia ce ne sono certamente di più. Ma quello è di nuovo un aspetto della sofferenza dal punto di vista dell’anima sociale per cui quelli che hanno tentato di migliorare le cose o di farne una radicale trasformazione, oggi inneggiano a Di Pietro e alla legge all’ordine. Quello è un dolore, non è solo il fatto che uno si sia pentito. E’ semplicemente che Lanfranco Pace è stato con Berlusconi e in questo stare con Berlusconi ci sentiamo tutti coinvolti, come accade quando un tuo amico commette una sorta di tradimento delle sue idee, idee che una volta vi avevano resi amici.
Poi si potrebbe continuare col fatto che la reazione al ’68, tanto in Italia quanto all’estero, ha comportato un peggioramento delle libertà, ma questo è tipico di ogni rivoluzione sconfitta. Il ’68 ha provocato tanto male ma nessuna trasformazione avviene usando i guanti.

La fabbrica è stato uno dei terreni di scontro che studenti e militanti di Potere Operaio hanno utilizzato per battersi al fianco degli operai nelle lotte per il salario, per i diritti sul lavoro, ecc. Come è cambiata la fabbrica dal ’68 ad oggi?
F.P.: Di fatto la fabbrica si è computerizzata ed è venuto meno l’elemento di fatica fisica del corpo che era un fondamento importante per la presa di coscienza degli operai. La fabbrica si è come denaturata non solo nel senso quantitativo ma soprattutto perché la nuova tecnologia fa si che l’intervento dell’operaio (ma non so se è più possibile chiamarlo così. Forse dovremmo dire dell’impiegato…) sia del tutto ausiliario rispetto alle macchine. Questo comporta anche la scomparsa dell’innovazione operaia che era, in fondo, la base dell’orgoglio collettivo degli operai. Nella vecchia fabbrica l’operaio cercava in tutti i modi di risparmiare gesti per diminuire la fatica e questo richiedeva una capacità oltre cha manuale anche intellettuale. Tutto funzionava nel senso che gli operai cercavano trucchi per risparmiare lavoro, i capireparto annotavano questi trucchi. Dopo di che il nuovo protocollo dei gesti operai nella fabbrica fordista aveva interiorizzato questa scoperta operaia. Quella che Arquati con una bella espressione chiama “l’innovazione operaia”. Questo non è più possibile perché se pensiamo ad una fabbrica che costruisce laser il rapporto dell’esperienza dell’operaio è totalmente insignificante perché, contrariamente alla vecchia concezione della fabbrica, un operaio non sa neanche cosa è un laser e non riesce a dominare intellettualmente l’oggetto che costruisce. E questo in realtà va di pari passo con il ridimensionamento del bisogno di lavoro e quindi il bisogno di lavoro diventerà impellente per coloro che vogliono arricchirsi mentre per gli altri, poiché la società chiede meno lavoro, può essere un’occasione di estrema emarginazione o di un rapporto diverso col reddito. La società oggi è abbastanza ricca da garantire il necessario. Le crisi che noi abbiamo sono crisi di eccedenza che dipendono anche dai nostri consumi, che aumentano sempre di più e necessitano di migliori stipendi, comportano un riproporre senza fine lo stesso modello con le macchine che ci intasano. L’altra possibilità, naturalmente, è un altro modello di consumo, un altro rapporto con la merce che non è un concetto di austerità ma una cosa di qualità diversa. E’ più importante preservare la struttura delle nostre città dell’interno, al sud, che sono realizzate con l’idea della “città con gli orti” come Gerusalemme. C’è una vecchia idea mediterranea dove l’auto consumo è un elemento importante e non marginale o addirittura folkloristico. Mangiare un pomodoro raccolto dal proprio orto, per chiunque l’abbia fatto, non ha alcun rapporto col pomodoro che compriamo al supermercato. L’immagine vera di questo è Napoli, considerata città povera per cui la Comunità Europea manda miliardi di euro che servono per costruire le reti di consenso, a dare una specie di salario sociale a coloro che stanno col Governatore o con l’anti-Governatore. La conseguenza di questa situazione è che i rifiuti ricoprono gli esseri viventi. La quantità di consumi è così sproporzionata che la povertà di Napoli appare un problema fittizio ed il problema vero è un cattivo consumo collettivo. Come qualcosa che attraversa le persone dove ci sono alcuni innocenti e altri colpevoli. Siamo in una situazione nella quale dobbiamo cambiare abitudini e questo cambiamento di abitudini ha un carattere sovversivo perché ha la possibilità di sottrarsi al mercato. Non abbiamo bisogno di tutte queste merci, il bisogno è costruito artificialmente e per questo dà luogo a delle cose abissalmente contraddittorie. Attraverso i canali umanitari diamo dei soldi all’Africa per aiutare le popolazioni a non morire di fame. Poi mettiamo dei dazi sui prodotti agricoli che provengono dall’Africa per proteggere i nostri pseudo-agricoltori. Ma il modo più giusto di aiutarli non sarebbe vendere i loro prodotti ad un prezzo concorrenziale che loro ti offrono? Ma questo vorrebbe dire modificare gli equilibri politici in Francia dove gli agricoltori hanno un peso importante nella società. Siamo di fronte ad una gigantesca irrazionalità. Quello che crea sofferenza è l’astrazione che viene dall’avere definito alcuni concetti vuoti che si autonomizzano. Forse una rappresentazione più efficace ancora rispetto a quella di Napoli è data dal traffico. L’automobile all’inizio è stata un elemento di libertà del corpo per lo spostamento. Poco tempo fa ho letto una statistica del comune di Roma che dice che nel 1914, quando le auto era molto poche, si percorrevano da 15 a 18 Km in un’ora. Attualmente l’auto percorre in media circa 3 Km l’ora e se consideriamo che a piedi, con passo normale, se ne percorrono più di 4 è evidente che il traffico è diventato una trappola.
Però è difficilissimo, paradossalmente non tanto per il ricco che forse è anche più disponibile, dire al povero che deve andare a piedi perché la prende come una regressione sociale. E questo è un dato oggettivo, generalizzato, lo si ritrova anche nei piccoli paesini dai caratteri ancora medievali completamente intasati da macchine.

Per concludere, una domanda sulla politica attuale. Che ruolo può avere oggi la sinistra e cosa comporterà il fatto che la sinistra cosiddetta “antagonista” non abbia più rappresentanza istituzionale?
F.P.: Solo del bene. Intanto è evidente che c’è una crisi non nella sinistra radicale ma nella sinistra. Basta guardarli: dai Socialisti a Rifondazione sono dei rappresentanti in cerca di chi rappresentare. Hanno sempre fatto il mestiere di “rappresentanti”. E’ tutta una cosa storta fin dall’inizio. Mentre viceversa ci sono dei militanti che si sentono come orfani. Il punto è che bisogna pensare in una condizione di post-sinistra, non è riproponibile il modello statalista e soprattutto non è riproponibile l’idea della sinistra che i problemi si risolvono aumentando la ricchezza. I problemi di ridistribuzione della ricchezza non sono legati alla quantità di ricchezza ma alle relazioni tra le persone. Noi potremmo star meglio con una produzione persino diminuita rispetto a quella attuale. E’ tutta una cosa diversa, in cui si tratta di ricostruire una cultura ed una sensibilità. Probabilmente da questo punto di vista il volontariato, anche quello cattolico, è molto più vicino ad un altro modo non statalista ma comunitario di porre il problema ad un superamento della dimensione della nazione che è stato l’altro aspetto centralistico della nostra storia. Noi poi l’abbiamo preso pari pari dai francesi senza ereditare però da loro il rigore nella concezione dell’amministrazione pubblica. Il mio amico Deleuse un giorno mi disse che il guaio italiano è che l’Italia è stata concepita come un intreccio tra la capacità organizzativa piemontese e la fantasia napoletana. Poi però è andata a finire che la capacità organizzativa ce l’hanno messa i napoletani e la fantasia i piemontesi. Puoi pensare che disastro…
 
Di Manlio  20/10/2008, in Interviste (5670 letture)

Giorgio Guidelli è un giovane giornalista del Resto del Carlino che ha già pubblicato tre libri sugli anni di piombo, il primo dei quali "Operazione Peci, storia di un sequestro mediatico" una vera e propria rilettura di uno dei capitoli più efferati dell’intera storia brigatista (il sequestro-assassinio di Roberto Peci, fratello del grande pentito Patrizio, ad opera delle Brigate rosse-Partito della Guerriglia). Il rapimento fu un tentativo di Giovanni Senzani, stratega e ideologo di punta dell’ultima stagione brigatista, di utilizzare e servirsi dei mass media per accreditare se stessi, attraverso il delitto. Per realizzare questo lavoro, Guidelli ha dovuto analizzare una montagna di carte processuali e questo gli ha consentito di diventare l'esperto più accreditato di quella vicenda tragica ed al tempo stesso non completamente chiarita. Ad esempio, basti citare che il giornalista non è riuscito a recuperare le versioni integrali dei 7 comunicati emessi dalle Br durante i 55 giorni del sequestro Peci essendo disponibili solo i loro estratti utilizzati nelle aule del Tribunale.


L'approfondimento della vicenda ha portato Guidelli ad un secondo lavoro "Terra di piombo" nel quale il giornalista ha ripercorso gli anni che hanno segnato le Marche dal 1976 al 1982 attraverso lotte, incontri clandestini, disordini passando da luoghi, personaggi e situazioni nella regione che fu culla delle Brigate rosse. Guidelli è anche il protagonista del ritrovamento della R4 nel cui bagagliaio fu rinvenuto il cadavere di Aldo Moro in via Caetani. Nel 2007 ha pubblicato un terzo libro "L'auto insabbiata" nel quale racconta la storia di quest'auto ancora trattenuta dal proprietario dell'epoca Filippo Bartoli.

Il fenomeno della lotta armata lo ha fino ad ora visto come un osservatore e studioso sempre più attento. In quest'intervista ho cercato di stimolare Giorgio a delle riflessioni soprattutto sulla vicenda Peci e sul perchè essa non possa ancora considerarsi un capitolo chiuso della nostra storia.





Mario Moretti e Patrizio Peci. Due capi brigatisti, entrambi marchigiani, che hanno determinato l’ascesa e la sconfitta delle BR. In che rapporti erano i due all’interno dell’Organizzazione?

Generazione di fenomeno. Brigatista. Diciamo che uno ha tirato la volata all'altro. Con analogie impressionanti: tutti e due della provincia di Ascoli, tutti e due studenti sui banchi dell'Iti Montani di Fermo, tutti e due leader, tutti e due con ruoli chiave: il primo di grande regista, il secondo di attore e al contempo distruttore in qualità di pentito. Una cosa è certa: quando Patrizio se la svignò dalle Marche, corse a Milano dai compagni guidati dal conterraneo Moretti e di lì, ispirato dalle gesta del capo di Porto San Giorgio, spiccò il volo per Torino, dove divenne uno dei maiores della colonna piemontese. Tra l'altro, facendo un passo indietro, e cioè negli anni del comitato marchigiano, specie nel '76, i contatti tra il comitato esecutivo e gli organi periferici, come quello marchigiano, dovevano essere frequenti. E quindi anche i rapporti tra Moretti e Peci. Per il resto non doveva esserci dialettica, se non altro per il fatto che Moretti era un teorico, mentre Peci una mano calda


La vicenda del pentimento di Peci è piuttosto controversa. C’è chi addirittura ha ipotizzato un “doppio arresto” e quindi la storia di un pentimento “costruito a tavolino”. Possiamo dire di sapere tutto, oggi, sul più illustre pentito delle BR?

No, non si sa ancora tutto. E quello che si sa, non si ha il coraggio di dirlo. La storiografia del brigatismo e degli anni di piombo accredita versioni di comodo, supportate da un giornalismo superficiale e da indagini di studiosi poco inclini a scavare nella verità. Poi, purtroppo, c'è la solita omertà di Stato. Nessuno, ultimamente, ha voluto rivelare o scrivere. Quando si parla dell'argomento, si incontra un'ostilità strana e a tratti inquietante. A livello nazionale e, soprattutto, marchigiano


Il Generale Bozzo in una recente intervista radiofonica rilasciata ad Alessandro Forlani per il GRParlamento della RAI, ha ricordato come Patrizio Peci fu individuato già nel ’77 perché amico della figlia di un parlamentare che era controllata dai carabinieri. Le foto degli incontri della ragazza giunsero a Milano e lì gli uomini del gruppo di Dalla Chiesa, al momento non attivo, riconobbero Patrizio Peci tra le persone immortalate. Poi però, secondo Bozzo, il contatto fu perso. Le sembra un comportamento verosimile per chi faceva dell’antiterrorismo un’attività di elevata professionalità?

Apprendo qui di questo episodio. Per la risposta, vedi quella precedente…

Patrizio Peci ha scontato pochissimo carcere e, dopo essere stato per un periodo all’estero, è stato premiato con una nuova identità avendo la possibilità, non indifferente, di potersi costruire una nuova vita. Attualmente possiede un’attività commerciale in Piemonte. E’ stato l’unico dei pentiti a ricevere così tante agevolazioni. Perché fu il primo, perché il suo contributo fu il più determinante, o per una sorta di premio-indennizzo per una collaborazione più complessa del “semplice” pentimento?

Credo proprio la terza ipotesi. E credo anche che ci sia molto di più. E che quel di più, chi sapeva, se lo sia portato nella tomba

Quale vendetta per le delazioni di Patrizio Peci, le Br di Giovanni Senzani rapiscono e processano il fratello Roberto. La vicenda rappresentò il tentativo di risposta mediatica con la quale le Br volevano fornire la loro risposta allo Stato (denunciando le presunte complicità dei nuclei anti-terrorismo di Dalla Chiesa con l’operazione arresto-pentimento) e ad eventuali altri potenziali delatori (fornendo una prova di cosa aspettava loro in caso di pentimento). Quale è la sua lettura del rapimento e dell’uccisione di Roberto Peci?

La versione ufficiale è quella di una vendetta trasversale. Mafiosa. Del tipo: tu parli, io uccido un tuo parente per rappresaglia e così sei avvisato. La versione delle Br è quella di aver punito il tradimento di Roberto, di annientare i cosiddetti agenti della controrivoluzione. Il fatto curioso è che la campagna Peci nasce con certe intenzioni e finisce con altre. Nasce cioè con l'intenzione di intimidire e non di uccidere. E invece si chiude con un'esecuzione. Filmata, addirittura. Perché? E perché, parallelamente, il sequestro Cirillo, ugualmente gestito dal Fronte delle carceri, si chiude invece con la salvezza dell'ostaggio? In fondo la vicenda dei Peci, forse molto più di quella Cirillo, poteva essere decisiva nella partita tra Stato e Br. Come è possibile, quindi, che Cirillo sia stato salvato e Roberto Peci no? Ruota qui attorno il mistero della campagna Peci. Una verità processuale è stata già scritta, ma il resto…


In via Gradoli furono repertati diversi documenti tecnici sulle attrezzature per la video registrazione. Del resto lo stesso Buzzati seppe da Moretti che in occasione del sequestro Moro era stato installato un impianto di videoregistrazione. In effetti, la forza mediatica del “processo Peci”, fu enorme e immaginiamo cosa sarebbe stato il sequestro Moro (in termini di spettacolo e quindi di propaganda per le Br) se fossero stati divulgati “filmati della prigionia e dell’interrogatorio”. Ritiene possibile che anche 3 anni prima le Br avessero puntato ad un’operazione mediatica ma che, a differenza di Peci, furono costrette a rinunciare alla pubblicazione del materiale video?

E' possibile. Eccome. Le analogie tra i due sequestri, anche se a distanza di tre anni, sono evidenti. Ed è possibile che alla testa di quelle operazioni si trovassero alcune stesse menti. Quello che cambiava era il rischio rapportato all'ostaggio. Forse i sequestratori ritennero che divulgare un filmato con Moro sarebbe stato troppo pericoloso per l'Organizzazione. O forse chi voleva divulgarlo, allora, si trovò in netta minoranza all'interno delle stesse Br. D'altra parte, tre anni più tardi, il film con Roberto Peci fu ritenuto un'assurdità nell'Organizzazione. E gli stessi brigatisti condannarono la spettacolarizzazione della morte

Cosa ne pensa della “denuncia” con la quale Senzani tentò di far scoprire le carte ai carabinieri indicandoli come responsabili di avere “comprato” l’infiltrazione di Patrizio Peci?

Senzani era uno stratega raffinato. Conosceva a menadito i meccanismi dello Stato e i suoi apparati…

Peci era certamente un capo brigatista sin dal ’79 e, con molta probabilità, lo era già dall’epoca del sequestro Moro tanto che non sono pochi coloro che hanno ipotizzato un ruolo attivo di Peci nella vicenda del rapimento del Presidente democristiano. Prova ne è che erano nella disponibilità di Peci (notizia ANSA) scritti autografi di Moro resi nel corso dei 55 giorni. Lei ritiene che Patrizio Peci possa aver avuto un ruolo attivo nel sequestro Moro?

Può essere. E questo potrebbe aver pesato, a mio avviso, nel suo successivo ruolo di 'delatore' speciale. So per certo che persino alcuni fiancheggiatori considerati pesci piccolissimi ebbero ruoli impensabili nell'operazione Fritz

Considerando che l’unico argomento del quale Peci non ha mai parlato, se non per sommarie informazioni, è proprio il sequestro Moro, lei ritiene che un suo eventuale coinvolgimento sia in qualche modo legato al pentimento ed alle delazioni?

Potrebbe essere. Lo dicevo anche prima

Da studiosi è difficile non notare alcune incredibili somiglianze tra il caso Moro ed il caso Roberto Peci. Entrambi i rapimenti durarono 55 giorni, entrambi i prigionieri furono sottoposti a “processo popolare”, i comunicati delle Br di Senzani durante il rapimento Peci furono 7 (e si sa che il 7 è un numero in relazione al caso Moro), entrambi i prigionieri furono assassinati con 11 colpi al petto. Solo il frutto di macabre coincidenze o messaggi trasversali ben precisi?

Se non messaggi trasversali, analogie riconducibili a regie più o meno simili. Su quelle bisognerebbe indagare di più

Si parla di un suo prossimo imminente lavoro che conterrà non poche novità su quelle vicende. Può darci qualche anticipazione?

Dopo anni di ricerche, una fonte ha iniziato a sgorgare. Speriamo che sia abbondante. E che nascano buoni frutti...
 
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