Ieri è stata presentata al Senato la proposta di istituire una Commissione Parlamentare bicamerale sul caso Moro, firmatari i senatori Luigi Compagna (Gal), Miguel Gotor (Pd) ed Emma Fattorini (Pd). >Leggi<
Leggo oggi sull'Huffington Post una dichiarazione di Gotor sulle motivazioni che giustificherebbero, anzi renderebbero necessaria, l'istituzione di una nuova Commissione d'Inchiesta. In primo luogo la possibilità di accedere a nuovi documenti provenienti dagli archivi custoditi oltre cortina, in secondo luogo perchè
"La commissione deve avere un dublice obiettivo, a mio parere. Da un lato penso sia un obbligo morale e civile fare il possibile per raggiungere una verità storica credibile, lo dobbiamo all'opinione pubblica, alla famiglia, alla Repubblica. C'è poi una seconda utilità civica: diradare le nebbie della dietrologia e provare a restituire credibilità alle Istituzioni"
Sembra di intravedere il vecchio ritornello che vuole uno Stato "bello e impossibile" alla mercè di potenze cattive dell'est che hanno manipolato un branco di eterodiretti prezzolati che per oltre un decennio hanno fatto finta di fare la rivoluzione.
E poi una cosa, sinceramente, non la capisco. Ma sarà colpa mia che sono limitato. Una Commissione dovrebbe provare ad acquisire nuovi elementi e magari provare a rispondere a delle nuove domande: ma perchè mai queste risposte dovrebbero "restituire credibilità alle Istituzioni"? Dipende. Potrebbero anche generare l'effetto opposto.
A meno che la ricerca non sia condotta teleguidandola verso un obiettivo "politico". E allora sarebbe inutile spendere soldi pubblici per arrivare ad una conclusione che si può raggiungere in una riunione dei capigruppo.
Ma siamo in Italia e di questi tempi tocca accontentarsi.
Sarò un illuso ma mi chiedo: ma perchè mai andare a trovare le risposte negli archivi lontani quando basterebbe poter leggere le nostre, di carte?
Cominciamo a desecretare i documenti che nell'inchiesta sugli orari del 9 maggio '78 sono stati trovati nei nostri archivi di Stato (provenienti dal Ministero dell'Interno) e poi ne riparliamo.
Chiunque proponga di avvicinarsi alla verità, parta da qui. Sarebbe già un bel passo avanti.
I deputati del PD Giuseppe Fioroni e Gero Grassi hanno scritto una lettera alla presidente della Camera, Laura Boldrini, per chiedere ''la liberalizzazione di tutti gli atti e i documenti relativi al rapimento e all'omicidio di Aldo Moro".
Fioroni e Grassi hanno recentemente promosso l'istituzione di una commissione d'inchiesta sul delitto del presidente della Dc alla luce dei nuovi elementi emersi da alcune inchieste giornalistiche, invitano inoltre la presidente Boldrini ad adoperarsi affinché il Ministero degli Interni renda consultabile la documentazione archiviata all'epoca dei fatti dall'allora servizio segreto civile, il Sisde, e conservata presso quella che l'ex presidente della Commissione Stragi, Giovanni Pellegrino, definì la ''segreteria speciale del Ministero degli Interni'' .
Nella lettera, un passaggio specifico, fa comprendere come si possa realmente mostrare la volontà di trovare la verità, con un gesto semplice e rapido. Senza attendere i lunghi tempi di una commissione parlamentare. ''In attesa che la Camera possa discutere la nostra proposta di legge ed avviare l'iter per l'avvio di una nuova Commissione d'inchiesta, chiediamo un'operazione di trasparenza - spiegano Grassi e Fioroni - per avviare un processo di conoscenza ed approfondimento in grado di determinare, noi auspichiamo quanto prima, la verità storica sul rapimento e sull'omicidio di Aldo Moro. Il raggiungimento della verità storica è un atto di giustizia nei confronti della famiglia Moro e di tutti gli italiani che credono nella libertà e nella democrazia''.
Sono 35 anni che in ogni anniversario ascoltiamo le solite parole. Un paio di anni fa il Presidente Napolitano si appellò addirittura a complicità internazionali. E forse la soluzione era in un archivio da egli stesso custodito quando era al Viminale...
Ritorna alla ribalta la vicenda del rapimento di Roberto Peci, fratello del primo pentito delle BR Patrizio.
Questa volta a parlare è direttamente Giovanni Senzani, leader di quelle BR-PG che gestì l’operazione. In un’intervista su liberatv (>vedi< ) parla in maniera piuttosto esplicita delle motivazioni che portarono le BR a rapire ed uccidere il “fratellino” dei Peci:
"Non uccidemmo Peci per vendetta" "Dell'esecuzione esiste solo un'immagine polaroid ed era finalizzata a far conoscere la conclusione del sequestro. C'è, precedente, il filmato dell'interrogatorio. Il resto è invenzione. Con le Br sono responsabile, e condannato, per quel sequestro e quell'esecuzione. Ma la nostra iniziativa non era ispirata alla vendetta, bensì alla volontà di far emergere i lati oscuri di una vicenda complessa legata all'arresto di Patrizio Peci, alla morte dei quattro compagni di via Fracchia a Genova, ai ruoli dalle persone coinvolte nella vicenda".
Quando nel 2009 scrissi un >post< per ricordare come di quella vicenda non se ne conoscano ancora i risvolti reali, e lo feci dopo essermi informato da Giorgio Guidelli un giornalista serio che ha attinto informazioni dai protagonisti diretti, Roberta Peci (figlia di Roberto, nata dopo la morte del padre) mi insultò invitandomi a stare zitto ed informarmi meglio.
Adesso ne parla anche Senzani, che in 32 anni di questa vicenda non ne ha mai parlato neanche con se stesso. E di cosa parla? Di lati oscuri legati all’arresto di Patrizio Peci e la conseguente strage operata dai Carabinieri di Dalla Chiesa in via Fracchia.
Nei suoi documentari, Roberta Peci racconta di aver scritto a Senzani senza ricevere rispose alle sue lettere. In un video documentario “La via di mio padre” incontra Alberto Franceschini (che fu uno di quelli in carcere che si espresse per la morte di Roberto Peci ed il Partito Guerriglia guidato da Senzani altri non era che l’espressione della linea dei brigatisti detenuti, Franceschini e Curcio in primis) e gli chiede se può essere importante insistere nell’incontrare Senzani per parlare di ciò spinse le BR a compiere quell’atroce delitto (minuto 3.40 circa). La risposta dell’ex brigatista suona più o meno così: “Sarebbe fondamentale se tu riuscissi a parlargli. Io temo che lui farà di tutto per non incontrarti, però tu devi fare di tutto per potergli parlare perché lui ti deve delle cose, ha un debito morale. Poi dica quello che deve dire, non è che uno voglia imporgli delle cose… Se ti devo dire la verità, non lo conosco ma la persona non mi sta simpatica per niente. Non è mai stato un personaggio molto rispettato o amato.”
A parte il solito show di Franceschini che continua a vedere tradimenti in tutti i leader brigatisti che vennero dopo di lui, l’invito è chiaro. Ha il dovere di dirti, ma non ti aspettare che dica cose imposte dalla verità ufficiale.
Oggi Senzani ha accennato qualcosa, senza che nessuno glielo imponesse. E non parla delle solite menate della versione ufficiale. Dalle sue parole si intuisce che c’è di più. Molto di più.
Non sono abituato alle dietrologie, ma in certi casi mi piace fare ipotesi di fantapolitica. Ad esempio si potrebbe pensare che le BR di Senzani rapiscono Roberto per svelare cosa c’era dietro all’arresto di Patrizio (con conseguenti contropartite per tutti) e dare così un colpo letale alla legge sui pentiti che avrebbe creato molti danni (come fu) all’Organizzazione. Il rapimento era dimostrativo, era un modo per avvisare lo Stato che potevano far saltare un po’ di teste. Ma Roberto parla e le BR pensano di poter sfruttare fino in fondo la loro arma. A questo punto lo Stato si tira indietro e adotta la linea dura e alle BR non resta altro che ammazzare un prigioniero che se liberato avrebbe potuto determinare delle situazioni di instabilità. Ad essere maligni si potrebbe anche pensare che nell’accordo trovato con i servizi per la liberazione dell’allora assessore ai Lavori Pubblici della Campania Ciro Cirillo (24 luglio, con un riscatto miliardario intascato da Senzani) rientrasse la necessità di assicurarsi il silenzio sia delle BR che del loro “pericoloso” prigioniero.
Questa è sicuramente fantapolitica, ma ciò che tutt'ora sappiamo di questa orribile vicenda, non si può certo definire realtà.
E' da poco uscita su tutte le agenzia la notizia che tutti i capigruppo e una novantina di parlamentari hanno fatto richiesta di istituire una nuova Commissione d'Inchiesta sul caso Moro.
Parrebbe l'ennesimo atto burocratico, la classica perdita di tempo che nel tentativo di far luce su una vicenda così complessa inonda gionalisti, storici, magistrati di nuove acquisizioni che contribuiscono a sollevare il polverone.
E invece, parrebbe proprio di no.
Dalle parole del comunicato: "Nuove rivelazioni e dichiarazioni hanno riacceso i riflettori sul 'caso Moro'. Sembrano emergere rilevanti elementi di novita', che riguardano azioni ed omissioni. Ruotano sul sospetto, sempre piu' connotato da certezza, che la morte di Moro poteva essere evitata."
Ragion per cui, se questa Commissione si farà, e con tutti i capigruppo firmatari la cosa appare quasi scontata, l'oggetto d'indagine sarebbe molto preciso e limitato nel tempo. Ciò che è, o non è, stato fatto per evitare la morte del Presidente della DC. E cioè verificare se ci siano state delle omissioni che hanno contribuito ad accelerare o addirittura a spingere i brigatisti ad assassinare Moro.
Non mi sembra una novità da poco perchè questa volta, a differenza delle altre, sotto i riflettori non ci saranno i brigatisti ma uomini dello Stato. Perchè è evidente che le azioni ed omissioni si riferiscano a chi avrebbe potuto (o dovuto) salvare Moro.
A questo punto la questione degli orari riveste importanza vitale perchè, come abbiamo sottolineato nell'inchiesta, non c'era motivo di nascondere alla nazione il ritrovamento del cadavere di Moro ben prima delle risultanze ufficiali. Se è stato rapito anche il cadavere di Moro, deve essere stato per un qualcosa di molto prossimo alla "ragion di Stato".
Manlio Castronuovo e Paolo Cucchiarelli
I testi delle agenzie.
MORO:PROPOSTA PER ISTITUIRE COMMISSIONE PARLAMENTARE D'INCHIESTA (AGI) - Roma, 5 ago. - "Nonostante il trascorrere degli anni, permane un senso di colpa su quello che lo Stato poteva e doveva fare per la liberazione di Aldo Moro e che invece non ha fatto o non ha fatto completamente". E' una delle 'spinte' alla base della proposta di legge per l'istituzione di una Commissione Parlamentare d'inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro, che ha come primi firmatari gli onorevoli Giuseppe Fioroni e Gero Grassi, e porta anche la firma dei capigruppo del PD Speranza, PDL Brunetta, SEL Migliore, Scelta Civica Dellai, Fratelli d 'Italia Meloni, Centro Democratico Pisicchio, del Vicecapogruppo della Lega Nord Pini, e poi di Bersani, Bindi, Fitto, Cesa, Tabacci, Cecconi e da altri novanta deputati in rappresentanza di tutti i gruppi.(AGI) red/Gim (Segue) 051227 AGO 13
MORO:PROPOSTA PER ISTITUIRE COMMISSIONE PARLAMENTARE D'INCHIESTA (2) (AGI) - Roma, 5 ago. - "Il 16 marzo 1978, giorno del rapimento dell'on. Aldo Moro e dell'omicidio della scorta e il 9 maggio 1978, giorno del ritrovamento del cadavere di Moro in via Caetani, sono - affermano i promotori - date indelebili nella memoria degli italiani. A 35 anni di distanza il caso Moro e' ancora una pagina densa di misteri e di enigmi. Per accompagnare questa inesauribile sete di verita', per cercare di fare luce su aspetti inediti, emersi anche recentemente per iniziativa di alcune Procure ed infine per il dovere che come parlamentari sentiamo nei confronti della nostra storia e nei confronti delle generazioni future, chiediamo l 'istituzione di una commissione parlamentare d'inchiesta sul rapimento e la morte di Aldo Moro. Nuove rivelazioni e dichiarazioni hanno riacceso i riflettori sulcaso Moro. Sembrano emergere – proseguono Fioroni e Grassi - rilevanti elementi di novita', che riguardano azioni ed omissioni. Ruotano sul sospetto, sempre piu' connotato da certezza, che la morte di Moro poteva essere evitata. Impegnarsi per ricercare tutta la verita' e' uno dei migliori servizi che come deputati possiamo fare per il rafforzamento e la credibilita' delle nostre istituzioni. Ricercare tutta la verita' vuol dire continuare a rendere giustizia ad Aldo Moro, alla sua famiglia e a tutti coloro che credono e amano la democrazia e la liberta' e proprio per questo non temono la verita'". "Spiace purtroppo constatare che, fatti salvi alcuni importanti servizi radiotelevisivi e molti libri scritti sull'evento, ancora oggi - sottolineano - esiste una reticenza generale a discutere del Caso Moro , di cui si parla solo in occasione delle ricorrenze del 16 marzo e 9 maggio".(AGI) red/Gim
Moro: Fioroni-Grassi, istituire commissione inchiesta. Proposta firmata da 6 capigruppo e 90 deputati (ANSA) - ROMA, 5 AGO - Istituire una commissione di inchiesta sul caso Moro, per chiarirne ''i misteri e gli enigmi''. L'iniziativa e' dei deputati del Pd Giuseppe Fioroni e Gero Grassi: la loro proposta di legge ha avuto un larghissimo sostegno: e' stata sottoscritta dai capigruppo del PD Speranza, PDL Brunetta, SEL Migliore, Scelta Civica Dellai, Fratelli d'Italia Meloni, Centro Democratico Pisicchio, dal vice capogruppo della Lega Nord Pini, da Bersani, Bindi, Fitto, Cesa, Tabacci, Cecconi e da altri novanta deputati. "A 35 anni di distanza - sostengono Fioroni e Grassi – il caso Moro e' ancora una pagina densa di misteri e di enigmi. Nuove rivelazioni e dichiarazioni hanno riacceso i riflettori sul 'caso Moro'. Sembrano emergere rilevanti elementi di novita', che riguardano azioni ed omissioni. Ruotano sul sospetto, sempre piu' connotato da certezza, che la morte di Moro poteva essere evitata. Impegnarsi per ricercare tutta la verita' - aggiungono -e' uno dei migliori servizi che come deputati possiamo fare per il rafforzamento e la credibilita' delle nostre istituzioni. Ricercare tutta la verita' vuol dire continuare a rendere giustizia ad Aldo Moro, alla sua famiglia e a tutti coloro che credono e amano la democrazia e la liberta' e proprio per questo non temono la verita'". "Spiace purtroppo constatare che, fatti salvi alcuni importanti servizi radiotelevisivi e molti libri scritti sull'evento, ancora oggi esiste una reticenza generale a discutere del 'Caso Moro', di cui si parla solo in occasione delle ricorrenze del 16 marzo e 9 maggio. Nonostante il trascorrere degli anni, permane un senso di colpa su quello che lo Stato poteva e doveva fare per la liberazione dello statista Dc e che invece non ha fatto o non ha fatto completamente", concludono.(ANSA). 05-AGO-13 12:27
MORO. COMMISSIONE INCHIESTA, TUTTI FIRMANO PDL GRASSI-FIORONI (DIRE) Roma, 5 ago. - La proposta di legge: "Istituzione di una Commissione Parlamentare d'inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro", primi firmatari gli onorevoli Giuseppe Fioroni e Gero Grassi, e' stata firmata dai capigruppo del Pd Speranza, Pdl Brunetta, SEL Migliore, Scelta Civica Dellai, Fratelli d 'Italia Meloni, Centro Democratico Pisicchio, dal Vicecapogruppo della Lega Nord Pini, da Bersani, Bindi, Fitto, Cesa, Tabacci, Cecconi e da altri novanta deputati in rappresentanza di tutti i gruppi. In una nota i due esponenti del Pd spiegano che "il 16 marzo 1978, giorno del rapimento di Aldo Moro e dell'omicidio della scorta e il 9 maggio 1978, giorno del ritrovamento del cadavere di Moro in via Caetani, sono date indelebili nella memoria degli italiani. A 35 anni di distanza il "caso Moro" e' ancora una pagina densa di misteri e di enigmi. Per accompagnare questa inesauribile sete di verita', per cercare di fare luce su aspetti inediti, emersi anche recentemente per iniziativa di alcune Procure ed infine per il dovere che come parlamentari sentiamo nei confronti della nostra storia e nei confronti delle generazioni future, chiediamo l 'istituzione di una commissione parlamentare d'inchiesta sul rapimento e la morte di Aldo Moro. Nuove rivelazioni e dichiarazioni hanno riacceso i riflettori sul 'caso Moro'". "Sembrano emergere rilevanti elementi di novita', che riguardano azioni ed omissioni. Ruotano sul sospetto, sempre piu' connotato da certezza, che la morte di Moro poteva essere evitata. Impegnarsi per ricercare tutta la verita'- aggiungono Gero Grassi e Beppe Fioroni- e' uno dei migliori servizi che come deputati possiamo fare per il rafforzamento e la credibilita' delle nostre istituzioni. Ricercare tutta la verita' vuol dire continuare a rendere giustizia ad Aldo Moro, alla sua famiglia e a tutti coloro che credono e amano la democrazia e la liberta' e proprio per questo non temono la verita'. Spiace purtroppo constatare che, fatti salvi alcuni importanti servizi radiotelevisivi e molti libri scritti sull'evento, ancora oggi esiste una reticenza generale a discutere del 'Caso Moro', di cui si parla solo in occasione delle ricorrenze del 16 marzo e 9 maggio. Nonostante il trascorrere degli anni, permane un senso di colpa su quello che lo Stato poteva e doveva fare per la liberazione dello statista Dc e che invece non ha fatto o non ha fatto completamente. La verita' sulla storia di un popolo ne rafforza l'identita' e lo proietta nel futuro saldamente ancorato alla liberta' e alla democrazia". (Rai/ Dire) 12:06 05-08-13
Questo è un comunicato con cui Vito Raso spiega meglio la sua decisione di chiudere la porta a discutere della sua testimonianza al di fuori delle sedi competenti. La scelta è stata dettata dal pessimo comportamento di alcuni rappresentanti della stampa che hanno causato anche dei seri problemi personali.
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Ho raccontato la mia esperienza di anti-sabotatore in un libro per far capire anche agli altri cosa vuol dire uscire al mattino con l’obiettivo di salvare la vita di gente innocente. E, questo, negli anni ’70, quando i residui bellici inesplosi erano ancora numerosissimi e gli attentati politici riempivano le pagine dei giornali. Ho partecipato con attenzione al lavoro di approfondimento di Cucchiarelli e Castronuovo fornendo loro ogni informazione in mio possesso per trovare riscontri al fatto che il mio intervento di artificiere fu richiesto sicuramente prima delle 11 del mattino. Ho dedicato del tempo, fatto ricerche e sacrificato la mia famiglia come è già capitato in passato quando si trattava di questioni di lavoro importanti. Perché quando ho saputo che i conti degli orari non tornavano, ho pensato fosse giusto dare il mio contributo. In questi giorni ho sentito di tutto. Che ero stato pagato, e passi. Che ho mentito, e passi pure questo. Che l’ho fatto per smania di protagonismo. E va bene, ho le spalle larghe. Ma di fronte al comportamento disgustoso di alcuni giornalisti che hanno perseguitato me e la mia famiglia, con quell’arroganza e quella maleducazione dalle quali ho sempre mantenuto le distanze in tutta la mia vita. A queste condizioni, io non ci sto. Non esiste un personaggio Vito Raso, esiste ciò che ho detto. E’ scritto li, nero su bianco. Io sono stato un uomo dello stato e lo sarò fino a quando il signore mi darà vita. E non voglio fare di tutta l'erba un fascio perché, ne sono sicuro, anche nella categoria dei giornalisti ci sono persone capaci ed educate, come mi hanno dimostrato in questi giorni.
E’ per questo che intendo comunicare il mio silenzio stampa immediato non avendo altro da aggiungere rispetto a quanto fin qui scritto. Naturalmente resto a disposizione delle autorità competenti con le quali ho sempre collaborato nel mio lavoro e alle quali darò tutto il supporto che mi potrà essere richiesto. Nulla toglie che tornerà il sereno e potremmo ricominciare a parlarne con la massima serietà e serenità. Insomma chi ricorda quella poesia che dopo la tempesta torna il sereno e anche le galline fecero festa? Grazie comunque a tutti
E’ morto nella sua auto probabilmente colpito da un infarto mentre si recava al lavoro. Un destino macabro, come quello di Aldo Moro di cui Gallinari era stato carceriere, anche lui colpito al cuore ma da una raffica di mitra in un’auto.
Faceva ancora l’operaio, Prospero Gallinari, in una tipografia di Sesso, frazione di Reggio Emilia presso la quale aveva trovato ospitalità una volta uscito dal carcere. Era un brigatista della “prima ora”, un capo storico, uno di quelli che ha partecipato alla fondazione delle Brigate Rosse assieme ai suoi compagni di Reggio Emilia che si erano uniti agli altri gruppi provenienti da realtà come Trento e le fabbriche milanesi.
Una persona che lungo tutto il suo percorso di militante della lotta armata, di carcerato, di libero cittadino dopo la sospensione della pena arrivata nel ’94 per motivi di salute è stata coerente con la propria storia e quella dei suoi compagni. In tanti indicandolo come “il solidale di Moretti” hanno tentato di adombrare la sua militanza come quella di un “soldato agli ordini di chissà quali generali manovratori”. Nelle lunghe chiacchierate che ho avuto con lui mi diceva sempre: “chi parla sa benissimo di mentire e sa benissimo che io non replicherò mai”.
Non stava bene, Prospero, e sapeva che da cardiopatico combatteva contro una malattia che lo faceva soffrire e che lo impegnava molto. Quando gli chiedevo come stesse rispondeva con un sospiro e con un rassegnato “si lotta, come sempre”. Mi raccontava delle cure di cui avrebbe avuto bisogno ma che ogni volta si complicavano perché per sottoporsi ad esami e terapie era costretto ad andare fuori Reggio Emilia e per fare ciò aveva bisogno di permessi che allungavano i tempi.
Mi disse che gli sarebbe piaciuto poter avere il permesso di trasferirsi al sud almeno durante i mesi invernali perché il clima freddo e umido di Reggio gli creava molti problemi. Ma che ciò gli era sempre stato negato. E si, perché Gallinari era in regime di sospensione condizionale della pena e al di fuori della possibilità di andare a lavorare part-time, aveva a disposizione solo due ore giornaliere per provvedere alle piccole cose quotidiane. Ma aveva il divieto, ad esempio, di uscire da casa nelle ore serali. Ogni cosa extra, richiedeva permessi, non sempre concessi. Gallinari non era libero, come spesso si dice per dimostrare un trattamento di favore da parte dello Stato. E questo va ribadito ad onore di verità. Se non avesse avuto i problemi di salute che lo hanno portato alla morte, sarebbe rimasto in carcere.
Era disponibile a discutere con chi voleva parlare degli argomenti che lo riguardavano e che interessavano le BR per capire, per comprendere “le ragioni della lotta armata” e dei tanti giovani che ne hanno abbracciato l’ideologia. Ed anche di voler affrontare, per comprenderle realmente, le vicende delle BR dal punto di vista politico e non solo giudiziario. Qui sotto una registrazione tratta da RadioRadicale nella quale Gallinari spiega le ragioni del suo silenzio in aula.
Anche io, nel mio piccolo, mi ero avvicinato a lui per avere una testimonianza diretta, lontana dagli scoop e dal voler scavare nei presunti misteri o, peggio ancora, per ergermi a giudice di chissà quale tribunale delle anime. Ed è questa testimonianza, risalente al luglio del 2007, che voglio riproporre. Perché mi ha molto colpito conoscerlo al di fuori dello stereotipo che viene fuori attraverso i mass media.
E’ stata una persona coerente, che ha creduto nella possibilità di fare la rivoluzione, che ha perso riconoscendo la sconfitta, che ha pagato ma che non ha mai pensato di poter barattare la propria storia in cambio di privilegi (piccoli o grandi che fossero). Cosa che invece altri sono stati disposti a fare anche solo pochi minuti dopo essere stati arrestati.
Lo scorso 2 marzo, nell’ambito del processo ai due generali del ROS Mori e Obinu, è stato ascoltato Mons. Fabio Fabbri. Uno degli argomenti del processo è la famosa trattativa Stato-Mafia che tra il ‘92 ed il ’93 pare abbia portato ad uno scambio tra le parti che avrebbe portato ai boss mafiosi sotto 41bis notevoli alleggerimenti nelle condizioni carcerarie. Fabbri è stato udito come testimone dei fatti in quanto fu protagonista, assieme ad un altro esponente importante del Vaticano Mons. Cesare Curioni, di un consulto con il Presidente Scalfaro che chiese ai due preti di segnalargli un successore di Nicolò Amato (che ormai aveva fatto il suo tempo) alla guida del DAP.
Nel corso dell’interrogatorio, sempre in ambito trattative, Fabbri ha tirato in ballo anche la vicenda Moro nella quale, come braccio destro di Mons. Curioni, ebbe un ruolo nell’ambito dei canali che la Santa Sede attivò per arrivare alla liberazione del Presidente della DC. La cosa più rilevante che Fabbri ha riportato alla corte è che quei famosi 10 milioni di dollari di cui si è parlato in passato, messi a disposizione da Papa Paolo VI per il rilascio dell’amico Aldo Moro, “io li ho visti con questi occhi!”. E lo avrebbe rivelato per primo al “famoso storico Satta, che (mi pare) insegna alla Sapienza” quando gli chiesero di mettersi a disposizione dell’archivio del Senato in occasione della pubblicazione del libro che viene pubblicato ogni 25 anni sui fatti più importanti della Repubblica. Vladimiro Satta avrebbe intervistato Mons. Fabbri per 7 ore e da quel colloquio avrebbe prima scritto un saggio su Nuova Storia Contemporanea, poi un primo ed un secondo libro che sarebbero diventati la pietra miliare per chiunque scrisse sulla vicenda successivamente.
Satta, documentarista del Senato dal 1987, sulla rivista Nuova Storia Contemporanea, ha pubblicato un articolo nel 2002 come anteprima del suo volume “Odissea nel caso Moro” ed un secondo studio nel 2005 proprio sulle trattative avviate dalla Chiesa per la liberazione del prigioniero delle BR. Oltre a diversi altri lavori il cui elenco trovate qui http://www.biblio.liuc.it/scripts/essper/ricerca.asp?tipo=autori&codice=2038844
Analizziamo le perle che ci ha regalato Mons. Fabbri. Perché di perle si tratta, anche se nessuno si è soffermato ad approfondire perché in cronaca giudiziaria le testate si sono fermate esclusivamente alle parole dette dal prelato.
Ad un certo punto, parlando del “potere” di Mons. Curioni, Fabbri cita un colloquio con il Sen. Andreotti. Argomento dello scambio di battute la trattativa della Chiesa per la liberazione di Moro. Fabbri ricordò ad Andreotti che dopo la morte di Curioni a sapere quelle cose erano rimasti solo loro due. “Teniamo duro!”, fu la risposta del Presidente. Silenzio dei magistrati e del Presidente della Corte. Nel descrivere l’interessamento di Papa Paolo VI per la vita di Moro, Fabbri parla dei canali attraverso i quali le informazioni giungevano ai brigatisti che custodivano il Presidente e tornavano indietro. In pratica confessa che ci fu un dialogo diretto attraverso canali riservati e non ancora noti. “Non mi chieda i canali senò va a finire che mi arrestano!” chiede Fabbri dimenticando che non si trattava di una conversazione con un giornalista all’happy hour. Silenzio dei magistrati e del Presidente della Corte.
Nel parlare degli eventi, Fabbri racconta una storia da “fantabosco” che non sta né in cielo (è il caso di dirlo!) né in terra. Per dirla in breve (ma avete a disposizione l’audio per ascoltarla dalla voce del prete) Paolo VI chiamò Curioni e Fabbri che erano a bari per un convegno subito dopo il rapimento di Moro. I due tornarono a Roma. Paolo VI pensava di poter attivare dei contatti sfruttando la malavita e, di conseguenza, rivolgendosi al mondo delle carceri. Prima però c’era la necessità di essere certi dell’esistenza in vita di Moro. Tramite i loro canali Curioni e Fabbri spinsero le BR a far pervenire una foto di Moro. Ma questa prima foto, quella senza giornale, non dimostrava che Moro fosse ancora vivo ed allora Paolo VI chiese ai due di ricontattare i brigatisti per fornire una nuova prova. Arrivò così la seconda foto di Moro, con la Repubblica del 19 aprile che convinse Paolo VI a raccogliere il denaro per il riscatto. Denaro che lo stesso Fabbri dichiara di aver visto: una consolle a Castel Gandolfo, coperta da un drappo azzurro che il Papa spostò per far vedere i “mazzetti” di dollari pronti per ottenere la libertà di Moro. E a proposito di questa faccenda, Fabbri chiude dicendo che “io ed Andreotti sappiamo un po’ come le cose sono andate”.
In un Paese normale qualcuno avrebbe chiesto chiarezza. Un Parlamento che si rispetti avrebbe posto interrogazioni. Un giornalista onesto avrebbe protestato, lui che è portatore di verità, il paladino della trasparenza, la penna della denuncia. Ecco un esempio di cosa ho trovato il 3 marzo http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/03/03/trattativa-stato-mafia-cappellano-delle-carceri-amico-potenti/195320/
Siamo sinceri. Ancora crediamo che ci sia qualcuno in Italia che voglia la verità sul passato? E ancora crediamo ad un Presidente che fa bei discorsi di parata in occasione delle ricorrenze ufficiali e che realmente utilizzi tutti gli strumenti in proprio possesso per sostenere la tanto invocata giustizia? Siamo tutti a bravi quando si tratta di chiedere ad un ex brigatista di stare zitto, perché non ha il diritto morale di parlare, o di farlo parlare a comando a condizione, cioè, che faccia dei nomi nuovi di personaggi marginali che nulla cambierebbero alla storia ma che magari potrebbero servire per soddisfare un personale bisogno di vendetta. Ma nessuno, e sottolineo NESSUNO, ha le palle (passatemi l’eufemismo) per chiedere conto allo Stato, alle istituzioni, ai partiti e a tutti quei politicanti da quattro soldi che da 30 anni conservano il potere anche grazie al loro silenzio. Non pretendo che a chiedere ciò siano i giornalisti (figuriamoci...) e nemmeno gli storici (troppo impegnati a conservare le cattedre). Ma i parenti delle vittime, si.
Strano Paese il nostro.
PS: solo per la cronaca, ho trovato in rete dei riferimenti a Mons. Fabio Fabbri. Non so se e come siano finiti questi procedimenti, ma mi sembra sia comunque interessante metterli sul piatto…
Dopo che il palcoscenico dei grandi giornali ha dato eco alle sue parole, cosa che non è stata fatta nei confronti della replica di Cucchiarelli (e questo già di per se la direbbe lunga) il maestro tace.
Del resto l'obiettivo l'aveva raggiunto (la vasta platea) ed il suo messaggio era arrivato forte e chiaro. Ma adesso una replica sarebbe far tornare in alto la notizia e vuoi che magari qualcuno tra i suoi lettori più intelligenti non venga preso dal dubbio e compri il libro di Cucchiarelli per capire autonomamente? O, peggio, ne parli ad altri?
Stimolato da un lettore attento, ripubblico la lista delle 5 domande sulle quali a molti piacerebbe conoscere l'illuminante parere di Adriano Sofri. So che è tempo perso, ma oggi pioviggina e non ho di meglio da fare.
Di questi tempi, tocca accontentarsi di sperare in 5 risposte. Che ci vuoi fare.
1. Nel suo scritto lei menziona Umberto Federico D’Amato. Vorrei che chiarisse ulteriormente una vicenda, da lei stesso diffusa nel 2007, per sgombrare il campo proprio da interpretazioni eccessive e fantasiose, alla Codice Da Vinci, proprio come scrive lei. Recensendo il libro di Mario Calabresi Spingendo la notte più in là e utilizzando una formula che le è cara, quella della lettera a un immaginario giovane tentato dalla violenza, ha raccontato un particolare incontro da lei fatto. “Quello Stato era fazioso e pronto a umiliare e violentare. Lo so. Una volta uno dei suoi più alti esponenti venne a propormi un assassinio da eseguire in combutta, noi e i suoi Affari Riservati”. Fu uno choc. Tre giorni dopo, torna sulla questione e spiega che si trattava di Umberto Federico D’Amato, il Gran Capo degli Affari riservati, e che lei si era sbagliato: l’offerta era per una “mazzetta di omicidi”. Ora nella nuova edizione dell’inchiesta spiego perché questa datazione, “un po’ più di cinque anni dopo il 12 dicembre”, non è plausibile ne’ temporalmente, né nell’obiettivo indicato, secondo lei, da D’Amato, e cioè i Nap, Nuclei armati proletari. Lei fornisce un solo elemento, pur con il beneficio del dubbio legato al tempo trascorso, per datare quell’incontro. Eccolo: “Avendolo io interrotto su un anello che spiccava su una mano assai curata, così madornale da sembrare d’ordinanza, me ne spiegò il legame - se la memoria non mi inganna- con la morte di sua moglie, e il fresco dolore che ne provava”. Sofri, credo che la memoria l’inganni, fatta salva la possibilità che anche su questo D’Amato le abbia mentito. La moglie di Umberto Federico D’Amato, Ida Melani era sicuramente viva nel 1981, come risulta dalle carte dell’inchiesta di Brescia; è tutto contenuto nell’allegato n. 31 alla relazione del 12 dicembre 2003 con protocollo 24/ b1/4229. Si tratta delle carte tratte dall’inchiesta Argo 16 del giudice Mastelloni. Quelle carte divennero pubbliche pochi mesi dopo il suo articolo, quando vennero depositati, tra gli altri, anche appunti per le memorie che il Prefetto voleva scrivere. Anche quel foglietto pubblicato da Andrea Pacini nel suo volume “Il cuore occulto del potere. Storia degli Affari Riservati”, nel quale il Prefetto, parlando di lei, scrive: “Ci siamo fatti paurose e notturne bevute di cognac”. Ora lei ha detto che quelle sono “cazzate”, che D’Amato venne messo alla porta: “Non ebbi alcun rapporto, ne’ diretto, ne’ indiretto con lui”. Le chiedo di chiarire l’intricata vicenda, spiegando cosa vi diceste e quando avvenne quell’incontro. Unico? Come immaginare un uomo navigato e accorto come D’Amato presentarsi a casa sua per la prima e unica volta e lanciare l’idea di una mattanza a mezzadria?
2. Come mai in mano ad Alberto Caprotti (già componente della commissione finanziamenti del movimento) venne rinvenuta una agenda telefonica contente i numeri telefonici di casa e d’ufficio, riservatissimo, al Viminale, di Umberto Federico D’Amato?
3. Ha mai saputo che il servizio segreto aveva infiltrato dentro Lotta Continua la fonte ‘Como’? Il dottor Guido Salvini ha rintracciato negli archivi del Sismi 47 atti intestati a questa fonte. Riscontrando l’attività informativa con l’indice generale si è raggiunta la certezza che manchino almeno 26 atti. La fonte ‘Como’ non ha prodotto informazioni nel periodo tra il 14 settembre 1971 e il 13 giugno 1972. La fonte era sempre sollecitata e allertata e quindi non si capisce perché non allertare la “fonte qualificata” ‘Como’ a seguire attentamente anche l’omicidio Calabresi. ‘Como’ cessa la sua attività nel 1984 perché muore.
4. E della fonte “Partenope”? Si trattava di una “fonte umana” – dice un rapporto del Sid che a metà del 1973 aveva messo in piedi una vera e propria azione di controllo sul leader socialista Giacomo Mancini: in codice veniva chiamata Azione Mecomio, una specie di mini-Watergate all’italiana, come giustamente la definisce Norberto Valentini ne La notte della madonna. Tutte le telefonate che arrivavano o uscivano dall’ufficio romano di Mancini di via del Babuino 96 erano intercettate: per questo il Sid era a conoscenza dei suoi stretti legami con il gruppo dirigente di Lotta Continua. A conclusione dell’Azione Mecomio, il rapporto del Sid metteva in rilievo che sostegni finanziari giungevano a Lotta Continua dal Psi al quale, a sua volta, arrivavano dal petroliere Nino Rovelli tramite l’allora Capo della Polizia, Angelo Vicari – una strana compagnia di giro. Come si legge nell’ottimo libro di Valentini, pp. 126-7, il rapporto afferma questo: «per lunghi mesi si è atteso alla paziente raccolta di notizie e alla loro elaborazione per poter giungere a una possibile chiarificazione… Tale lavoro ha dato frutti sufficienti per una buona base di partenza per accertamenti futuri che si presentano difficili e delicati. Infatti: in data 21.5.1973, Lionello Massobrio [allora responsabile amministrativo di Lotta Continua] viene convocato dall’onorevole Giacomo Mancini (notizia da fonte certa, materiale conservato) nella sede del Psi in via del Corso; 2 nella stessa serata del 21.5.73, Lionello Massabrio, in una riunione ristretta di dirigenti di Lotta Continua nella sede di via dei Piani 26 ha comunicato ai presenti, convenuti per l’esame della situazione finanziaria del movimento che nella mattinata, la situazione finanziaria era stata rappresentata all’onorevole Mancini che aveva promesso un sostanzioso finanziamento, non escludendo altre fonti di appoggio, avendo molto a cuore la vitalità di Lotta Continua (notizia da fonte umana Partenope)». All’interno di Lotta Continua, dunque, un informatore riferiva puntualmente su quanto si dicevano i suoi massimi dirigenti: il dato assume un enorme rilievo visto che Lc in quei mesi era sotto l’occhio del ciclone dopo l’omicidio del commissario Calabresi.
5. Lei dice nel suo libro che “Lotta Continua prese la sede in via Dandolo, a Roma, per inaugurare il giornale quotidiano, nel marzo del 1972.” Così lei risponde sulla questione dei finanziamenti all’attività del giornale. Marco Nozza ha scritto un bell’articolo su “Gli amici americani di Lotta Continua” che ricostruisce in dettaglio tutta la vicenda. Nel 1968 arriva a Roma Robert Hugh Cunningham, agente Cia che rileva il giornale “Daily American”. A stampare Lotta Continua è la Art Press, quello americano è stampato dalla Dapco. Due cose diverse? No. “Perché i soci della Art Press risultano tre: Cunningham, padre, madre e figlio. Amministratore della Art Press: Cunningham junior. Che si chiama come il padre: Robert Hugh Cunningham”. Nel 1971 presso la cancelleria del tribunale civile e penale di Roma viene depositato un atto in cui due signori accettano di diventare “amministratori della Spa Rome Daily American, con deliberazione ordinaria del 27 settembre 1971”. I due signori si chiamano Matteo Macciocco, il secondo Michele Sindona. Nel 1971, dunque, Sindona succede a Cunningham, quello senior, nella gestione del “Daily American”, giornale che presto fallisce. Nasce il “Daily News”. I proprietari sono Robert Hugh Cunningham senior e junior. Mentre fallisce il “Daily American”, succede che Lotta Continua cambia tipografia e non si fa più stampare dalla Art Press, E’ nata la “Tipografia 15 giugno” di cui sono soci Angelo Brambilla Pisoni, Pio Baldelli, Marco Boato, Lionello Massobrio e un ultimo socio che non è italiano: si chiama Robert Hugh Cunningham junior, il figlio. (Notizie tratte da “Il Giorno” del 31 luglio 1988). Quello che scrive Marco Nozza è vero?
Che dire? Non molto rispetto a quanto già scrissi nel luglio del 2009 >Leggi articolo<.
E’ da poco stata >pubblicata un’agenzia< che preannuncia l’intervista esclusiva a patrizio Peci che uscirà integralmente sul settimanale “Oggi” da domani in edicola. La sostanza è questa. Peci torna sulla vicenda del fratello Roberto, al quale lo scorso anno è stata intitolata la via nella quale nel 1981 fu rapito (l’ex vai Boito ora via Roberto Peci), per rivolgersi alla nipote convinta della non violenta innocenza del padre e dell’infamità di uno zio che, con le sue azioni malvagie, ne decretò la morte.
“Voglio che si conosca tutta la verità, soprattutto che la conosca la figlia di mio fratello. Deve sapere che lui aveva condiviso tutte le mie scelte, dalla lotta armata alla dissociazione. […] mia nipote di suo padre non sa niente. Non è vero quello che pensa o che le hanno fatto credere. Non è vero che c’è stato un fratello infame e uno buono, come Caino e Abele. È un falso storico, avallato purtroppo dal libro di Walter Veltroni L’inizio del buio, che ha scambiato la realtà con la sua immaginazione. […] Eravamo due comunisti rivoluzionari. All’assalto alla Confapi di Ancona, prima che io entrassi nelle Br, ha partecipato anche lui.”
Parole molto dure rispetto alle celebrazioni che di recente sono state fatte in occasione dell'inaugurazione della via intitolata a Roberto Peci. >Video< >Articolo<
Le stesse parole, però, che scrissi nel mio articolo. Ma la figlia di Roberto Peci, Roberta, commentando il mio articolo mi attaccò duramente invitandomi a tacere ed informarmi meglio...
E secondo me non c’era niente di scandaloso, nel senso che era evidente la storia dei due fratelli ed era evidente che pur avendo iniziato insieme un certo percorso le strade si erano divise piuttosto presto e prima che il più piccolo facesse le stesse scelte del fratello maggiore. Chi ha studiato e cercato di capire non può sostenere che Roberto Peci fosse un brigatista, di certo non io. Ma da qui a dire che era un non violento, che non ha mai avuto a che fare con scelte ed azioni violente, ce ne passa. La storia di Roberto Peci può essere assimilata a quella di tanti altri giovani di quegli anni, giovani che hanno creduto di poter combattere il sistema con le armi, che vincere era possibile. In pochi hanno poi portato le loro scelte sino alle estreme conseguenze, in molti, invece, si sono fermati prima del punto di non ritorno (un’azione di sangue o la scelta forzata di entrare in clandestinità).
Nello stesso articolo scrivevo che l’atteggiamento che lo Stato ha sempre avuto nei confronti di questa tragica vicenda è sensibilmente differente dalle altre tante storie di dissociazione e violenza. E quindi mi chiedevo: “E allora sorge il sospetto, che dietro la storia dei fratelli Peci, ci sia qualcosa di ancora indicibile, autorizzato ad altissimi livelli, portato avanti senza scrupoli. Qualcosa che a distanza di 28 anni non può essere ancora rivelato apertamente”. Questo è un altro dei nodi centrali che più in generale riguarda ciò che ha fatto uno dei protagonisti centrali della vicenda, ossia lo Stato. Cosa ha fatto in quegli anni? Perché dovremmo credere nella sua “candida innocenza”, nella sua totale estraneità a qualsiasi addebito? Di cose poco chiare sul comportamento delle Istituzioni in quegli anni ce ne sarebbero tante. Qualcuno dirà che eventuali “forzature” sono state fatte nel tentativo di perseguire il fine ultimo di sconfiggere la lotta armata. Ma poiché le azioni di contrasto sotterraneo sono iniziate ben prima della nascita dei fenomeni eversivi (piazza Fontana docet) occorrerebbe approfondire meglio come si siano evolute le strategie dello Stato negli anni ’70 e a che punto sono arrivate. Ma questo è un altro discorso.
Non ho avuto niente in contrario sul fatto che sia stata intitolata una via a Roberto Peci, anzi. Può essere un serio tentativo di capire meglio quegli anni, che c’è stata davvero una buona parte di una generazione di giovani che hanno pensato di ribellarsi, che l’hanno fatto senza essere pilotati o eterodiretti, che in gran parte ha capito che non fosse la scelta giusta e che in alcuni casi (come Peci) hanno pagato un prezzo altissimo per questo loro percorso.
Ma senza travisare la realtà, senza scambiare “la realtà con la sua immaginazione”. Questo non è corretto e non porta da nessuna parte.
Non sono un esperto della vicenda piazza Fontana e quindi non entrerò nel merito "tecnico" del dibattito. In questo articolo, oltre che riaggregare i vari momenti dell’attacco di Sofri al libro di Paolo Cucchiarelli “Il segreto di piazza Fontana” ed il successivo film “Romanzo di una strage” di Marco Tullio Giordana, vorrei fare una riflessione sulle modalità di questo dibattito, e da quale punto di vista sia portato avanti. Con l’obiettivo preciso, ed evidente a tutti, di non far capire.
Da anni sostengo che sia necessario richiudere quella ferita comunemente nota come “anni di piombo” (definizione che non condivido in quanto generalizzata e che non aiuta a comprendere la storia). Non per esercizio storico e neanche perché su quel periodo debba calare l’oblio ma, al contrario, perché dobbiamo liberarci da quelle strumentalizzazioni che imbrigliano la vita politica semplificandola a divisioni curva nord-curva sud (che portano ai disastri che tutti abbiamo sotto gli occhi) e anche perché dobbiamo consegnare alle future generazioni una verità condivisa che non sia solo quella scritta nei tribunali di Stato, dove si tende a dividere i buoni dai cattivi, anche perché in genere i buoni sono tali finché restano al di là di una linea sottile che può spostarsi anche a causa di un solo documento… Ma la storia e la politica sono più complesse di un’aula di Tribunale.
Questa mancata conciliazione con quegli avvenimenti (e la conseguente verità storico-politica di cosa avvenne a livello di personaggi, organizzazioni, istituzioni e classe politica ed intellettuale in genere) fa si che si debba assistere, accompagnati da un profondo senso di voltastomaco, a patetiche interpretazioni da operetta portate avanti da personaggi di Stato nel cui club, evidentemente, possiamo iscrivere “ad honorem” il buon Adriano Sofri. Pensate ad immaginare (io non ci sono riuscito) cosa accadrebbe se il 16 marzo di un qualunque anno, su un quotidiano nazionale, Renato Curcio scrivesse un lungo articolo per contestare la tesi di un’inchiesta che tenta di portare nuovi elementi che permettono di guardare l’agguato ad Aldo Moro ed alla sua scorta da un nuovo punto di vista. Magari un po’ più scomodo per molti personaggi in causa. E magari un certo gruppo di “penne” famose si accodasse alle parole di Curcio.
Voi direte. «Ma che c’entra, Curcio è il fondatore delle BR, è parte in causa, ha una diretta responsabilità nel percorso che portò le BR dalla loro nascita fino all’agguato…». Sofri, è bene ricordarlo, è stato condannato a 22 anni come mandante dell’omicidio del commissario Calabresi, dalla cui finestra la notte del 15 dicembre 1969 “volò” Pino Pinelli, anarchico fermato dalla polizia e trattenuto illegalmente in Questura (erano abbondantemente scaduti i termini del fermo) a seguito delle indagini per la bomba alla BNA di piazza Fontana a Milano (e le altre trovate sia a Milano che a Roma il 12 dicembre 1969). Sofri si è sempre dichiarato innocente rispetto all’accusa ma, a differenza di altri, non è scappato all’estero e ha scontato tutta la pena infittagli: il 16 gennaio di quest’anno il Tribunale di Firenze ha firmato il provvedimento di fine pena. Nel 2009, in un’intervista al Corriere della Sera si è assunto la corresponsabilità morale di quella tragedia.
Tanto per dirla fino in fondo, Sofri ha anche scritto un bel libro sulla vicenda Pinelli (La notte che Pinelli) che però si conclude con un inaspettato “Non so” proprio sulla domanda più importante: cosa accadde quella notte? Proprio da lei, Sofri, non ce l’aspettavamo. Un gesto da coniglio per lei che dalle pagine di Lotta Continua promosse una feroce campagna contro il commissario con frasi del peso di “Calabresi sarai suicidato”. E come dimenticare l’articolo del 20 dicembre 1969 intitolato "Bombe finestre e lotta di classe", dove confutò la versione ufficiale del suicidio paragonando la morte di Pinelli ai crimini dello stalinismo e del fascismo? In quello stesso articolo Sofri trasse spunto dalle intenzioni politiche della bomba per legittimare la lotta , anche violenta, del “Proletariato e delle Classi subalterne”.
Quindi lei è parte in causa, ci sta dentro fino al collo, nella vicenda di piazza Fontana che ingloba sia l’assassinio di Pinelli che quello di Calabresi.
Ad oggi lo Stato non sa, o quanto meno sa ma non è stato in grado di punire i responsabili di quelle bombe del 12 dicembre. Si sa che sono bombe di destra, messe da militanti riconducibili all’organizzazione Ordine Nuovo con la complicità di settori “deviati” dei servizi segreti all’epoca sotto il controllo dei militari. Piccola parentesi. Non esistono i “servizi deviati”. I servizi segreti fanno quello che devono fare anche se questo cozza con l’interesse di molti e risponde alle logiche di pochi, obbediscono a degli ordini, fanno il lavoro sia pulito che sporco. Solo quando queste cose vengono a galla, la protezione dei vertici che hanno diretto l’orchestra rende d’obbligo l’aggiunta dell’aggettivo deviati e giustifica le epurazioni di facciata che non cambiano nulla nella sostanza. Chiusa parentesi.
Lei, Sofri, difende questa tesi. Perché? Cosa cambia nella sua percezione sensoriale di quegli avvenimenti e di quegli anni se le cose fossero andate diversamente?
E se un giornalista serio, competente, autonomo come Paolo Cucchiarelli, che non deve difendere nessun interesse né personale né di amici porta a termine un’inchiesta nella quale ci sono elementi nuovi, messi assieme in una logica del tutto nuova che porta ad uno scenario diverso da quello di cui lei si fa garante, è automatico che debba essere insultato, denigrato offeso sia personalmente che professionalmente. Eh si, perché una cosa è criticare altra cosa è attaccare sulla base di forzature maliziose di letture parziali di parti dell’inchiesta.
Lei, Sofri, è anche un vile. Perché non ha contestato le tesi del libro quando uscì, ossia nel maggio del 2009? Perché allora non conveniva, sarebbe equivalso a pubblicizzarlo e quindi a rendere più imbarazzanti alcune complicità. Ma quando Marco Tullio Giordana, regista serio e rispettabile, decide di mandare nelle sale un film come “Romanzo di una strage” che si ispira all’inchiesta di Cucchiarelli (pur discostandosi in alcuni punti non minori) allora il problema non è più la tesi dell’inchiesta ma il fatto che questa sia fruibile dal grande pubblico. E’ questo il nodo ed è questo che le fa scattare l’odio che traspare dalle sue parole. Quindi a lei, Sofri, non interessa nulla della verità ma solo l’opportunità delle cose e la loro strumentalizzazione.
Lasciamo stare la presunta responsabilità che Cucchiarelli attribuisce a Valpreda ed all’innocuo “petardo” che avrebbe messo nella BNA. Vediamo, invece, la trappola che ad insaputa del ballerino anarchico sarebbe scattata secondo una logica (quella del raddoppio), un modulo operativo che i servizi segreti avrebbero messo in atto in una classica operazione “false flag”. Questa trappola, organizzata da chi ai vertici militari auspicava per l’Italia una svolta autoritaria simile a quella che solo due anni prima portò la Grecia in mano ai colonnelli o quattro anni dopo il Cile in mano a Pinochet, fu scoperta e fu proprio Aldo Moro a bloccare le tentazioni del Presidente del Consiglio Rumor e della Repubblica Saragat di proclamare qualsiasi stato di emergenza che potesse favorire quel disegno eversivo. Quindi la politica sapeva, le istituzioni sapevano ma non denunciarono. E perché? Forse perché dietro tutto c’era la mano fin troppo evidente della CIA che sia in Grecia che, successivamente in Cile, non intervenne direttamente ma pilotò i golpe attraverso le forti influenze che aveva nei due Paesi? E non è stato proprio il Generale Maletti, recentemente, a denunciare la limitata sovranità dell’Italia su ciò che riguardava gli interessi degli americani nel nostro Paese e quindi il controllo della nostra “democrazia”?
E che cosa ci dice poi di tale Robert Hugh Cunningham junior che figura tra i soci della “Tipografia 15 giugno” e che, assieme al padre omonimo era dietro a tutte le tipografie che stampavano Lotta Continua? Entrambi i Cunningham erano referenti della CIA in europa tanto da essere nominato (il figlio) responsabile del partito repubblicano in Europa per l'informazione dal neoeletto presidente Reagan. Strana coincidenza, davvero.
Chi difende a spada tratta, senza discutere, senza dialettizzarsi, la verità di Stato (che, si badi bene, verità non è perché si parla solo di ipotesi e presunzioni), è un “Uomo di Stato”. E lo è nel senso delle responsabilità che tale ruolo comporta, nel dover misurare le parole, nel dover distogliere dalla verità per un senso del dovere che deve portare alla tutela del bene comune rispetto all’interesse personale.
Perché contesta così in maniera così accalorata l’ipotesi di un modulo operativo del raddoppio che avanza Cucchiarelli? Forse perché lei stesso ne fu vittima inconsapevole e se ne è accorto troppo tardi? Troppo tardi per denunciarlo (il punto di non ritorno era stato già superato), troppo tardi per “sputtanarlo” (ne sarebbe crollata un’immagine ed una verginità di presunta autonomia da farvi passare tutti per coglioni) ma mai troppo tardi per difenderlo tutelando il segreto.
Per tornare a scomodare renato Curcio, ricorderà quella famosa intervista a Frigidaire (eravamo degli anni ’90, quindi a guerra abbondantemente finita) nella quale il fondatore delle BR lanciò la sua spiegazione sull’impossibilità di chiudere con quel passato di arrivare a capire come sono andate realmente le cose in vicende come piazza Fontana e Calabresi per una “sorta di complicità fra noi e i poteri, che impediscono ai poteri e a noi di dire cosa è veramente successo. Quella parte degli anni ’70, quella parte di storia che tutti ci lega e tutti ci disunisce, cose che noi non riusciamo a dire perché non abbiamo le parole e le prove per dirle, ma che tutti sappiamo.”
Forse Curcio (essendo estraneo a quelle vicende) non ha le parole o le prove. Ma lei, caro Sofri, sicuramene non ha le palle per dirlo.
E ci sono due modi per accettare la propria impotenza: o chiudersi non affrontando più l’argomento oppure fare il salto della barricata per cercare un riconoscimento politico che è l’unica cosa che può chiedere ancora alla storia.
Lei ha detto che su piazza Fontana avrebbe rivelato quello che sapeva, ma al momento giusto. Credo che quel momento sia arrivato e non si possa più attendere.
Sarebbe un suo dovere morale nei confronti di tutti quei ragazzi che l’hanno vista come un maestro e di cui porta (almeno in parte) la responsabilità delle scelte, nei confronti delle vittime, nei confronti dell’intero Paese se è vero che il suo obiettivo all’epoca (e quello di tutti gli altri militanti della sinistra extra parlamentare) era quello di costruire una nuova società, non semplicemente cambiare le regole a quella esistente.
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