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Chi controlla il passato controlla il futuro; chi controlla il presente controlla il passato

George Orwell
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Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
Di Manlio  14/05/2008, in Attualità (6244 letture)

Venerdi 9 maggio, in concomitanza con il trentesimo anniversario dell’uccisione di Aldo Moro e della prima giornata nazionale a memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi, il settimanale “Panorama” ha pubblicato un’intervista esclusiva a Luigi Cardullo, ex direttore del super carcere dell’Asinara.
Cardullo fa riferimento alle intercettazioni ambientali che il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa aveva chiesto di effettuare per ascoltare i brigatisti detenuti nelle loro conversazioni all’interno degli spazi comuni.
Sebbene di queste intercettazioni ne sia venuta alla luce una sola (leggi il rapporto della DIGOS) che l’ex Direttore attribuisce ai brigatisti Naria e Fantazzini (?), Cardullo parla di un lungo periodo di ascolto durato dalla metà del ’78 alla fine del 1980, data in cui lasciò il carcere. Poco dopo cominciarono le sue grane giudiziarie finendo sotto inchiesta e condannato a 5 anni per corruzione e truffa, accuse dalle quali egli ha sempre proclamato la sua innocenza.

Le intercettazioni, chieste dal Generale Dalla Chiesa e dai capi dei servizi Grassini e Santovito, hanno dato la possibilità a Cardullo di venire a conoscenza di tre personaggi che erano in contatto con i vertici brigatisti ma che non sarebbero mai stati sfiorati da nessuna indagine. Questo, sottolinea Cardullo, nonostante delle informazioni raccolte furono informati sia Dalla Chiesa che i capi dei servizi.
       
Carlo Alberto Dalla Chiesa e Giuseppe Santovito

Cardullo non si è preso la responsabilità di fare i nomi di questi personaggi ma ha fornito un identikit che solo avendo i paraocchi non è possibile collegare alle rispettive persone. Queste le descrizioni dettagliate che Cardullo ha riportato a Giovanni Fasanella.
Un senatore del PCI detto “il vecio”, deputato nel ’58 e senatore nel ’63, partigiano, dirigente internazionale del Soccorso Rosso. Una donna di cultura detta “la zia”, dirigente del Soccorso Rosso italiano, donna di cultura molto in vista. Un alto ed insospettabile magistrato che lavorava al Ministero della Giustizia nella stessa stanza del giudice D’Urso che fu assassinato in un paese arabo e la cui vicenda fu archiviata.

Questa intervista ci pone di fronte ad una serie di problemi.
L’ovvietà sta nel fatto che qualcuno potrebbe essere tentato di iniziare la già vista crociata contro il culturame e gli intellettuali additandoli come causa e fattore di sviluppo del fenomeno della lotta armata nel nostro Paese. Mi sembra talmente banale che le BR avessero dei referenti molto in alto che sarei tentato di non perdere tempo ed andare oltre. Ma vi sembra che un’organizzazione che ambisce a fare la rivoluzione “costruisca la presa del potere” sull’operaio Cipputi e non si preoccupi di infiltrarsi nei Palazzi del Potere per costruire la propria rete di supporto?
E non mi scandalizza che delle persone che ricoprivano cariche importanti nello Stato (poche o molte, questo non sono in grado di stimarlo) abbiano potuto ritenere di appoggiare il progetto brigatista. Sicuramente non più di quanto mi possa indignare il fatto che, è questo è appurato e ampiamente documentato, altri personaggi chiave della nostra democrazia abbiano lavorato per conto di interessi ben diversi da quelli per cui hanno prestato giuramento (alludo ai vari depistaggi, alla massoneria, alla Gladio all’estero, ecc.).

Gli elementi più importanti che, secondo me, emergono dall’intervista sono almeno due.

In primo luogo, è giusto che un’intervista possa articolarsi sulla tecnica dell’indovinello facendo si che ad affermazioni così gravi non corrisponda un equivalente livello di assunzione di responsabilità? Sono certo che Fasanella abbia chiesto a Cardullo i nomi e tenderei ad escludere il fatto che l’ex Direttore non li abbia fatti in sede privata. Ma a questo punto è anche lecito chiedersi a cosa sia realmente servita questa intervista se non ad alzare l’ennesimo polverone che non contribuirà ad aggiungere chiarezza ma a scatenare nuove polemiche...
Per il momento nessuno ha ripreso la notizia. Non mi risulta che qualche giornale o qualche blog si sia espresso in merito.

In secondo luogo, la chiave per leggere la vicenda credo sia da ricercarsi nella frase “erano a conoscenza...”.
Se è vero che all’epoca l’antiterrorismo (e quindi Dalla Chiesa) aveva “pieni poteri” e quindi l’obbligo di riportare esclusivamente al Presidente del Consiglio e la stessa logica valeva per i servizi, ci chiediamo: “L’informazione non fu trasmessa o fu bloccata ai livelli più alti?”. E di conseguenza: “L’informazione non fu utilizzata perché qualcun altro era a sua volta filobrigatista o perché costoro non avevano interesse a scavare e risalire a certi livelli?”.

Cominciano a delinearsi scenari di cui si è sempre sospettata l'esistenza ma che sono sempre stati affrontati con troppa leggerezza, avvolgendo le responsabilità degli uomini di Stato dentro la facile coperta della "deviazione" o della "fermezza".
Per giustificare e per sotterrare.
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Il Sussidiario.net, intervista a Francesco Cossiga (02/05/2008)

La peculiarità del Sessantotto italiano, come notano diversi osservatori del fenomeno, è quella di essere durata un decennio. E il tramonto di quel decennio coincide con l’alba tragica degli anni bui della lotta armata. I violenti scontri del ’77, prima, e poi l’evento culmine degli “anni di piombo”: il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro.
Uno dei protagonisti indiscussi di quegli anni è Francesco Cossiga; o, meglio, “Kossiga”, con doppia esse in stile gotico (a richiamare le SS naziste). Così, infatti, figurava sui muri il nome dell’allora ministro degli Interni, dopo la repressione dei fatti di Bologna del 1977, quando negli scontri tra polizia e manifestanti perse la vita il militante di Lotta Continua Pierfrancesco Lorusso (gli scontri, vale la pena ricordarlo, furono generati dal tentativo, da parte di Autonomia Operaia, di interrompere un convegno organizzato dagli studenti Comunione e Liberazione; in seguito alla repressione, gli stessi “ciellini” furono fatti oggetto di una serie di minacce e attentati). L’anno successivo, poi, i 55 giorni del caso Moro; Francesco Cossiga era ancora ministro, e, dopo l’uccisione di Moro, rassegnò le dimissioni.
Allo stesso Cossiga ilsussidiario.net ha chiesto di riportare per un istante lo sguardo su quegli anni.

Presidente Cossiga, guardiamo al passaggio dal Sessantotto alla lotta armata: quali sono gli elementi di continuità e quali invece gli elementi di rottura? Il ’68, cioè, si evolve naturalmente in violenza (perché ideale già violento all’origine) o c’è stata in mezzo una frattura?

Certamente c’è stata una frattura, perché solo una minima parte dei teorici e dei protagonisti del Sessantotto si è data poi alla lotta armata. Ma c’è anche un elemento di continuità: da una parte la “violenza” faceva parte della cultura del Sessantotto, almeno la “violenza” teorica contro il potere, contro le convenzioni, contro l’“autoritarismo” che veniva esercitato in diversi ambiti: nella società, nello Stato, nella scuola, nella famiglia e anche, per le frange cattoliche, nella Chiesa.

Lei ha dovuto gestire in prima persona il problema della violenza di quegli anni: ritiene la sua una posizione privilegiata o di svantaggio per capire il fenomeno?

Mi sono certamente trovato in una posizione che definirei tragicamente privilegiata



Cosa riafferma di ciò che ha fatto politicamente per arginare il fenomeno terroristico di quegli anni? Cosa invece rinnega, o non rifarebbe se tornasse indietro?

Credo di essermi comportato in fedeltà allo Stato e alla morale, e farei anche oggi le scelte che ho fatto allora. Mi è rimasta però una domanda, riguardo ai provvedimenti adottati in quegli anni: la dura repressione dei movimenti dell’Autonomia, culminati nella “rioccupazione” di Bologna del 1977 e nel fallimento del “convegno contro la repressione”, considerato che si trattava di movimenti che certo usavano la violenza ma non nelle forme e con l’intensità del terrorismo di sinistra, non può aver spinto gli stessi militanti dell’Autonomia verso la lotta armata?

Avere la responsabilità che lei ha avuto nel periodo più buio della storia della Repubblica è un peso difficilmente immaginabile per chi non l’ha vissuto: che cosa l’ha sorretta in questo? E soprattutto che cosa l’ha sorretta dopo la tragica capitolazione del rapimento Moro?

Anzitutto mi ha sorretto la volontà di servire lo Stato in solidarietà con i “ragazzi” delle forze dell’ordine e nel rispetto dei caduti e del dolore delle famiglie e la volontà di operare perché tutto avesse fine: e ciò secondo una coscienza formata religiosamente dalla Fede e laicamente dal “patriottismo repubblicano”. La morte di Moro, poi, l’ho vissuta come una mia sconfitta, ed anche come la dolorosa conseguenza di una scelta tragica, ma necessaria.

Che cosa ci portiamo ancora addosso di quegli anni?

Il dolore per i caduti e le famiglie offese, insieme anche al dolore per i militanti della lotta armata, che hanno gettato via la loro giovinezza.
E, infine, la mancata risposta alla domanda: «Perché è successo?»
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Di Manlio  23/04/2008, in Interviste (4281 letture)
Giuliano Boraso lo abbiamo già ascoltato circa un anno fa in relazione al progetto brigaterosse.org che porta avanti assieme all’amico Tommaso Fera. Nicola Biondo ho avuto il piacere di conoscerlo in occasione della nuova edizione di Vuoto a perdere e le sue riflessioni mi sono state molto utili nel far emergere la controversa vicenda relativa al ruolo di informatore di Ronald Stark.
Sono entrambi profondi conoscitori dei fenomeni eversivi, entrambi hanno pubblicato un libro di peso: Mucchio Selvaggio (Boraso, Castelvecchi 2006), l’unica storia completa di Prima Linea non narrata dal punto di vista dei protagonisti e per questo obiettiva e documentata e Una primavera rosso sangue (Biondo, Edizioni Memoria 1998), un tentativo riuscito di rimettere a posto tutti i documenti emersi sino al momento sul caso Moro per evidenziare come non sia possibile riorganizzare la conoscenza della vicenda per giungere ad una sola chiave interpretativa.
Giuliano e Nicola sono i protagonisti dell’operazione più importante del trentennale del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro, una ricorrenza diventata evento di marketing per autori, registi e giornalisti impegnati più a “guardare il dito e non la luna”.
Se non ci fossero stati loro, le loro competenze ed il loro lavoro umile e silenzioso, oggi non avremmo l’importante testimonianza di Steve Pieczenik e staremmo ancora a credere che ad uccidere Aldo Moro siano state la linea della fermezza e la sola volontà dei brigatisti.
Un documento del genere avrebbe provocato un terremoto di interrogazioni parlamentari, richieste di riapertura di indagini, fine di carriere politiche. Se non fosse che in Italia quella storia è in ostaggio di una “cricca di giornalisti e storici che si contano sulle dita di una mano e che determinano l’agenda del dibattito”.
E’ triste, ma è così. Non si può ancora parlare dei comportamenti dello Stato, delle decisioni, delle omissioni, delle trame che, parallelamente al progetto brigatista, hanno fatto si che qualcuno potesse perseguire interessi politici ed economici facendone cadere la responsabilità esclusivamente sulle Brigate Rosse.
Ed è disarmante la risposta che mi ha recentemente fornito un assoluto protagonista (da parte dello Stato) di quelle vicende, solo pochi giorni fa, quando alla mia domanda: “Ma perchè non parli, ormai una serie di cose le abbiamo capite” ha gelidamente risposto “No, non si è capito proprio nulla. Sono passati troppo pochi anni per parlarne...”


1. Ci può raccontare la genesi di questo importante lavoro editoriale?

Boraso: Tutto ha inizio negli ultimi giorni del 2006, quando sul forum del sito che curo insieme a Tommaso Fera, www.brigaterosse.org, un utente che si firma Pino pubblica un messaggio nel quale spiega di aver letto l’edizione francese del libro di Emmanuel Amara (uscito in Francia da un paio di mesi), concludendo il suo post con la domanda: «Che cosa si aspetta a parlarne in Italia?».
A quel punto cominciamo a informarci sul libro. Lavorando per uno studio editoriale, Oblique Studio, sono interessato alla faccenda anche da un punto di vista professionale. Compriamo una copia del libro su www.amazon.fr, lo leggiamo e, dato l’effettivo interesse dei contenuti dell’intervista di Pieczenik, verifichiamo se qualche editore è interessato a pubblicare il libro di Amara. Contatto Nicola Biondo che, oltre a essere un amico, è uno dei più affidabili e competenti esperti del caso Moro. Nei mesi successivi, siamo intorno alla primavera de 2007, l’Unità e il settimanale Left dedicano un paio di articoli al libro che però non ha ancora trovato una sua casa editrice italiana. Sembra incredibile, ma non riusciamo a incontrare l’interesse degli editori italiani. Fino a quando un giorno Nicola mi chiama, dicendomi che la casa editrice Cooper vuole pubblicare il libro. Siamo a dicembre, è passato esattamente un anno dal messaggio di Pino. Tre mesi di lavorazione e Abbiamo ucciso Aldo Moro è in libreria in coincidenza con il trentesimo anniversario del sequestro di Aldo Moro.


2. Quali difficoltà avete incontrato per adattare l’edizione francese al contesto italiano?

Boraso: Innanzitutto difficoltà legate ai tempi di lavorazione, molto stretti. Se pensiamo che i diritti del libro sono stati comprati a fine dicembre, poco prima delle vacanze natalizie, e che tra dicembre e gennaio il libro è stato tradotto da Alice Volpi, curato da Nicola con la realizzazione di un apparato di note fondamentale per il pubblico italiano, editato e impaginato, ci rendiamo conto che essere riusciti a farlo uscire nella prima metà di marzo è stato un bel colpo.
Non dimentichiamo poi che Amara ha scritto un libro per un lettore francese, sicuramente meno competente in materia rispetto al lettore italiano. Il lavoro di Nicola in tal senso è stato di fondamentale importanza: l’apparato di note ha permesso di integrare le informazioni trasmesse da Amara con una serie di acquisizioni documentali e storiografiche successive all’uscita del libro in Francia e indispensabili per il pubblico di lettori italiano.
C’è poi stato un lavoro di verifica della trascrizione delle interviste contenute nel libro, che si basa per gran parte su una serie di testimonianze orali raccolte dall’autore. Amara ci ha fatto avere le registrazioni audio delle interviste. E noi ci siamo preoccupati di verificarne e garantirne la fedeltà, anche in considerazione del fatto che si tratta di un libro tradotto.


3. Pellegrino, nell’introduzione, parla di “lettura nuova e per più profili sconvolgente” dei fatti noti…

Boraso: “Nuova” e “sconvolgente”: Pellegrino non poteva scegliere aggettivi più appropriati. Peccato che sia uno dei pochi a essersene accorto. Sconvolgenti non sono solo le rivelazioni di Pieczenik. Sconvolgente è il fatto che su quel libro non si sia aperto un dibattito, che sia passato praticamente inosservato sui mezzi di comunicazione di massa, salvo rare eccezioni. Sconvolgente è il fatto che in questo paese il dibattito storiografico sul caso Moro e sugli anni di piombo in generale sia monopolio esclusivo di una cricca di giornalisti e storici che si contano sulle dita di una mano e che determinano l’agenda del dibattito, stabilendo ciò che può esserne oggetto e ciò che invece deve esserne escluso.
Per le più svariate ragioni che non sempre hanno a che fare con il valore storico e documentale del contributo in questione.


4. Cosa ritiene abbia portato di nuovo questa intervista nella discussione sul lato oscuro dello Stato nella vicenda Moro?

Boraso: Pieczenik descrive i 55 giorni del sequestro Moro dall’interno del comitato di crisi istituito dal Governo italiano. Racconta, con una lucidità e un pragmatismo tutto americano, come il Governo italiano abbia deliberatamente scelto di sacrificare la vita di Moro per un calcolo politico, per quella che il consulente americano chiama “ragion di Stato”. In sostanza, Pieczenik conferma dalla sua viva voce tutto quello che già sapevamo, ma che nessuno aveva mai avuto il coraggio di mettere nero su bianco o di svelare davanti a una telecamera.
Cosa produce tutto questo nel “dibattito storiografico” in corso? Niente. Zero. Al massimo un’alzata di spalle. Un sorrisetto ironico. Un buffetto. Questo paese è precipitato in un abisso di cinismo e di indifferenza, mali che fino a pochi anni fa erano confinati solo in certi ambienti e che ora sembrano essere invece trasversali e distribuiti ovunque. In occasione dell’anniversario del 16 marzo, Rai Tre ha trasmesso una puntata del programma “Enigma” interamente dedicata al caso Moro durante la quale l’episodio della seduta spiritica dei professori bolognesi è stata definito “verosimile” e all’analista statunitense Edward Luttwak veniva permesso di dire ogni fesseria senza il benché minimo contraddittorio.
Non so quale contributo il libro di Amara abbia portato. Di certo ha confermato che stiamo vivendo un momento storico nauseante.


5. Dal punto di vista delle fonti, quanto può essere ritenuto importante questo documento-intervista?

Biondo: Il lavoro di Amara si basa su una serie di interviste in video: a uomini politici, ad ex brigatisti, a studiosi. È una buona occasione, sia per un lettore esperto che per uno meno aduso a questi argomenti, di farsi un’idea. Non c’è alcun dubbio che l’intervista a Steve Pieczenik è di grande importanza e sostanzia il titolo del libro. Ma in fondo “ad aver ucciso Aldo Moro” hanno concorso in tanti e il libro di Amara riesce, attraverso le voci dei protagonisti, a raccontare questa tragedia italiana. Forse proprio perché si trovavano di fronte a un giornalista straniero, gli intervistati si sono sentiti “più liberi” di scavare nei propri ricordi. Il racconto di Pieczenik entra a pieno titolo nella ricostruzione generale sul caso Moro, ma sopratutto sulle modalità con le quali lo Stato italiano ha combattuto il terrorismo italiano. Che l’inviato americano affermi davanti a una telecamera che Moro doveva morire con le sue rivelazioni è senza dubbio una testimonianza che non può essere licenziata con un’alzata di spalle.


6. Qual è stata la prima impressione nella lettura delle dichiarazioni di Pieczenik?

Biondo: Non sono rimasto sorpreso. Le verità dell’esperto americano sono senza dubbio degne dell’Italia di Machiavelli o di Andreotti o dell’America di Henry Kissinger. La frase che più mi ha colpito è questa: “Moro era disperato e avrebbe sicuramente fatto delle rivelazioni piuttosto importanti ai suoi carcerieri su uomini politici come Andreotti. È in quell’istante preciso che io e Cossiga ci siamo detti che bisognava cominciare a tendere la trappola alle Brigate Rosse. Abbandonare Aldo Moro e fare in modo che muoia con le sue rivelazioni”. Quanto racconta Pieczenik lo avevamo sospettato in molti, altri lo temevano. Io credo che la sua testimonianza andava proposta ai lettori italiani. Mi ha colpito molto vedere nel documentario di Amara il Presidente Cossiga guardare nel televisore del suo studio il viso e la voce del “suo” consulente che raccontava tutto questo.
Peraltro non una delle affermazioni di Pieczenik contrasta con le acquisizioni processuali e documentali, anzi trova piena conferma in esse. Punto primo: altri consulenti del Ministero dell’Interno, nello stesso comitato di Pieczenik affermano che Moro avrebbe dovuto accettare di morire. E’ il caso del professore Vincenzo Cappelletti che in Commissione Stragi ha affermato: “Di fronte a queste inattesissime lettere di Moro, la gente fu colta da un enorme stupore. [...] Io ne ricevetti una profonda delusione morale [...] perché Moro doveva accettare di morire, anche se ovviamente aveva tante ragioni dalla sua parte in quanto era stato rapito; tuttavia, a mio avviso egli avrebbe dovuto accettare di morire. Se erano veri i valori in cui Moro credeva, egli avrebbe dovuto accettare di morire”.
Punto secondo: da tempo è noto che il comunicato del lago della Duchessa non proviene dalle Br. E soprattutto, non è un’operazione fatta a fin di bene, come qualcuno in modo disinvolto afferma. Quel comunicato era una minaccia nei confronti dei brigatisti ma anche nei confronti dell’ostaggio. Basta rileggerlo: l’ideatore di quel volantino fa riferimento ai membri della Baader Meinhof, un gruppo armato tedesco di estrema sinistra, i cui membri sono morti in carcere. Nel 1978 era opinione comune che fossero stati uccisi dalle forze di polizia come rappresaglia dopo che i loro compagni avevano ucciso, dopo averlo sequestrato, il capo della Confidustria tedesca Martin Schleyer. L’autore del volantino accosta la morte violenta dei componenti della Baader Meinhof a quella dei brigatisti che detengono Moro. Nel comunicato si afferma anche che “il corpo di Moro si trova nelle acque limacciose del lago della Duchessa (ecco perché si dichiarava impantanato)”. In una lettera al ministro Cossiga Moro scrive indirizzandosi ai suoi amici della DC “Che Iddio vi illumini per il meglio, evitando che siate impantanati in un doloroso episodio, dal quale potrebbero dipendere molte cose.” Secondo Aldo Moro, il rischio di essere impantanati riguarda i dirigenti della Dc nel momento in cui non si impegnassero nella sua liberazione. Liberazione che, scrive Moro, sarebbe auspicabile “in nome della ragione di Stato, visto che, “io mi trovo sotto un dominio pieno e incontrollato”. In questa lettera è Moro a indicare alla Dc le vie di una possibile soluzione al suo rapimento. Chi scrive il falso comunicato manda una risposta direttamente al presidente della Dc: è lui a essere “impantanato”, e non i dirigenti del suo partito. È una risposta chiara, definitiva e minacciosa. Infatti l’esperto americano dice che il suo obiettivo era “lasciare morire Moro con le sue rivelazioni”.
Terzo punto: è un fatto che gli scritti di Moro sono stati amputati dagli stessi brigatisti e poi da chi li ha trovati la prima volta. La versione del memoriale che viene ritrovata solo nel 1990 risulta in alcuni punti ancora incompleta. E anche su questo punto i fatti confermano quanto dice Pieczenik: le rivelazioni di Moro dovevano essere oscurate. Quarto e ultimo punto: vi furono trattative, dice Pieczenik, con l’obiettivo di intrappolare le Br e costringerle a uccidere l’ostaggio. Nel comunicato numero 4 del 10 aprile le Br scrivono: “Denunciamo come manovre propagandistiche e strumentali i tentativi del regime di far credere nostro ciò che invece cerca di imporre: trattative segrete, misteriosi intermediari, mascheramento dei fatti.”
Servono altre conferme? Secondo me sì, l’americano dice anche molte altre cose ma sui punti fondamentali, la versione di Pieczenik si incastra perfettamente con i dati di fatto ormai acquisiti.


7. Cosa, secondo lei, Pieczenik avrebbe potuto aggiungere al suo racconto?

Biondo: Sicuramente molte altre cose. Pieczenik racconta che per raggiungere il suo obiettivo venne deciso di far venir fuori un falso volantino brigatista. Ciò avvenne il 18 aprile del 1978 con il comunicato numero 7 che indicava in uno sperduto lago dell’Abruzzo il luogo dove si trovava il corpo del Presidente della DC. Fu una trappola, dice Pieczenik, che aggiunge che a quel punto le Br non potevano fare altro che ucciderlo. Ecco, io credo che la versione di Pieczenik non spiega molte cose. Come poteva immaginare che le Br solo in virtù di quel comunicato avrebbero ucciso Moro e blindato le sue rivelazioni? Io sono dell’idea che la scoperta del covo di via Gradoli, ad esempio, è un’altra delle “trappole”. Lo stato ha agito con l’obiettivo fissato da Pieczenik: far morire Moro e le sue rivelazioni. Per fare questo ha intrappolato le Br con una serie di escamotage, tipo quello del falso comunicato numero 7. E probabilmente con altre operazioni di accerchiamento. Con buona pace di autorevoli commentatori i fatti dimostrano che l’allagamento che porta alla scoperta del covo di via Gradoli fu di natura dolosa. Le foto scattate dalla polizia all’interno del covo non dimostrano nulla se non l’insipienza di chi vorrebbe utilizzarle per dimostrare il contrario. La testimonianza della prima persona che entra nel covo, il vigile del fuoco Leonardi, dimostra che quell’allagamento fu doloso. Nel libro di Amara, cito in nota il verbale del suo interrogatorio al processo Moro in cui si legge:
“PRESIDENTE Questa doccia come era tenuta?
LEONARDI Su un manico di scopa.
PRESIDENTE Il rubinetto era aperto o guasto?
LEONARDI Era aperto. Noi lo abbiamo chiuso. Siamo stati chiamati dall’appartamento di sotto perché quest’acqua filtrava nel muro.
PRESIDENTE Questo per noi ha una certa importanza. Lei ha trovato, quando è entrato, il rubinetto della doccia aperto. Questa doccia era trattenuta da un manico di scopa e l’acqua filtrava dal rubinetto della doccia attraverso una fessura del muro?
LEONARDI Sì.
PRESIDENTE Lo scarico della vasca era aperto?
LEONARDI Sì.
PRESIDENTE Ora le farò vedere le foto, sono i rilievi della polizia. La mia domanda è semplice: se la doccia fosse rimasta in posizione normale, avrebbe scaricato nella vasca? Non era otturato lo scarico?
LEONARDI No, l’acqua defluiva.
PRESIDENTE La particolarità era che invece di defluire nello scarico defluiva sul muro?
LEONARDI Esatto.
PRESIDENTE Nella vasca da bagno, di solito, la doccia è agganciata. Questo gancio c’era?
LEONARDI La doccia, praticamente, era agganciata su un manico di scopa messo di traverso dentro la vasca.
PRESIDENTE Era possibile appenderla al muro, al posto suo?
LEONARDI Certo.
PRESIDENTE Queste sono le foto scattate dopo l’intervento della polizia. Questa è la vasca da bagno. Ci dica la posizione della doccia quando lei è entrato.
LEONARDI La scopa stava di traverso e la doccia vi stava appoggiata sopra e dava verso il muro.
PRESIDENTE Il buco sul muro era evidente?
LEONARDI Si vedeva uno spacchetto […].
PRESIDENTE Fu lei a rimettere la doccia al suo posto e a chiudere il rubinetto?
LEONARDI Sì.

Leonardi peraltro trova una casa sottosopra: armi e munizioni buttate su un letto, documenti in bianco e volantini Br sparsi per l’appartamento, due bombe a mano per terra. Se non ci fosse stato tutto questo, il covo Br non l’avremmo mai scoperto come tale e Mario Moretti, forse, sarebbe ritornato lì e avrebbe trovato l’amministratore del condominio che gli comunicava l’allagamento del bagno. E invece quel disordine era funzionale a bruciare quel covo che peraltro, come è noto, era stato segnalato almeno un paio di volte alle forze dell’ordine, per tacere della famosa seduta spiritica che porta la polizia nel paesino di Gradoli e non in una via della città dove era stato compiuto il rapimento. Nello stesso giorno in cui viene “scoperto” il covo, fa la sua comparsa il volantino ideato da Pieczenik: le Br sono di fatto accerchiate. Non per niente Patrizio Peci, tra gli altri, affermerà che le Br avevano accelerato la decisione di uccidere Moro perché temevano di essere scoperte.
I fatti sono chiari: qualcuno il 18 aprile 1978 si spaccia per brigatista e contemporaneamente l’appartamento dove abita Moretti viene fatto scoprire. Sarebbe interessante se Moretti ci dicesse se le condizioni in cui ha lasciato il suo appartamento la mattina del 18 aprile sono le stesse che vede non appena entra il vigile Leonardi, così da poter capire chi ha messo in piedi quella sceneggiata. Ma a lui non importa nulla: ormai è un uomo libero, con una nuova vita e soprattutto è rimasto vivo.


8. Conferme, sulle dichiarazioni di Pieczenik, non ce ne sono state, ma neanche smentite categoriche. Come mai le dichiarazioni sono apparse sui quotidiani senza scalfire alcunché? O si è trattato di “calma apparente”?

Biondo: Sinceramente non lo so. Per esperienza personale, posso dire che le dinamiche dei mass media mi risultano spesso oscure. Credo che il racconto di Pieczenik abbia creato qualche imbarazzo. Insomma, un cittadino americano, consulente del dipartimento di Stato, che dirige la prima unità di analisi antiterrorismo voluta da Henry Kissinger, che viene chiamato ad affrontare la crisi del sequestro, che ha sempre rifiutato di tornare in Italia a raccontare la sua versione dei fatti e che poi, a distanza di 30 anni dice queste cose, immagino abbia fatto imbestialire tanta gente. Ma non i diretti protagonisti, chiariamo bene. I presidenti Cossiga e Andreotti, i brigatisti implicati nel sequestro, sono uomini di mondo, conoscono le regole del gioco: “Mai rispondere ad una dichiarazione che fin dall’inizio li mette in difficoltà”. Ho avuto modo di confrontarmi pubblicamente con l’ex-sottosegretario alla Presidenza del Consiglio (con delega ai servizi segreti) Franco Mazzola. Lui giura di non aver mai sentito dire nei giorni del sequestro che c’era l’idea di tirare fuori un falso comunicato e che nell’unica volta in cui ha visto Pieczenik questi non ha mai detto una cosa simile. Mazzola afferma questo anche sulla base di un appunto di una riunione avvenuta l’11 aprile 1978. Mazzola non è un ingenuo e sa benissimo che una decisione simile, come quella di un falso comunicato di quel tipo, non si mette a verbale e che meno persone ne sono a conoscenza meglio è.
Io credo di aver fatto solo il mio dovere, con l’aiuto fondamentale di Giuliano Boraso: proporre questo libro a un editore italiano, Cooper, che a sua volta, con grande intelligenza e professionalità, ha fatto il suo dovere e cioè pubblicarlo dopo le necessarie verifiche. Il resto, tutto il resto, non mi interessa.
Non credo che il Presidente Cossiga abbia mandato a morte il suo amico Aldo Moro a cui era umanamente legatissimo. Ma è indubbio che conosce i retroscena dell’operazione del lago della Duchessa. Io credo che sia rimasto stritolato dalle indicazioni di Pieczenik che altri hanno avallato e a cui lui non ha saputo opporsi. Spesso l’uomo di Stato Francesco Cossiga ha smesso i suoi panni per difendere con estrema forza, a torto o ragione, le sue posizioni e i suoi convincimenti avvicinandosi così alle passioni dei semplici cittadini. Sarebbe davvero importante se lo facesse anche stavolta, se riuscisse a lasciare nel suo testamento politico la verità su chi, insieme a Steve Pieczenik, ha deciso freddamente che “Moro doveva morire con le sue rivelazioni”. Solo lui, credo, ha la forza di poterlo fare.
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Proprio oggi, emerge dall'ANSA, un particolare legato all'ormai famosa vicenda della seduta spiritica del 2 aprile '78 dalla quale emerse il nome di Gradoli come possibile luogo di prigionia di Aldo Moro e che diede vita, il successivo 6 aprile, ad una massiccia operazione di polizia nell'omino paese del viterbese tralasciando, invece, la possibilità che vi fosse una via Gradoli nel comune di Roma.
Il Presidente Giovanni Pellegrino nell'audizione del 23 giungo '98 in cui la Commissione Stragi ascoltò il Prof. Alberto Clò (padrone di casa il 2 aprile '78) ricorda perfettamente la spettacolarità dell'episodio:

PRESIDENTE
. Ma il 6 aprile però avrà saputo che si è fatta l'irruzione a Gradoli paese.
CLO’.
Assolutamente no.
PRESIDENTE.
Ne è stata data notizia su tutte le televisioni, ne ho ancora negli occhi le immagini.
CLO’.
Lo seppi quando scoprirono il covo.
PRESIDENTE.
No, mi riferisco al fatto che il 6 aprile la televisione trasmise le immagini dell'irruzione militare nel paese di Gradoli: serbo un ricordo molto preciso, ricordo ancora le tute mimetiche e questo paesetto con le sue casette dove si vedevano gli uomini che entravano con il mitra e facevano una perquisizione; un intero paese fu perquisito. Se qualche collega ritiene che il mio ricordo sia sbagliato, lo dica.

Nessun commissario smentì il Presidente. L'unico dubbio sul suo ricordo è che possa riferirsi al film "Il caso Moro" di Giuseppe Ferrara nel quale, effettivamente, si osserva quanto descritto dal Presidente Pellegrino oppure che Pellegrino abbia potuto vedere, in un momento successivo, immagini di repertorio.

Ora, a distanza di 30 anni, emerge una nuova "verità". Carlo Infanti ha realizzato un fil documentario nel quale ha intervistato gli amministratori locali del paesino Gradoli, in carica nel '78. Il vice sindaco Franco Lorenzoni ha ricordato come "l'unica cosa che si vide furono due posti di blocco nei due bivi di ingresso nel paese. Ma dentro Gradoli non vi fu nessuna ispezione, nè perquisizione. Niente. Le uniche cose che abbiamo saputo, in seguito, è che perquisizioni furono fatte in alcune grotte nelle vicinanze del paese e in casali abbandonati nella campagna, noi non sapevamo niente. Quello che poi è stato fatto successivamente vedere, anche in alcuni film di perquisizioni all'interno del paese sono cose tutte completamente false: non esistono"



Una veduta del paese di Gradoli (VT)

E' davvero incredibile che a tanto tempo di distanza vi siano ancora dubbi su fatti apparentemente scontati come la perquisizione del 6 aprile. Se si trattò di una montatura, ritengo saremmo di fronte ad una cosa molto grave.

Sui giornali del 7 aprile '78, in effetti, non uscì alcuna notizia riguardo l'operazione di rastrellamento. E neanche l'ANSA riportò nulla di simile.
Allora mi chiedo, se più che depistaggio si trattò di un insabbiamento (perché è evidente che, dopo la seduta spiritica, si evitò di tornare in via Gradoli...). L'asse Prodi-Cavina-Zanda Loi che percorse la notizia, evidentemente fu tenuto riservato fino al 18 aprile, quando la scoperta della base di via Gradoli fece emergere anche l'informazione raccolta dal Prof. Prodi. In quel momento, forse, si rese necessario far credere che all'informazione si diede seguito, ma ci si recò nel paesino e non nella via romana.

Se confermato, si tratterebbe di un episodio certamente grave. Non cambierebbe la sostanza delle cose, ma sicuramente la forma. Il depistaggio risulterebbe evidente e non motivato dal fatto che le indicazioni provenienti dalla "seduta spiritica" parlavano di "Gradoli - Bolsena - casa isolata con cantina".
Fu un fatto voluto.

Perché? Per tutelare i brigatisti? Per tutelare le proprietà immobiliari risalenti ai servizi? Oppure per tutelare una trattativa delicata che con una perquisizione in via Gradoli avrebbe potuto interrompersi prematuramente?
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Si è parlato molto del libro che il giornalista francese Emmanuel Amara ha scritto sul caso Moro e che è stato pubblicato in Francia lo scorso anno.
Tutti hanno riportato la notizia più importante. O almeno quella che si è sempre ritenuta essere la più importante.
Pieczenik avrebbe ammesso di essere l'ispiratore del falso comunicato n. 7 che annunciava la morte di Moro e di aver deciso che sarebbe stato meglio per tutti se Moro non fosse uscito vivo dalla prigione delle BR.
Affermazioni sconcertanti, non c'è che dire e che da sole varrebbero il prezzo del libro che sta per uscire in Italia.
Ma la notizia più sconcertante che il consulente Steve Pieczenik offre al popolo italiano, secondo me, è un'altra e di tutt'altro spessore per chi è interessato ad approfondire la storia dell'Italia degli anni '70.

Scopriamo cosa ci rivela lo psichiatra americano, consulente personale del Ministro Cossiga nelle prime settimane del rapimento di Aldo Moro:

"Poco dopo il mio arrivo in Italia che mi resi conto del caos che vi regnava, specialmente dopo che Aldo Moro era stato sequestrato. Non passava giorno senza che ci fossero delle manifestazioni. C’erano scioperi continui. E, cosa ancora più grave, si era da poco verificato un chiaro tentativo di colpo di stato organizzato da alcuni esponenti dei servizi segreti e della loggia massonica Propaganda due, la cosiddetta P2"



Scusi, Pieczenik, potrebbe ripetere con calma (magari ci faccia lo spelling) questa sua affermazione? E a lei, Emerito Presidente Cossiga, la notizia è sfuggita? In tal caso, le dispiacerebbe fornire al Paese intero, cortese smentita?
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Di Manlio  20/02/2008, in Pensieri liberi (3861 letture)
Segreti di Stato non è un romanzo qualsiasi.
Ameno per due motivi:
1) l'autore si chiama Massimiliano Passamonti (nella foto sotto) e ha fatto parte per diversi anni di uno dei reparti di eccellenza delle nostre Forze Armate: il gruppo incursori della Marina, i "famosi" COMSUBIN.
2) la storia che Passamonti racconta è ambientata nell'Italia della strategia della tensione e vede protagonisti uomini della politica, dei servizi, della Marina Militare e un gruppo di terroristi della Brigata NoGlobal, un gruppo di estrema sinistra che pratica la lotta armata.

Si tratta di un bel thriller in cui non mancano, seppure in forma romanzata, riferimenti storici puntuali ed un nuovo punto di vista dal quale osservare gli anni della strategia della tensione, che tanti dolori hanno provocato al nostro Paese, dai quali non siamo ancora riusciti a venire fuori con una verità trasversale che possa attraversare le ragioni di tutti e portare ad una riappacificazione tra le diverse forze in gioco sia oggi che ieri.


Segreti di Stato è un libro che consiglio davvero a tutti, in particolar modo a chi vuole ragionare su una chiave di lettura del caso Moro sicuramente per molti versi di fantasia ma che non tralascia precisi riferimenti a luoghi, fatti o persone protagoniste di quel periodo.
Senza voler rovinare la lettura a chi vorrà seguire il mio consiglio, vorrei proporre uno spunto di discussione sull'idea drammaturgica di Passamonti.

Un gruppo di estrema sinistra opera in Italia.
Il Ministero dell'Interno, non fidandosi dei servizi segreti in quanto alcuni elementi si mostravano scontenti della riforma di ristrutturazione che il sistema politico stava per varare, chiede al comandante dei COMSUBIN di infiltrare un suo uomo all'interno del gruppo. L'operazione riesce ed il giovane incursore viene a conoscenza del tentativo che il gruppo sta portando avanti di rapire un importante leader politico. Il Ministro dell'Interno decide di consentire il rapimento (perchè l'evento sarebbe stato politicamente a lui favorevole) ma di attivare i COMSUBIN per ottenere la liberazione dell'ostaggio.
In quest'ottica viene organizzata una prova generale del blitz, cammuffata da esercitazione, utilizzando un casolare prefabbricato identico a quello nel quale, secondo le informazioni raccolte dall'infiltrato, sarebbe stato condotto il rapito.
Anche i servizi segreti, all'insaputa del Ministro dell'Interno, stanno muovendosi nella vicenda. Così quando viene effettuato il rapimento, per i COMSUBIN si tratta di una cosa inaspettata e perdono il controllo della situazione. Sicuri che l'ostaggio sia stato portato nel luogo a loro noto, decidono di effettuare subito l'irruzione che avevano già provato in esercitazione.
Ma i servizi tirano ai COMSUBIN un brutto scherzo ed il blitz fallisce miseramente.
Il rapimento va avanti ed anche i servizi perdono il controllo delle operazioni. Non potendosi fidare più di nessuno viene deciso che la soluzione migliore è rappresentata dalla morte dell'ostaggio.

Si trovano molti riferimenti a due operazioni realmente accadute come "Smeraldo" (21 marzo '78) e "Rescue Imperator" (prova generale del 12 febbraio '78).

Mi piacerebbe poter avviare delle riflessioni assieme a voi su tre questioni particolari:
a) I servizi sapevano qualcosa?
b) Alti e limitati vertici delle istituzioni sapevano qualcosa?
c) Il sequestro si è evoluto verso direzioni non pi controllabili e questo avrebbe portato alla decisione della morte dell'ostaggio come minor male?

Ovviamente, sottolineo che la vicenda raccontata da Passamonti, deve essere presa per quello che è: un romanzo.
E quindi opera di assoluta fantasia...
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Di Manlio  13/02/2008, in Storia (2052 letture)
"... e la sua salma è immersa nei fondali limacciosi del Lago della Duchessa."

Sembrerebbe proprio che chi ideò il falso comunicato n. 7 che annunciava la morte di Moro mediante suicidio, avrebbe potuto tranquillamente utilizzare il concetto di sacrificio.
Almeno stando alle parole di Steve Pieczenik, intervistato nell'ambito di un documentario dal titolo "Gli ultimi giorni di Aldo Moro" andato in onda sabato 9 febbraio su France5.

Pieczenik fu il consulente, specializzato in mediazioni, che gli Stati Uniti offrirono all'Italia per gestire la complicata vicenda del rapimento del Presidente della DC ad opera delle Brigate Rosse. Il suo ruolo fu, sostanzialmente, quello di assicurare la tenuta del Governo italiano alla linea della fermezza e quando si rese conto che il suo compito era esaurito (in quanto tale fermezza non fu mai messa in discussione) se ne tornò negli USA.

Pieczenik è stato già intervistato nel libro "Nous avons tuè Aldo Moro" a cura del giornalista francese Emmanuel Ammarà che sarà pubblicato a breve anche in Italia. In quella occasione ebbe già modo di assumersi la paternità dell'idea del falso comunicato numero 7 realizzato per dare un colpo psicologico alle BR e che, sempre secondo l'americano, "fu per loro un colpo mortale perché non capirono più nulla e furono spinti così all'autodistruzione". Vai alla notizia

In questa nuova intervista, Pieczenik ha aggiunto altro. In sostanza ha affermato che Aldo Moro era necessario sino al compimento della sua strategia politica, che avrebbe ridato stabilità all'Italia.
Per ottenere questo però, c'era un prezzo da pagare: la morte di Moro. Che si rivelò necessaria quando, dopo quattro settimane dal rapimento, il rischio che potesse cedere ai propri carcerieri rivelando informazioni riservate diventò concreto.
La decisione finale se dovesse vivere o morire, stando alle parole di Pieczenik, fu presa da Cossiga o Andreotti.




L'ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga è stato intervistato in occasione del documentario. Dopo aver visionato le immagini di Pieczenik ha commentato: "Doveva evitarsi la trattativa, perché si sarebbe sgretolato lo Stato, anche a costo di farlo morire".

Se volete vedere il video, questo é il link.

Secondo voi, sà più di conferma o di smentita?
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Intellettuali e lotta armata. Ovvero gli intellettuali hanno avuto un ruolo nelle nascita e nello sviluppo della lotta armata in Italia negli anni ’70?
E’ quello che si chiedono in molti e, fra i tanti, Giovanni Fasanella nel suo Blog che dedica all’argomento il sondaggio “Terrorismo di sinistra. Gli intellettuali hanno delle responsabilità?”

L’idea di fondo, mi sembra, sia quella di identificare in una larga parte di Intellighenzia coloro i quali hanno favorito, con ideologie e proclami, alla nascita e allo sviluppo della cultura delle armi come strumento per abbattere il sistema.

In questo senso i giovani che avevano intrapreso un percorso di lotta ai limiti della legalità trovarono una autorevole sponda per pensare che i tempi fossero maturi per l’innalzamento del livello dello scontro.
Fatto ciò, alcuni intellettuali presero le distanze, altri osservarono compiaciuti da lontano, altri continuarono ad alimentare, con i propri contributi, le fila di chi pensava di mettere in pratica le analisi teoriche.
Altri, molto probabilmente, stettero per lungo tempo con un piede dentro e l’altro pure alle organizzazioni di lotta armata.

Gli intellettuali, in sostanza, contribuirono a creare l’acqua dove “nuotavano i pesci” e, talvolta, sguazzavano nello stagno assieme ad essi.

Gli stessi intellettuali avendola successivamente fatta franca ed essendo arrivati ad occupare posti importanti della società, avrebbero “blindato” la verità su quegli anni e sulle collusioni lotta armata/classe intellettuale proprio per evitare che emergessero possibili contiguità che, indipendentemente dai reati, ne avrebbero compromesso l’immagine e le possibilità di carriera di fronte all’opinione pubblica.

Sarebbe questo il quadro, in poche parole, del legame tra intellettuali e lotta armata negli anni ’70?

Può anche essere, non ho elementi per escluderlo.

Però penso che la generalizzazione possa portare ulteriore confusione e far allontanare la ricerca della verità.
Come ritenere che la responsabilità degli episodi di violenza negli stadi siano da ripartire tra ultras e commentatori delle trasmissioni sportive che, una volta individuato alla moviola l'errore dell'arbitro, gridano alla malafede ed al campionato falsato.
Gli ultras, probabilmente, sono già sufficientemente malati di loro per "alzare il livello di scontro" senza dover attendere l'analisi della Domenica Sportiva. In sostanza, chi fa le violenze non ha bisogno del decisivo incitamento del commentatore sportivo e chi fa i commenti e litiga in TV non è in grado di spostare i comportamenti degli altri tifosi, salvo quello di cambiare canale.

Io credo che sia possibile, anzi assolutamente fondato, ritenere che vi siano stati intellettuali vicini alle organizzazioni armate sia a livello di consiglieri che di militanti effettivi. E che possano non essere stati mai individuati e che oggi ricoprono ruoli importanti alla direzione di un giornale piuttosto che come funzionari nei servizi segreti.

Credo anche però che sia importante non sparare nel mucchio.
Trovare elementi concreti su singoli casi e portarli all’attenzione dell’opinione pubblica. Questo si, sarebbe utile per non rimuovere la memoria e per far capire alle generazioni successivi cosa erano quegli anni.

Ma se parliamo di un’intera classe a me viene da pensare che i più non si muovessero per ideologia quanto per moda, per “inguaribile civetteria” (come la definì Cossiga) e che molti degli appelli furono firmati senza neanche leggerne il testo, spesso perché lo aveva già fatto qualche collega.

Si badi. Non voglio giustificare nessuno perché, “la legge non ammette ignoranza”.
Solo che a me quella classe intellettuale sembrava più che giocasse alla rivoluzione perché faceva “chic” ma, in realtà, di operai e di lotta di classe a pochi interessava realmente.

Insomma, quel tipo di intellettuali, forse fu con grande acume immortalata da Giorgio Gaber quando gli avvenimenti erano in pieno corso, con uno dei suoi più celebri pezzi “Al bar Casablanca"



Al bar Casablanca
con una gauloise
la nikon, gli occhiali
e sopra una sedia
i titoli rossi dei nostri giornali
blue jeans scoloriti
la barba sporcata da un po’ di gelato
parliamo, parliamo di rivoluzione
di proletariato.

L’importante e che l’operaio prenda coscienza. Per esempio i comitati unitari di base… guarda gli operai di Pavia e di Vigevano non hanno mica permesso che la politica sindacale realizzasse i suoi obiettivi, hanno reagito, hanno preso l’iniziativa! Non è che noi dobbiamo essere la testa deli operai. Sono loro che devono fare, loro, noi…

O, se vogliamo essere più cattivi, con un'altra immagine di Pierangelo Bertoli

I poeti son dei matti che non pagano il pedaggio
fanno finta di capire quando scrivono "coraggio"
ma se c'è da far la guerra il poeta è giù in cantina
fa l'amore con la serva e si scopa la regina.

Ci sono stati intellettuali contigui, simpatizzanti o amici dei protagonisti della lotta armata? Cosa hanno fatto? Credo che le responsabilità vadano ricercate ed attribuite ai singoli. Attribuirle ad un'intera categoria equivale a volersi nascondere non avendo il coraggio di fare i nomi
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Un modo alternativo quello di ricordare Aldo Moro a trent'anni dalla sua scomparsa. Una specie di “contro-trentennale” quello di Maria Fida Moro, figlia maggiore del Presidente della DC rapito e ucciso dalle BR il 16 marzo 1978 che assieme al figlio Luca ha avuto l’idea di musicare in blues le parole pronunciate da Aldo Moro durante interventi pubblici.
“Se ci fosse luce” è il titolo del brano.
Il nipote Luca ha voluto aggiungere alle parole del nonno le sue:
"Vorrei che tu fossi ricordato vivo
perché la forza del tuo pensiero
a distanza di 30 lunghissimi anni
possa suonare in questo blues
e cadere come una lama sulla coscienza
di chi ancora cerca di ucciderti".

La figlia di Moro ha detto ai giornalisti: “Mi batterò sempre perché Aldo Moro non sia ricordato come un oggetto in un portabagagli. È ingiusto. Era un padre e un uomo. A noi preme la verità e il ricordo della sua umanità e della sua bontà”. E ha anche aggiunto che ha inteso fare questo per “affermare il primato della verità, sul piano umano, del caso Moro”

L'iniziativa è stata presentata lunedi 28 gennaio presso la sede dei Radicali in via di Torre Argentina alla presenza di tre ex militanti della lotta armata: Sergio D'Elia (oggi deputato dei Radicali), Giusva Fioravanti (oggi in affidamento ai servizi sociali nell'associazione "Nessuno tocchi Caino" e Valerio Morucci, uno dei protagonisti del rapimento d Aldo Moro, presente in via Fani e telefonista-postino delle BR nel corso dei 55 giorni di prigionia del Presidente della DC.

Il desiderio della figlia dello statista è che l'anniversario della strage possa diventare l'occasione per ricordare l'umanità dello statista, "il padre, il nonno, non c'interessano i misteri. Spesso invece è stato ridotto ad un oggetto nel portabagagli di una Renault".

Dunque, alla figlia maggiore di Aldo Moro non interessano i misteri.
Vuol dire che non ci sono misteri tali da consentire una rilettura della vicenda?
Oppure che ormai dopo essersi battuta invano per trent'anni per la verità, avendo constatato l'impossibilità di perseguirla in tempi brevi, è diventato più importante restituire dignità alla figura del padre attraverso le sue qualità di uomo?
O è forse un modo di proporre la chiusura di quegli anni attraverso il recupero dell'umanità dei protagonisti piuttosto che partendo dalle responsabilità penali?
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Di Manlio  24/01/2008, in Attualità (2253 letture)
Ieri sera è andata in onda una puntata speciale della trasmissione Ballarò, condotta da Giovanni Floris, di approfondimento sugli anni di piombo centrata sul bel libro di Mario Calabresi "Spingendo la notte più in la".
Il libro ha dato spunto a Floris ed ai suoi ospiti di parlare delle vittime degli anni di piombo e del loro dolore ancora profondo e aperto.
In studio, infatti, Mario Calabresi (figlio del commissario Luigi Calabresi, ucciso nel '72), Benedetta Tobagi (figlia del giornalista Walter Tobagi, ucciso nel '80 anche se non dalle BR, come erroneamente citato da Floris ma dalla Brigata 28 marzo) e Marco Alessandrini (figlio del giudice Emilio Alessandrini ucciso nel '79).

Il comune denominatore delle storie dei tre ospiti è stato, certamente, il senso di inutilità della morte dei rispettivi genitori e la sensazione di abbandono che lo stato . I tre personaggi, pur diversi nelle loro professioni, erano accomunati dalla grande passione per il proprio lavoro, erano delle persone con un alto senso della famiglia e dei valori e hanno lasciato ai loro figli un'eredità di pace e non di vendetta o caccia all'ergastolano.
Luigi Calabresi Emilio Alessandrini Walter Tobagi


Tutti e tre hanno sottolineato il diverso comportamento che lo Stato ha sempre avuto con gli ex militanti di organizzazioni di lotta armata rispetto alle loro vittime. Pur convenendo che quando una persona ha esaurito il suo debito con la giustizia secondo le vigenti leggi possa avere il diritto di rifarsi una vita non è apparso altrettanto giusto ai tre ospiti, il tentativo di rimozione della memoria che sembra spesso contraddistinguere i loro interventi.

E' giusto invitare l'ex fondatore di Prima Linea Sergio Segio, ad esempio, a dibattiti televisivi e ad interviste sui quotidiani? Naturalmente si. E' giusto che Sergio Segio scriva dei libri sugli anni di piombo? Naturalmente si. E' giusto indicare Sergio Segio come "collaboratore del gruppo Abele"? Probabilmente no.
Meglio sarebbe ricordarlo come "fondatore del gruppo armato Prima Linea, assassino del giudice Alessandrini, ora collaboratore del gruppo Abele".
Tutti devono avere una seconda chance, ma a nessuno deve essere concesso di cancellare il proprio passato reinventandosi una verginità "per il miglior offerente".

La domanda che pongo ai lettori è semplice: come rendere equilibrato il bisogno di rispetto di chi ha perso un familiare con la giusta volontà da parte di un ex militante della lotta armata di voler ammettere degli errori (e una sconfitta) e voltar pagina diventando un elemento positivo per la società?

L'interrogativo più interessante, tuttavia, l'ha posto, secondo me, Benedetta Tobagi.
Nella commissione Stragi, durata la bellezza di 12 anni, sono confluite 1.500.000 di carte. Sarebbe interessante per il Paese che fossero rese note, che la loro pubblicazione possa essere utile a chi voglia cercare delle altre risposte. In fin dei conti sono già 7 anni che la commissione ha chiuso i lavori.
Bene.

Ho recentemente parlato con la Dott.ssa Emilia Campochiaro, responsabile dell'Archivio Storico del Senato che mi ha assicurato che il prossimo 16 marzo saranno rese disponibili online tutti i documenti relativi alla vicenda del rapimento e l'assassinio di Aldo Moro (e degli uomini della scorta).
Si dice che il lavoro di archiviazione, però, non sarebbe stato compiuto da dipendenti interni del Senato, nonostante le recenti 10 assunzioni di professionisti specializzati in archivistica, ma da consulenti esterni.
Già, consulenti esterni. Che troppo spesso hanno una stretta assonanza con "nomine di partito".

Io vorrei sapere se tutto ciò corrisponde al vero o se è solo una voce maliziosa messa in giro per alimentare nuove strumentalizzazioni.
Se fosse vero, e sottolineo se, sarebbe lecito porci due domande:
1) come sono stati nominati tali consulenti? C'è stato un concorso per meriti? E, ovviamente, chi sono?
2) perchè aggravare i cittadini di ulteriori costi quando le professionalità interne non mancavano e, oltretutto, sarebbero state garanti di maggiore autonomia?

Attendo, fiducioso, le risposte.

Manlio
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