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Articoli del 20/10/2008

Di Manlio (pubblicato @ 18:22:26 in Interviste, linkato 5951 volte)

Giorgio Guidelli è un giovane giornalista del Resto del Carlino che ha già pubblicato tre libri sugli anni di piombo, il primo dei quali "Operazione Peci, storia di un sequestro mediatico" una vera e propria rilettura di uno dei capitoli più efferati dell’intera storia brigatista (il sequestro-assassinio di Roberto Peci, fratello del grande pentito Patrizio, ad opera delle Brigate rosse-Partito della Guerriglia). Il rapimento fu un tentativo di Giovanni Senzani, stratega e ideologo di punta dell’ultima stagione brigatista, di utilizzare e servirsi dei mass media per accreditare se stessi, attraverso il delitto. Per realizzare questo lavoro, Guidelli ha dovuto analizzare una montagna di carte processuali e questo gli ha consentito di diventare l'esperto più accreditato di quella vicenda tragica ed al tempo stesso non completamente chiarita. Ad esempio, basti citare che il giornalista non è riuscito a recuperare le versioni integrali dei 7 comunicati emessi dalle Br durante i 55 giorni del sequestro Peci essendo disponibili solo i loro estratti utilizzati nelle aule del Tribunale.


L'approfondimento della vicenda ha portato Guidelli ad un secondo lavoro "Terra di piombo" nel quale il giornalista ha ripercorso gli anni che hanno segnato le Marche dal 1976 al 1982 attraverso lotte, incontri clandestini, disordini passando da luoghi, personaggi e situazioni nella regione che fu culla delle Brigate rosse. Guidelli è anche il protagonista del ritrovamento della R4 nel cui bagagliaio fu rinvenuto il cadavere di Aldo Moro in via Caetani. Nel 2007 ha pubblicato un terzo libro "L'auto insabbiata" nel quale racconta la storia di quest'auto ancora trattenuta dal proprietario dell'epoca Filippo Bartoli.

Il fenomeno della lotta armata lo ha fino ad ora visto come un osservatore e studioso sempre più attento. In quest'intervista ho cercato di stimolare Giorgio a delle riflessioni soprattutto sulla vicenda Peci e sul perchè essa non possa ancora considerarsi un capitolo chiuso della nostra storia.





Mario Moretti e Patrizio Peci. Due capi brigatisti, entrambi marchigiani, che hanno determinato l’ascesa e la sconfitta delle BR. In che rapporti erano i due all’interno dell’Organizzazione?

Generazione di fenomeno. Brigatista. Diciamo che uno ha tirato la volata all'altro. Con analogie impressionanti: tutti e due della provincia di Ascoli, tutti e due studenti sui banchi dell'Iti Montani di Fermo, tutti e due leader, tutti e due con ruoli chiave: il primo di grande regista, il secondo di attore e al contempo distruttore in qualità di pentito. Una cosa è certa: quando Patrizio se la svignò dalle Marche, corse a Milano dai compagni guidati dal conterraneo Moretti e di lì, ispirato dalle gesta del capo di Porto San Giorgio, spiccò il volo per Torino, dove divenne uno dei maiores della colonna piemontese. Tra l'altro, facendo un passo indietro, e cioè negli anni del comitato marchigiano, specie nel '76, i contatti tra il comitato esecutivo e gli organi periferici, come quello marchigiano, dovevano essere frequenti. E quindi anche i rapporti tra Moretti e Peci. Per il resto non doveva esserci dialettica, se non altro per il fatto che Moretti era un teorico, mentre Peci una mano calda


La vicenda del pentimento di Peci è piuttosto controversa. C’è chi addirittura ha ipotizzato un “doppio arresto” e quindi la storia di un pentimento “costruito a tavolino”. Possiamo dire di sapere tutto, oggi, sul più illustre pentito delle BR?

No, non si sa ancora tutto. E quello che si sa, non si ha il coraggio di dirlo. La storiografia del brigatismo e degli anni di piombo accredita versioni di comodo, supportate da un giornalismo superficiale e da indagini di studiosi poco inclini a scavare nella verità. Poi, purtroppo, c'è la solita omertà di Stato. Nessuno, ultimamente, ha voluto rivelare o scrivere. Quando si parla dell'argomento, si incontra un'ostilità strana e a tratti inquietante. A livello nazionale e, soprattutto, marchigiano


Il Generale Bozzo in una recente intervista radiofonica rilasciata ad Alessandro Forlani per il GRParlamento della RAI, ha ricordato come Patrizio Peci fu individuato già nel ’77 perché amico della figlia di un parlamentare che era controllata dai carabinieri. Le foto degli incontri della ragazza giunsero a Milano e lì gli uomini del gruppo di Dalla Chiesa, al momento non attivo, riconobbero Patrizio Peci tra le persone immortalate. Poi però, secondo Bozzo, il contatto fu perso. Le sembra un comportamento verosimile per chi faceva dell’antiterrorismo un’attività di elevata professionalità?

Apprendo qui di questo episodio. Per la risposta, vedi quella precedente…

Patrizio Peci ha scontato pochissimo carcere e, dopo essere stato per un periodo all’estero, è stato premiato con una nuova identità avendo la possibilità, non indifferente, di potersi costruire una nuova vita. Attualmente possiede un’attività commerciale in Piemonte. E’ stato l’unico dei pentiti a ricevere così tante agevolazioni. Perché fu il primo, perché il suo contributo fu il più determinante, o per una sorta di premio-indennizzo per una collaborazione più complessa del “semplice” pentimento?

Credo proprio la terza ipotesi. E credo anche che ci sia molto di più. E che quel di più, chi sapeva, se lo sia portato nella tomba

Quale vendetta per le delazioni di Patrizio Peci, le Br di Giovanni Senzani rapiscono e processano il fratello Roberto. La vicenda rappresentò il tentativo di risposta mediatica con la quale le Br volevano fornire la loro risposta allo Stato (denunciando le presunte complicità dei nuclei anti-terrorismo di Dalla Chiesa con l’operazione arresto-pentimento) e ad eventuali altri potenziali delatori (fornendo una prova di cosa aspettava loro in caso di pentimento). Quale è la sua lettura del rapimento e dell’uccisione di Roberto Peci?

La versione ufficiale è quella di una vendetta trasversale. Mafiosa. Del tipo: tu parli, io uccido un tuo parente per rappresaglia e così sei avvisato. La versione delle Br è quella di aver punito il tradimento di Roberto, di annientare i cosiddetti agenti della controrivoluzione. Il fatto curioso è che la campagna Peci nasce con certe intenzioni e finisce con altre. Nasce cioè con l'intenzione di intimidire e non di uccidere. E invece si chiude con un'esecuzione. Filmata, addirittura. Perché? E perché, parallelamente, il sequestro Cirillo, ugualmente gestito dal Fronte delle carceri, si chiude invece con la salvezza dell'ostaggio? In fondo la vicenda dei Peci, forse molto più di quella Cirillo, poteva essere decisiva nella partita tra Stato e Br. Come è possibile, quindi, che Cirillo sia stato salvato e Roberto Peci no? Ruota qui attorno il mistero della campagna Peci. Una verità processuale è stata già scritta, ma il resto…


In via Gradoli furono repertati diversi documenti tecnici sulle attrezzature per la video registrazione. Del resto lo stesso Buzzati seppe da Moretti che in occasione del sequestro Moro era stato installato un impianto di videoregistrazione. In effetti, la forza mediatica del “processo Peci”, fu enorme e immaginiamo cosa sarebbe stato il sequestro Moro (in termini di spettacolo e quindi di propaganda per le Br) se fossero stati divulgati “filmati della prigionia e dell’interrogatorio”. Ritiene possibile che anche 3 anni prima le Br avessero puntato ad un’operazione mediatica ma che, a differenza di Peci, furono costrette a rinunciare alla pubblicazione del materiale video?

E' possibile. Eccome. Le analogie tra i due sequestri, anche se a distanza di tre anni, sono evidenti. Ed è possibile che alla testa di quelle operazioni si trovassero alcune stesse menti. Quello che cambiava era il rischio rapportato all'ostaggio. Forse i sequestratori ritennero che divulgare un filmato con Moro sarebbe stato troppo pericoloso per l'Organizzazione. O forse chi voleva divulgarlo, allora, si trovò in netta minoranza all'interno delle stesse Br. D'altra parte, tre anni più tardi, il film con Roberto Peci fu ritenuto un'assurdità nell'Organizzazione. E gli stessi brigatisti condannarono la spettacolarizzazione della morte

Cosa ne pensa della “denuncia” con la quale Senzani tentò di far scoprire le carte ai carabinieri indicandoli come responsabili di avere “comprato” l’infiltrazione di Patrizio Peci?

Senzani era uno stratega raffinato. Conosceva a menadito i meccanismi dello Stato e i suoi apparati…

Peci era certamente un capo brigatista sin dal ’79 e, con molta probabilità, lo era già dall’epoca del sequestro Moro tanto che non sono pochi coloro che hanno ipotizzato un ruolo attivo di Peci nella vicenda del rapimento del Presidente democristiano. Prova ne è che erano nella disponibilità di Peci (notizia ANSA) scritti autografi di Moro resi nel corso dei 55 giorni. Lei ritiene che Patrizio Peci possa aver avuto un ruolo attivo nel sequestro Moro?

Può essere. E questo potrebbe aver pesato, a mio avviso, nel suo successivo ruolo di 'delatore' speciale. So per certo che persino alcuni fiancheggiatori considerati pesci piccolissimi ebbero ruoli impensabili nell'operazione Fritz

Considerando che l’unico argomento del quale Peci non ha mai parlato, se non per sommarie informazioni, è proprio il sequestro Moro, lei ritiene che un suo eventuale coinvolgimento sia in qualche modo legato al pentimento ed alle delazioni?

Potrebbe essere. Lo dicevo anche prima

Da studiosi è difficile non notare alcune incredibili somiglianze tra il caso Moro ed il caso Roberto Peci. Entrambi i rapimenti durarono 55 giorni, entrambi i prigionieri furono sottoposti a “processo popolare”, i comunicati delle Br di Senzani durante il rapimento Peci furono 7 (e si sa che il 7 è un numero in relazione al caso Moro), entrambi i prigionieri furono assassinati con 11 colpi al petto. Solo il frutto di macabre coincidenze o messaggi trasversali ben precisi?

Se non messaggi trasversali, analogie riconducibili a regie più o meno simili. Su quelle bisognerebbe indagare di più

Si parla di un suo prossimo imminente lavoro che conterrà non poche novità su quelle vicende. Può darci qualche anticipazione?

Dopo anni di ricerche, una fonte ha iniziato a sgorgare. Speriamo che sia abbondante. E che nascano buoni frutti...
 
Di Manlio (pubblicato @ 16:06:55 in Attualità, linkato 6244 volte)
Sembra si sia innescata una spirale. Ed il dibattito sugli ex militanti di lotta armata, le vittime, le associazioni e la nostra società, si allarga a nuovi interventi. Sabato sera nella puntata di TG2 Dossier Storie è andato in onda un servizio che, partendo dalla solita mancata estradizione dell’ex brigatista Marina Petrella ha affrontato il più generale tema del poco spazio fornito invece alle famiglie delle vittime. Il giorno dopo, su Repubblica, Silvana Mazzocchi ha realizzato il classico gol in contropiede intervistando niente di meno che Patrizio Peci il quale, tanto per gradire, sta per mandare in libreria una riedizione del suo famoso “Io, l’infame” che nel 1983 fu il suo primo atto di dolore per il grande pubblico. Luca Telese riprende sul suo sito l'argomento e su Il Sole 24ore un articolo di Benedetta Tobagi, figlia del giornalista Walter assassinato nel maggio dell’80 da una banda di imbecilli capeggiata da Marco Barbone (altro pentito che ha scontato pochissimo carcere), analizza i differenti punti di vista sul rapporto tra terrorismo e cinema.

Proviamo a mettere insieme il mosaico…

Benedetta Tobagi, nell’inserto culturale della domenica del Sole 24ore rilancia il tema del rischio che le storie del passato possano alimentare, raccontate oggi, un alone di romanticismo soprattutto se il ruolo di un ex come Sergio Segio viene interpretato da un “figo” come Riccardo Scamarcio. A risponderle è il produttore del film, Andrea Occhipinti, che sottolinea come in realtà sia la storia a contare e non le scelte artistiche che, trattandosi di prodotto commerciale, devono essere compiute secondo principi legati più all’economia che alla morale. In merito all’istituzione proposta dal Ministro Sandro Bondi di una commissione che valuti le opere per decidere se possano aspirare ad usufruire dei finanziamenti pubblici è il Direttore Generale per il Cinema del Ministero dei Beni Culturali Gaetano Blandi a rassicurare tutti noi. Nessuna censura preventiva, solo una scelta etica: aderire alle parole del Presidente della Repubblica Napolitano pronunciate in occasione della prima giornata nazionale delle Vittime del Terrorismo. Il Ministero ha semplicemente chiesto alle associazioni cosa ne pensassero dei diversi film (non dal punto di vista artistico), a parlarne con autori e produttori che per conto loro si sarebbero impegnati a non dare spazio agli ex terroristi in occasione delle presentazioni pubbliche dei loro lavori.
Le solite cose all’italiana, mi verrebbe da pensare. Una questione di facciata, cambiarsi l’impermeabile senza curarsi delle mutande sporche…


Dall’intervista di Silvana Mazzocchi
«Ormai sono un´altra persona, che vive e fa cose diverse, che ha una famiglia, un figlio».
Il diritto alla normalità Peci lo dà per scontato. In base alla sua collaborazione e al suo ravvedimento. A giudicare dalle proteste pervenute (cioè zero) sembra che da tutti questo suo diritto gli sia da tutti riconosciuto.

«Sono quello che sono. Ma chi mi ha accettato ha riconosciuto la mia buona fede, sempre, dalla lotta armata alla dissociazione. Tutte scelte trasparenti, compiute senza condizionamenti».
Strano questo suo richiamo alla trasparenza ed all’autonomia… La sua buona fede se la sarebbe portata dietro in tutte le proprie scelte. E’ proprio questo che deve avergli fatto ricevere un trattamento di favore, evidentemente.

«Se ho accettato di scrivere una parte nuova del mio libro è stato solo per dimostrare che si può cambiare veramente vita e diventare un altro. Che si possono avere degli affetti e perfino qualche bene materiale. Volevo dimostrare che è possibile farcela».
Ricapitoliamo. Se a lui, di questi tempi, è offerta la chance di ripubblicare un libro, fare una lunga intervista su uno dei principali quotidiani nazionali deve essere proprio per questo. Dimostrare che è possibile rifarsi una vita. Ma le famiglie delle vittime, di questo, cosa ne pensano?
Certo avere affetti e beni “materiali” per uno che non è passato dai permessi, dal lavoro esterno, dalla semi-libertà e poi dalle richieste al Tribunale di Sorveglianza, è molto più semplice. Se poi ha avuto un piccolo aiutino da parte dello Stato è ancora più semplice…

«Non si può perdonare quello che non ha senso. E forse è per questo che i parenti delle vittime non riescono a spiegare mai, a chi non lo ha conosciuto, il senso del lutto. Non puoi perdonare la perdita irrevocabile, soprattutto quando sai che non c´era motivo, soltanto odio e ferocia animalesca in chi ha premuto il grilletto».
Non è molto chiaro se Peci parli più da terrorista o da familiare di una vittima. In ogni caso confesso che mi piacerebbe conoscere il parere delle associazioni su questo particolare aspetto, sempre ammesso sia possibile criticare il punto di vista del Pentito.

Dall’articolo di Luca Telese
Come prima cosa è bene ribadire come non sia stato Peci a sconfiggere le Br. Stando ai numeri l'80, l'81 e l'82 sono stati anni tragici dal punto di vista dei lutti e dell'efferatezza degli attacchi. Moretti è restato libero per oltre un anno dopo l'arresto (il primo? il secondo?) del febbraio dell'80 di Peci e Micaletto. Le Br Senzaniane si distinsero per una ferocia che le Br ‘operaiste’ dell'inizio e persino quelle ‘militariste’ Morettiane non avevano ancora dimostrato. Quindi il fatto che Peci sia stato premiato per aver consentito la sconfitta dell'Organizzazione è un falso mito, che però torna comodo per giustificare premi e protezione di cui ha goduto...
Più in generale, i pentiti non sono stati la causa della sconfitta della lotta armata, ma l’effetto. Le organizzazioni hanno iniziato a sfaldarsi perché è mancata loro quella sensazione di avere le masse al proprio seguito, di coltivare consenso. Una sconfitta interna dovuta alla distanza che separava la società civile dalle analisi e dalla scelta di concentrare tutto sullo scontro frontale, militare, contro il ‘nemico’.

Telese ci ricorda come Peci abbia passato in carcere meno tempo rispetto a quello trascorso alle scuole elementari, la qual cosa oltre che stupire dovrebbe far inorridire molte persone. E che tutt'ora vive in una condizione di semi-clandestinità protetto da ufficiali dei quali è possibile solo citare il nome in codice!
Ma scusate, di chi dovrebbe preoccuparsi oggi Patrizio Peci? Nel 1987 le Br dichiarano esaurita la loro esperienza, dalla fine del secolo scorso tutti i militanti delle Brigate Rosse sono liberi o semi-liberi e hanno intrapreso nuove vite. Le nuove leve del brigatismo sono tanto isolate dalla realtà quanto inconsistenti che difficilmente uno come Peci avrebbe potuto rappresentare per loro un obiettivo.

Noto poi che Telese è un ingenuo ottimista: sperare che Peci possa dire qualcosa che non siano le solite verità di comodo degli ex brigatisti è come, per un tacchino, credere di essere un semplice invitato a pranzo il giorno del ringraziamento…
Ma come, Peci? Uno che nonostante tutte le protezioni e i benefici di legge di cui ha goduto, non ha detto una sola cosa di rilievo sul caso Moro? Semmai sono stati dopo gli altri ad “adeguarsi” all’incipit fornito dal pentito. Si, ufficialmente perché non vi ha partecipato e perché le poche cose di cui era al corrente le aveva sapute da Raffaele Fiore (brigatista della colonna torinese, uno dei quattro “aviatori” di via Fani). Salvo, poi, dichiarare di essere stato in possesso di manoscritti originali di Aldo Moro e descrivere alcuni dettagli dell’agguato di via Fani come se ce li avesse ancora sotto gli occhi.

A raccontare per la prima volta la storia del pentimento di Peci, è stato l’allora comandante delle guardie carcerarie dello Speciale di Cuneo, Maresciallo Angelo Incandela. In un’intervista del 1994 sul Corriere della Sera, in occasione della pubblicazione del suo libro Agli ordini del Generale Dalla Chiesa, Incandela ricordò come lo spietato Peci fu aiutato nel suo pentimento da "alcune quaglie ripiene, due etti di prosciutto crudo, due paia di slip e calzini nuovi più un fumetto di Tex, di Topolino e un numero della Settimana enigmistica. Farà ridere, ma la strada alla sconfitta del terrorismo italiano è stata aperta anche da un peccato di gola".
E tanto per non lasciare nulla al caso, sempre domenica 19 ottobre il quotidiano Il Giornale riprende, appesantendolo, il concetto: «Nessuno - avrebbe confermato Incandela - ha mai detto la verità su questa storia. Ma quale pentimento, quello non ha retto all'isolamento e dopo quattro giorni è crollato. Lo scriva, mi raccomando: non esiste un pentimento dell’anima, ma una tentazione della gola. È questa la verità vera».

Il Maresciallo, nell’intervista, si dice ispirato da quarant’anni dai valori dell’ordine e della disciplina, definendosi «umile servitore dello Stato». Devono averlo recentemente abbandonato questi valori a giudicare dall’arresto nel 2008, alla tenera età di 73 anni, con l’accusa di essersi “posto al centro di un’articolata rete di rapporti clientelari con funzionari pubblici e privati, anche di notevole livello, realizzando con essi un continuo scambio di “favori”, finalizzato a reciproca utilità” (fonte CuneoCronaca.it).

Mah, non per alimentare una interpretazione dietrologica dalla quale mi ritengo distante anni luce. Ma secondo me, sulla vicenda Peci, non ce l’hanno raccontata giusta. E, soprattutto, non ce l’hanno ancora raccontata tutta.
 

Fotografie del 20/10/2008

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