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Chi controlla il passato controlla il futuro; chi controlla il presente controlla il passato

George Orwell
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Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 
Di Manlio  03/04/2015, in Attualità (5588 letture)

Pochi giorni fa è venuto a mancare l’avv. Giannino Guiso. Come ricordano molti giornali fu avvocato difensore di Craxi, Mesina e Pillitteri. Avvocato vicino al PSI, difese diversi politici implicati nella stagione di Mani Pulite. Qualcuno ricorderà la frase “La storia giudicherà chi ha tentato di giudicarlo” che Giannino Guiso pronunciò nel gennaio del 2000 subito dopo la morte dell’assistito ed amico Bettino Craxi.

In questi giorni è stato ricordato anche un altro ruolo importante: quello che fece, come difensore di Curcio e Franceschini da un lato, e come esponente dell’area socialista dall’altro, di avviare un tentativo di trattativa per la liberazione di Aldo Moro coinvolgendo i brigatisti del cosiddetto “nucleo storico” che in quei giorni erano sotto processo a Torino.

Mentre lavoravo all’ultimazione della prima edizione di Vuoto a perdere, riuscii a stabilire un contatto con l’avv. Guiso: me ne interessai perché parlando dell’azione “umanitaria” del PSI il suo ruolo era stato importante e volevo avere il suo parere su ciò che avevo scritto e, soprattutto, se avesse qualcosa da aggiungere.

Nei primi colloqui fu molto cordiale. Mi parlò del tentativo di individuare un terrorista che non si fosse macchiato di reati di sangue e, a seguito di una prima analisi, vennero fuori i nomi di Cesare Maino e Alberto Buonoconto.
Gli spedii la parte del testo che lo vedeva, in qualche modo, coinvolto. Quando lesse queste parole, Guiso andò su tutte le furie:

<<Secondo Franceschini, fu steso un comunicato nel quale i brigatisti storici proponevano di spostare il terreno della trattativa, dalla liberazione di prigionieri politici al miglioramento delle condizioni carcerarie. Fu chiesto all’avvocato Guiso di riferire a Craxi, che se i socialisti avessero appoggiato la proposta, i detenuti avrebbero dichiarato pubblicamente che “la vita di Moro doveva essere salvata”.>>

Mi disse che questa affermazione non stava né in cielo né in terra e che le cose stavano in modo molto diverso. Che altro non ero se non l’ennesimo tentativo di strumentalizzazione della sua vicenda, sulla quale era sempre stato chiaro e trasparente.
Poi gli dissi che forse non ricordava bene il testo che gli avevo mandato in quanto, poche righe prima, specificavo che quella frase non era mia ma del suo ex assistito Alberto Franceschini e che lo aveva scritto in un libro da poco uscito.
Il suo atteggiamento cambiò. Tornò ad essere cordiale e disponibile, mi disse che avrebbe chiarito questa dichiarazione con l’ex terrorista e mi raccontò altre cose.

Ad esempio mi disse che, secondo lui, la sua iniziativa era molto concreta e aveva buone possibilità di essere portata a termine. Solo che qualcuno, probabilmente, si mise di traverso spezzando il dialogo che Guiso aveva pazientemente costruito e stava faticosamente portando a termine.
Pochi giorni prima del 9 maggio, iniziò a riscontrare cambiamenti di atteggiamento nei suoi riguardi: dove prima vi era attenzione e interesse notò diffidenza e lassismo. Tanto che, mi disse, quelli che prima lo definivano “illustre cassazionista” lo etichettavano come un “oscuro avvocato di provincia”. E fu il suo amico Walter Tobagi a metterlo in guardia: “Ti vogliono fermare”.

Lui era davvero convinto di riuscire ad ottenere la liberazione di Moro e contava molto sull’apertura di Fanfani (che aveva preso accordi con il vice presidente del PSI Signorile). Guiso aveva una possibilità in più, a differenza di altri, e sapeva di poterla utilizzare al meglio: le pressioni su Curcio e sugli altri perché facessero una dichiarazione esterna. E si era arrivati ad un passo dall'ottenerla...

E poi mi disse la sua opinione cocnlusiva, e parlo di opinione in quanto non mi è stato possibile confortarla da fatti.

“Le Brigate Rosse - mi disse con tono molto calmo - sono state costrette ad uccidere Aldo Moro”
“Cosa vuole dire?”
“Esattamente quello che ho detto”
“Si – replicai cercando di farlo essere più preciso – ma questa era un’ovvia conseguenza se si considera che dall’altra parte non si volle trattare”
“Non mi ha capito. Loro lo volevano liberare. Sono state costrette dall’esterno…”
Non feci a tempo ad aggiungere nulla che stroncò la comunicazione.
“E non mi faccia aggiungere altro. Ho già subito due attentati per aver detto queste cose e non ho nessuna intenzione di subirne un terzo. Arrivederci.”

Da allora non l’ho sentito più. Avrei potuto richiamarlo, approfondire, magari anche invitarlo ad una presentazione del libro, ma preferii rispettare quella sua decisione di chiudere la conversazione. Perché era evidente che questo era il suo intento, con quella frase conclusiva.

Nei colloqui precedenti, Guiso mi parlò del caso Moro per quello che, secondo lui, era: un sequestro di persona. Perché il 16 marzo c’era stato un omicidio plurimo, il 9 maggio un ulteriore omicidio ma nei 55 giorni la vicenda altro non era che un sequestro di persona. Politico, ovviamente, ma sempre un sequestro. E nei sequestri, si tratta. E trattare non vuol dire dare degli ultimatum unilaterali ma, in qualche modo, dialettizzarsi.

Guiso ha scritto un libro a ridosso della vicenda, “La condanna di Aldo Moro” (1979) che non ha avuto la diffusione che meritava, soprattutto nel tempo. Forse non a caso.

La sostanza delle parole di Guiso, che non credeva ovviamente a eterodirezioni o condizionamenti esterni delle BR, è molto semplice.
Al di la delle iniziative pubbliche (comunicati, articoli, dichiarazioni del governo, ecc.) vi furono azioni istituzionali che portarono ad una trattativa concreta con i brigatisti. Una trattativa fatta di contatti reali e di mediazioni politiche e materiali. Portata avanti in nome e per conto delle Istituzioni. Poi vi furono altre azioni, differenti per protagonisti ed obiettivi che non si sovrapponevano ma neanche ostacolavano la trattativa “ufficiale”. Anzi, in un certo senso, potevano rappresentare un’utile velo protettivo. Azioni autonome, come quella dello stesso Guiso, di Cazora, dei collaboratori di Moro ecc.

Il problema era che, quando sembrava ormai andata in porto, la trattativa fallì, proprio nelle ultimissime ore. L’onorevole Signorile parla di sabotaggio. Qualcuno tradì? Qualcuno osò troppo? Sta di fatto che le BR ormai sicure di aver portato a casa il risultato furono costrette, da un cambiamento esterno delle condizioni sulle quali si era fino a quel momento giocato, ad uccidere il prigioniero.

Forse Guiso aveva capito il meccanismo che aveva portato all’arenarsi la sua trattativa che, ripetiamolo, lui stesso riteneva molto concreta ed in grado di portare alla liberazione di Aldo Moro. Forse aveva addirittura individuato i responsabili del “sabotaggio”. Ma, evidentemente, nulla poté per impotenza o mancanza della “smoking gun”. 

Era un grande avvocato, ma troppo piccolo per cambiare la storia.

 
In attesa dell'intervista integrale di Raffaele Fiore, ecco cosa ne pensa l'ex ispettore della Digos Enrico Rossi.

Moro: Rossi(ex Digos), anche Fiore disinforma e depista? Tanti sanno nello Stato di questa vicenda, e' ora che parlino
(ANSA) -
ROMA, 18 GIU - "Mi rivolgo a coloro che sanno, e non sono pochi, a Torino e non, e gli chiedo un atto di coraggio.
Raccontate quello che sapete sulla vicenda della Honda in via Fani: dire la verita' vi rendera' piu' coraggiosi". Lo dice Enrico Rossi, l'ex funzionario della Digos di Torino che ha svelato, in una intervista all'Ansa lo scorso 23 marzo, la storia della inchiesta "interrotta" sulla presenza di una moto in via Fani il 16 marzo del 1978 e non riconducibile ai Br.
"Dopo quella intervista ho subito gravi denigrazioni sia a livello personale che professionale. Politici di vari schieramenti, da destra a sinistra hanno detto che bisognava 'tapparmi la bocca' perche' ammorbavo l'aria e che il mio scopo era di intorbidire le acque in cui si dibattono reduci degli apparati di sicurezza dello Stato, in perenne conflitto tra
loro. Ora ha parlato un brigatista, ne' pentito ne' dissociato come Fiore, che si trovava in via Fani la mattina del 16 marzo
1978. Rientra anche lui in un disegno occulto finalizzato a disinformare e depistare, mescolando vero e falso, per spostare
l'attenzione sui servizi segreti nostrani o, piu' semplicemente, il signor nessuno, l'ex Ispettore della Rossi ha soltanto detto
la verita' in merito ad un'indagine inspiegabilmente sottovalutata? ".
 


Sul settimanale Oggi (in edicola da giovedì 18 giugno) ha intervistato l’ex brigatista Raffaele Fiore, uno dei componenti del commando che il 16 marzo ’78 partecipò all’agguato di via Fani nel quale fu rapito il presidente della DC Aldo Moro e uccisi i 5 componenti della sua scorta.


Nell’ultimo anno le novità non sono certo mancate: la vicenda raccontata da Giovanni Ladu che nella seconda metà di aprile del ’78 sostiene di essere stato, assieme ad un gruppo di 10 militari di leva, utilizzato per servizi di sorveglianza dell’appartamento di via Montalcini, la testimonianza degli artificieri Vito Raso e Giovanni Circhetta che raccontano di essere intervenuti in via Caetani attorno alle 11 del mattino con la indiretta conferma dell’On. Claudio Signorile che ha più volte detto di aver avuto la notizia proprio verso le 11 mentre si trovava nello studio del Ministro dell’Interno Cossiga ed infine la rivelazione dell’ex ispettore di polizia Enrico Rossi che si occupò di indagare (nel 2009) della “famosa” moto Honda di via Fani e dei suoi occupanti.


In un certo senso Fiore, con le sue parole, chiude il cerchio. 

Parlando di via Fani, l’ex brigatista è molto determinato “C’erano persone che non conoscevo. Che non dipendevano da noi. Che erano altri a gestire”. Parole molto forti che contrastano con quanto sempre raccontato dai pochi brigatisti che hanno, a vari livelli, parlato e permesso di ricostruire la dinamica dell’agguato del 16 marzo.


Riguardo alla moto Honda il suo pensiero è molto preciso: “Nè io nè gli altri compagni sappiamo nulla della moto, abbiamo avuto modo di parlarne e di riflettere. Non so se c'era, nè chi erano i due a bordo. Non facevano parte del commando dell'organizzazione”. Questa sembrerebbe la conferma definitiva dell’esistenza di una moto estranea al commando e del fatto che i brigatisti dopo l’azione ne avessero discusso tra loro meravigliati. E detta da uno dei partecipanti attivi di via Fani, che sparò proprio contro la FIAT 130 di Moro e che poi trasbordò materialmente il presidente sulla FIAT 131 guidata da Bruno Seghetti, potrebbe avere un peso.
Riguardo alle ingerenze esterne, Fiore aggiunge: “Non c'è stato un uso strumentale di altre forze. C'era una situazione per cui facendo qualcosa rischiavi, pur non volendo, di essere 'utile' ad altri”. Come a dire: nessuna etero-direzione e nessun infiltrato ma solo l’aver potuto fare il gioco di qualcun altro.


La conclusione di Fiore è una duplice ammissione: “Noi siamo stati costretti a quella soluzione finale […] volevamo solo il rilascio dei nostri compagni, poi abbiamo capito che non sarebbe stato facile portare avanti la battaglia. Che erano entrate troppe forze in campo”. 

Attendendo di poter leggere l’intervista integrale, cerchiamo di sintetizzare gli elementi a disposizione.

Le BR rapiscono Moro e lo tengono prigioniero agendo autonomamente ma consapevoli che questa loro azione non troverà solo oppositori ma anche ‘forze’ che potrebbero aver in un primo momento lasciato fare. Andando avanti con la gestione del sequestro, i brigatisti si rendono conto che la trattativa (‘battaglia’) era più complicata del previsto, soprattutto per la discesa in campo di altre forze che, nel complesso meccanismo creatosi, agivano in maniera autonoma per perseguire il proprio obiettivo (liberazione o eliminazione del prigioniero). Alla fine, deve aver evidentemente avuto la meglio una (o più) delle forze che si mossero per assicurarsi la conclusione cruenta del sequestro.

E’ questo che, almeno io, leggo nelle parole di Raffaele Fiore che potrebbero essere un elemento nuovo a supporto di un pensiero che ormai sostengo da tempo. In questa storia le BR hanno raccontato la loro parte (con delle omissioni “accomodanti”), ma hanno sempre rifiutato di parlare di ciò che non li riguardava. 

Dell’altra metà del cielo, quella che riguarda il comportamento dello Stato e dei suoi apparati, si sa solo che le Istituzioni si arroccarono dietro una fermezza politica alla quale non corrispose un’efficienza investigativa. Ma forse è venuto il momento di iniziarla a raccontare quest’altra metà.

Potrà essere una Commissione Parlamentare a farlo? 

Staremo a vedere.

 

E’ da poche ore uscita una notizia che non può certo passare inosservata: un funzionario di Polizia in pensione racconta la sua inchiesta, partita nel 2009 a seguito di una lettera anonima, che porta direttamente in via Fani, alla mattina del 16 marzo 1978 e ad uno dei “misteri” di quell’agguato: la moto Honda. L’ha pubblicata l’ANSA e l’ha curata, come è ovvio per questo tipo di argomenti, il giornalista Paolo Cucchiarelli (autore assieme al sottoscritto dell’inchiesta degli orari del ritrovamento del cadavere di Moro in via Caetani, pubblicata nel giugno del 2013).
Una moto Honda fu vista da diversi testimoni quella mattina, sia prima che subito dopo l’assalto dei brigatisti che però hanno sempre negato ogni responsabilità in merito. L’intervista riporterà in  auge un vecchio refrain che collega la presenza della moto Honda con un presunto superkiller estraneo alle BR proprio la motocicletta avrebbe  portato via dalla scena dell’agguato ad Aldo Moro. Ho più volte dimostrato che non ci fu nessun superkiller super addestrato e quindi non tornerò su parole già scritte soprattutto in “Vuoto a perdere”.
Voglio però sottolineare un altro elemento sempre trascurato che lega la moto Honda al c.d. “cancelletto superiore” e che rappresenta il vero, grosso “vuoto” di quella mattina.
Procediamo con ordine.
Non esiste un’arma che sparò 49 colpi in quanto questa ipotesi fu avanzata dai periti nel corso della prima perizia, allorquando le armi dei brigatisti non erano ancora state sequestrate ed era, di conseguenza, impossibile fare riscontri precisi. Nel 1994 una nuova perizia, fatta ad armi sequestrate, consentì di individuare con esattezza 5 delle 6 armi che spararono in via Fani. Ne restò fuori una sesta che sparò dall’alto della scena esclusivamente contro l’agente Iozzino che fu l’unico a riuscire a tentare una minima reazione uscendo dall’alfetta di scorta e riuscendo ad esplodere appena due colpi contro gli avventori.
Da chi fu freddato Raffaele Iozzino? La perizia dice che fu colpito da 17 colpi provenienti tutti dal lato sinistro del corpo e, quindi, da uno sparatore posizionato all’altezza delle auto in sosta sul alto opposto. Chi c’era in quella posizione? Secondo la ricostruzione ufficiale, nessuno.
A presidiare la parte alta della zona dell’agguato c’erano Alessio Casimirri e Alvaro Lojacono, due irregolari della colonna romana che non hanno scontato nemmeno un giorno di carcere in Italia: il primo vive tranquillamente in Nicaragua da oltre trent’anni, il secondo (acquisita la cittadinanza svizzera per via della madre) ha scontato 11 anni di carcere in Svizzera per l’omicidio Tartaglione. Il paese elvetico non ha mai concesso l’estradizione e dopo essere uscito dal carcere Loiacono si è rifugiato in Francia.
Tre testimoni hanno visto qualcosa di diverso proprio in quel preciso posto. Il primo, Paolo Pistolesi, figlio dell’edicolante che aveva il suo chioschetto dei giornali a pochi metri di distanza, vide un uomo non in divisa ma con un sottocasco da motociclista che impugnava un mitra e che gli intimò per ben due volte di allontanarsi, la seconda volta puntandogli contro l’arma. Al che il giovane si buttò dietro un’auto in sosta e non vide più nulla. Dal loro balcone, i coniugi Tullio Moscardi e Maria Iannacone erano in grado di vedere solo un pezzo dell’area della strada sottostante dove si stava consumando l’agguato. E notarono un uomo con un qualcosa di lana in testa (uno zuccotto o un passamontagna non calato sul viso) con un mitra in mano che sbucato da dietro delle auto in sosta sul marciapiede sotto la loro visuale esplose due raffiche verso il centro della strada.
A questi testimoni diretti possiamo aggiungere il testimone principale di quella mattina, quell’ing. Alessandro Marini che assistette all’assalto da pochissimi metri e, soprattutto, fu forse l’unico a poter guardare tutta la scena dall’inizio alla fine. Ed egli racconta che ad un certo punto vide uscire dall’alfetta di scorta un poliziotto che reagì contro gli assalitori ma fu freddato da altri due individui, improvvisamente sbucati fra le autovetture in sosta poco oltre i quattro avieri.
Appare quindi assodato che Iozzino sia stato ucciso da un assalitore non in divisa e con un copricapo che non gli occultava completamente il viso (uno zuccotto di lana, un sottocasco di un motociclista, un passamontagna non calato).
Ma di questo killer, nella ricostruzione giudiziaria si perdono le tracce. Eppure bastava mettere insieme queste testimonianze per aprire un problema non secondario nella dinamica dell’agguato.
Con che arma ha sparato? Nei pressi delle auto posteggiate sul lato destro della strada sono stati rinvenuti due mucchietti di bossoli, calibro 9, che coincidono con i proiettili estratti dal corpo di Iozzino e dentro l’alfetta. Purtroppo, però, di questa ventina di colpi non è stato possibile risalire all’arma che li ha esplosi in quanto le rigature sui proiettili erano caratteristici di una canna molto usurata oppure manomessa per rendere difficile (o impossibile) riconoscerne la firma. Arma che, manco a dirlo, è l’unica tra quelle che hanno sparato in via Fani a non essere stata mai sequestrata.
Ed è la seconda cosa collegata al “cancelletto superiore” che sparisce.
E’ molto probabile che quell’aggressore fosse l’unico con un copricapo diverso da un berretto militare che fu notato dagli altri testimoni: nessun altro, infatti, ha accennato a brigatisti semi-mascherati. E sulla moto Honda l’ing. Marini notò proprio un uomo armato che aveva un passamontagna (nel luglio del ’79 parlò di un probabile zuccotto di lana in testa).
Ricapitoliamo. Un killer non in divisa che spunta da auto in sosta poste ben al di la della zona occupata dagli “avieri” che avrebbero sterminato la scorta di Moro e che, con tempestività, uccide l’unico agente che era riuscito a tentare una reazione. Come se fosse li per controllare e intervenire solo in caso di necessità. Che spara con l’unica arma mai rinvenuta e della quale è impossibile riconoscerne la natura. Che (probabilmente) sale su una moto Honda che non è presente nelle ricostruzioni giudiziarie dove è stata presa per vera la dinamica che fornisce Valerio Morucci (con tanto di posizioni e, in un secondo momento, nomi e cognomi) che, però, nega categoricamente sia la presenza della moto come mezzo a disposizione delle BR sia la possibilità che a sparare possa essere stato anche altro brigatista che non fosse tra i quattro avieri.
Che fossero in molti ad aver saputo in anticipo dell’azione brigatista è cosa piuttosto evidente. Che qualcuno sia andato sul luogo per rendersi conto di persona, occultare indizi, carpire informazioni preziose, s’era capito date le troppe presenze inspiegabili sul luogo solo un attimo dopo la fuga dei brigatisti.
Adesso un ex funzionario di Polizia afferma che su quella moto ci sarebbero stati due 007 con il compito di proteggere lo svolgersi dell’agguato brigatista.
Poiché per quanto detto poche righe fa, uno degli occupanti della moto Honda fu colui che certamente uccise Raffaele Iozzino, emerge un quadro allucinante, al quale non voglio neanche pensare. L’agente dei servizi divorato dal cancro nel 2009 avrebbe materialmente sparato contro un suo collega.
Follia? Dietrologia? Non so, non è mio compito spingermi oltre. Non ne ho gli strumenti e non voglio imbarcarmi in ipotesi personali.
Mi attengo ai fatti. E questi dicono inequivocabilmente che chi ha crivellato di colpi Raffaele Iozzino è salito sulla moto Honda che Giovanni Intrevado, un poliziotto non in servizio che si trovava per caso sul luogo, si vide passare accanto con molta calma, a sparatoria conclusa e auto dei brigatisti andate già via.
Speriamo che adesso questo nuovo pezzo possa venire adeguatamente esaminato dagli inquirenti che stanno lavorando nuovamente sul caso Moro e che possa portare ad un risultato netto: si o no.
Quando dico che le parti di verità mancanti vanno ricercate più nella parte del cielo che riguarda i comportamenti di c.d. uomini dello Stato che delle Brigate Rosse, forse non ho tutti i torti.
E c’è chi continua a depistare fomentando improbabili ricerche negli archivi dell’est europeo.

 


"Tutto è partito da una lettera anonima scritta dall'uomo che era sul sellino posteriore dell'Honda in via Fani quando fu rapito Moro. Diede riscontri per arrivare all'altro. Dovevano proteggere le Br da ogni disturbo. Dipendevano dal colonnello del Sismi che era lì". Enrico Rossi, ispettore di polizia in pensione, racconta all'ANSA la sua inchiesta.

L'ispettore racconta che tutta l'inchiesta è nata da una lettera anonima inviata nell'ottobre 2009 a un quotidiano. Questo il testo:

"Quando riceverete questa lettera, saranno trascorsi almeno sei mesi dalla mia morte come da mie disposizioni. Ho passato la vita nel rimorso di quanto ho fatto e di quanto non ho fatto e cioè raccontare la verità su certi fatti. Ora è tardi, il cancro mi sta divorando e non voglio che mio figlio sappia. La mattina del 16 marzo ero su di una moto e operavo alle dipendenze del colonnello Guglielmi, con me alla guida della moto un altro uomo proveniente come me da Torino; il nostro compito era quello di proteggere le Br nella loro azione da disturbi di qualsiasi genere. Io non credo che voi giornalisti non sappiate come veramente andarono le cose ma nel caso fosse così, provate a parlare con chi guidava la moto, è possibile che voglia farlo, da allora non ci siamo più parlati, anche se ho avuto modo di incontralo ultimamente...".

L'anonimo fornì anche concreti elementi per rintracciare il guidatore della Honda. "Tanto io posso dire, sta a voi decidere se saperne di più". Il quotidiano all'epoca passò alla questura la lettera per i dovuti riscontri. A Rossi, che ha sempre lavorato nell'antiterrorismo, la lettera arriva sul tavolo nel febbraio 2011 "in modo casuale: non è protocollata e non sono stati fatti accertamenti, ma ci vuole poco a identificare il presunto guidatore della Honda di via Fani". Sarebbe lui l'uomo che secondo uno dei testimoni più accreditati di via Fani - l'ingegner Marini - assomigliava nella fisionomia del volto ad Eduardo De Filippo. L'altro, il presunto autore della lettera, era dietro, con un sottocasco scuro sul volto, armato con una piccola mitraglietta. Sparò ad altezza d'uomo verso l'ingegner Marini che stava "entrando" con il suo motorino sulla scena dell'azione.

"Chiedo di andare avanti negli accertamenti - aggiunge Rossi - chiedo gli elenchi di Gladio, ufficiali e non, ma la "pratica" rimane ferma per diversi tempo. Alla fine opto per un semplice accertamento amministrativo: l'uomo ha due pistole regolarmente dichiarate. Vado nella casa in cui vive con la moglie ma si è separato. Non vive più lì. Trovo una delle due pistole, una beretta, e alla fine, in cantina poggiata o vicino ad una copia cellofanata della edizione straordinaria de La Repubblica del 16 marzo con il titolo 'Moro rapito dalle Brigate Rosse', l'altra arma". E' una Drulov cecoslovacca, una pistola da specialisti a canna molto lunga che può anche essere scambiata a vista da chi non se ne intende per una piccola mitragliatrice. Rossi insiste: vuole interrogare l'uomo che ora vive in Toscana con un'altra donna ma non può farlo. "Chiedo di far periziare le due pistole ma ciò non accade". Ci sono tensioni e alla fine l'ispettore, a 56 anni, lascia. Va in pensione, convinto che si sia persa "una grande occasione perché c'era un collegamento oggettivo che doveva essere scandagliato". Poche settimane dopo una "voce amica" gli fa sapere che l'uomo della moto è morto e che le pistole sono state distrutte. Rossi attende molti mesi- dall'agosto 2012 - prima di parlare, poi decide di farlo, "per il semplice rispetto che si deve ai morti".

 


Non sono passati neanche due giorni, che si ripresenta il problema: a scanso di equivoci, meglio una punizione esemplare di un qualcosa che non esiste piuttosto che non cogliere l'occasione di un ulteriore riduzione di spazi di manifestazione.

Una ammucchiata di "reduci", piuttosto anzianotti e in molti casi malmessi, si stringono attorno al feretro di Prospero Gallinari, un compagno esemplare che ha saputo essere solidale con tutti loro, senza speculare nè permettere speculazioni sulla storia collettiva. E il saluto all'ex compagno non poteva che essere accompagnato da simbolismi ben precisi: pugni chiusi e canti di lotta intonati in maniera molto approssimativa ma assolutamente spontanea.
Il tutto con grande umanità e affetto verso un compagno di tante battaglie che se ne è andato. Con spontaneità.

Il tutto, è bene sottolinearlo, accompagnato dal massimo ordine, nessun tafferuglio, tutti in fila con compostezza per salutare e ricordare Gallinari.

Poichè la Procura di competenza è quella di Bologna (cui la Procura di Reggio Emilia ha girato la segnalazione ricevuta dalla DIGOS) l'ipotesi di reato è comunque qualcosa di legato al terrorismo.

Francamente mi sembra eccessivo, considerando il luogo e le persone, considerando che tre dei quattro indagati sono Loris Tonino Paroli, Salvatore Ricciardi e Sante Notarnicola che messi insieme sfiorano i 200 anni di età.

A studiarla bene la storia delle BR, non solo quella giudiziaria ma proprio quella politica, queste manifestazioni troverebbero spazio in foto da associazione di reduci ("a macchiare di ricordi un muro") piuttosto che sottrarre prezioso tempo a Procure già stracariche di lavoro serio.

 

Che in Italia si fosse divisi su tutto, lo si sapeva dal '48. Da allora c'è sempre stato un clima da curva nord contro curva sud. E fino agli anni '80 non si poteva dire che il nostro fosse un caso isolato: la "guerra fredda" era combattuta da due schieramenti che formalmente non hanno acceso fuochi devastanti ma le cui scintille hanno innescato parecchi fuocherelli in ogni angolo del Mondo. Uno di questi fuochi sembra sia ancora ardente nel nostro Paese, unico caso sul pianeta dove la "guerra fredda" è continuata ignorando i cambiamenti (spesso drammatici) della storia.

Eppure non siamo stati gli unici ad essere devastati dalle contestazioni, dalla violenza e dai lutti.

Anche la Germania e la Francia,  con matrici ed in forme diverse, hanno registrato fenomeni molto simili. Eppure non credo che a un qualsiasi leader politico francese o tedesco colpito da una sentenza della magistratura (giusta o sbagliata che sia) possa venire in mente di associare la sua vicenda a tragiche storie del passato. Cosa succederebbe, ad esempio, se un tedesco accostasse la sua immagine alla triste foto di Hanns Martin Schleyer e la sbandierasse in piazza?

Non so quale sarebbe la reazione dell'opinione pubblica, ma di certo so che la cosa non potrebbe accadere. Per quale motivo? Perchè in Germania (così come in Francia) hanno avuto il coraggio, istituzioni e società, di misurarsi con la loro storia, di contestualizzare gli anni della lotta armata confinandoli all'interno di un recinto nel quale ciascuno ha fatto un mea-culpa, ciascuno si è assunto la sua parte di responsabilità. Non sarebbe stato possibile, altrimenti, realizzare film come Anni di piombo e La banda Badeer Mainhoff.

Invece da noi quei tragici eventi sono serviti per fare i conti con gli avversari politici, strumentalizzare il futuro sapendo che ognuno ha una parte da tutelare. Un segreto condiviso che permette a ciascuno di attribuire colpe all'avversario politico impedendo, di fatto, di confrontarsi sul problema politico attuale.

Quale è la differenza? Molta. Solo per fare degli esempi recenti possiamo ricordare chi manda le lettere anonime ad assessori che gli hanno negato una concessione edilizia o del professore che, sul lunotto posteriore della sua auto, espone un appello alle Brigate Rosse. Perchè nessuno di loro sa il perchè una fetta di una generazione prese le armi e perchè il loro progetto politico fallì. Oppure degli imbecilli che, per eccessivo uso della memoria, sfilano fino alla ex sede del MSI di Padova e con cerimoniale degno di un celebroleso urlano: "Camerata Graziano Giralucci. Presente" (con annesso saluto romano, come ripreso dal bel documentario di Silvia Giralucci 'Sfiorando il muro'.

O come, per stare sulla cronaca di queste ore, hanno pensato bene di fare altrettanti imbecilli politici esponendo in strada davanti a Palazzo Grazioli (quindi un luogo istituzionale) un fotomontaggio della famosa polaroid che ritraeva Aldo Moro nella sua lunga prigionia: Silvio Berlusconi con lo stendardo delle BR sullo sfondo e in primo piano la scritta "prigioniero politico". Non è la prima volta che i servi del cavaliere utilizzano questi termini (>Qui un altro caso del 2011<) e non sarà l'ultimo.

Credo che il terreno di scontro dei prossimi mesi, sarà proprio questo.

Lo spettro del terrorismo è stato già troppe volte evocato invano. Se non è successo nulla è perchè non può succedere nulla, dato che le condizioni sono infinitamente diverse rispetto a 30 anni fa. Paradossalmente c'è più crisi, ma non fu la crisi a far intraprendere a  tanti giovani la strada della violenza come strumento per fare politica. Fu la convinzione che un altro futuro era possibile, l'idea che la società potesse volare e che era necessario rompere le catene.

Oggi chi ha più il pensiero rivolto al futuro? Chi vuol togliere le catene? Chi vuole più volare?

Non essendoci fenomeni da strumentalizzare, non resta che strumentalizzare il passato, il che fa sempre un certo effetto.

Non succederà nulla di terribile, se non che la politica si allontanerà sempre più dalla gente ed il dibattito si abbasserà scendendo ancora di livello.

 
Di Manlio  21/10/2013, in Attualità (1577 letture)


La commissione Affari Costituzionali della Camera dei deputati ha dato il via libera per l'istituzione di una nuova Commissione d'inchiesta sul caso Moro. Si tratta, a mio avviso, di un'iniziativa diversa dalle precedenti e che proprio per le sue caratteristiche distintive, potrebbe essere efficace.

In primo luogo non ha la pretesa di affrontare un argomento così complesso in tutta la sua vastità. Dovendosi occupare esclusivamente della fase finale della vicenda (cosa ha determinato la decisione in extremis delle BR di uccidere il prigioniero) può concentrare le sue forze su pochi eventi ma andare più a fondo. Ad esempio, senza dover andare a cercare troppo lontano ad esempio >negli archivi della STASI<, potrebbe bastare chiedere la desecretazione di oltre un centinaio di faldoni sul caso Moro tutt'ora secretati al Ministero degli Interni. E credo che ne uscirebbero delle belle. Ad esempio mi piacerebbe sapere cosa c'era scritto di tanto compromettente su quella mappa di via Caetani che è stata secretata oppure in quella lettera del dirigente del I Distretto di Polizia (quello che intervenne in la mattina del 9 maggio) al Ministro dell'Interno. Prima di spendere soldi per cercare risposte improbabili lontano da casa, spostiamo i tappeti di casa nostra...

In secondo luogo, la Commissione si è data un arco temporale molto breve (solo 18 mesi) ed un budget molto ridotto: 30.000 euro, diviso i 18 mesi, fa circa 1.666 euro/mese, poco più dei rimborsi benzina per chi farà le indagini.

E' vero, abbiamo speso molti soldi in passato e nonostante la maggiore vicinanza degli eventi non è emerso nulla di sconvolgente rispetto a quanto appurato in fase processuale. Ma stavolta ci sono elementi nuovi che possono, almeno in parte, permetterci di chiarire meglio il ruolo dello Stato nel determinare la morte di Moro.

Intendiamoci. Probabilmente nessuno andrà più in galera, forse qualcuno resterà deluso da un nuovo pezzo di verità forse difficile da digerire per chi ha difeso fino ad oggi ad oltranza la linea della fermezza. Nei discorsi celebrativi tutti parlano di volersi impegnare per conoscere le zone d'ombra che ancora ci sono: non perdiamo questa occasione, per le vittime, per i familiari e per l'intero Paese.

 

Questo il lancio ANSA del 17 Ottobre:

Moro: Grassi, la verità non é ancora questione di storici Politica, cioé coscienza del Paese, faccia i conti con passato (ANSA)
ROMA, 17 OTT – “La commissione Affari costituzionali della Camera prosegue l'esame della proposta di legge per l'istituzione di una commissione d'inchiesta sul Caso Moro, la prossima settimana é atteso il primo via libera per il voto dell'Aula”. Lo spiega il vicepresidente del gruppo Pd alla Camera, Gero Grassi, il quale aggiunge che “La proposta, condivisa da tutti i gruppi, prevede che i lavori della commissione, composta da trenta deputati, siano conclusi entro diciotto mesi dal suo insediamento, la presentazione di una relazione sulle risultanze delle indagini, e quantifica le spese per il suo funzionamento in 30.000 euro l'anno, ponendole a carico del bilancio interno della Camera: per i commissari nessun contributo aggiuntivo. Spero che questo metta a tacere le fragili polemiche sui costi di questo organismo parlamentare”. “Come ha spiegato il relatore del provvedimento, Gianclaudio Bressa, i 55 giorni del sequestro di Moro si sono trasformati in un ‘luogo paradossale’ della memoria italiana. Da allora si sono celebrati cinque processi, sono state istituite due commissioni parlamentari d'inchiesta, si é accumulata una sterminata produzione di testi, studi, ricerche, libri. Ma oggi sono emersi elementi di novità che riguardano azioni e omissioni e che ruotano sul sospetto, sempre più connotato da certezza, che la morte di Moro poteva essere evitata. É tempo di definire una verità credibile sulla vicenda: e prima che tutto questo diventi materia solo degli storici é bene che la politica, cioé la coscienza del paese, cerchi ulteriori possibilità di poter fare i conti con il passato”.


 
Di Manlio  04/10/2013, in Attualità (1890 letture)

Un caro amico che vive in america mi ha segnalato una perla del consulente (?) americano che è recentemente tornato alla ribalta dopo l'intervista a Radio24 nella nuova trasmissione di Minoli.

Si tratta di un necrologio molto particolare scritto poco dopo la morte di Gallinari ed a lui dedicato. Non sono i contenuti che lasciano perplessi, almeno quelli nei riguardi dell'ex brigatista, quanto una serie di considerazioni a margine sulla politica e sui politici italiani, pesanti insulti contro Aldo Moro e una buona parola anche per Silvio Berlusconi.

Ed anche la forma. Appare un vomitare di bile, di odio represso per 35 anni che, frnacamente, da uno che colleziona best-seller non ci saremmo aspettati. almeno io.

In questo >PDF< trovate un mio articolo di analisi del testo ed il link dell'originale.


 

Stamattina nel corso della trasmissione Mix24 in onda su Radio24, GiovanniMinoli ha itnervistato Steve Pieczenick, il consulente americano esperto diterrorismo e di mediazioni in caso di rapimento di ostaggi che fece da consigliere personale al Ministro dell'Interno Cossiga nella gestione della crisi dei 55 giorni del rapimento Moro.

Sostanzialmente ribadisce le cose che ebbe modo di raccontare al giornalistafrancese Emmanuel Ammarà che pubblicò un libro in Francia nel 2007 e che poi il successivo anno fu tradotto in italiano da Nicola Biondo ed uscì per Cooper.

Di per se non mi sembra vi siano sconvolgenti novità. Ricordo anche che neldocumentario francese si vede Ammarà che fa visionare il DVD della registrazione delle parole di Pieczenick a Francesco Cossiga chiedendogli un commento. E l'emerito, con uno sguardo molto serio, disse che era tutto vero. Ma non successe nulla. Come sempre.

Nei lanci di agenzia si legge che il PM Palamara avrebbe chiesto alla DIGOSdi acquisire l'intervista da Radio 24. Sorrido perchè l'audio di queste grossetestate è reperibile facilmente online grazie ai podcast (ed infatti nell'area riservata di Vuoto a perdere c'è già da un paio di ore) e quindi immagino i solerti funzionari della Polizia che si recano presso la sede dell'emittente per chiedere un "nastro" che è di pubblico dominio...

Ma quello che mi ha colpito di più è l'articolo di >Lettera43< che fa riferimento alle altre vicende sulle quali Palamara è impegnato a cercare di fare chiarezza. In primis sulla questione degli orari delritrovamento del cadavere di AldoMoro. E Lettera 43 fa un riferimento specificoall’intervista a Piera Degli Esposti che fu mandata in onda dal TG5 nella prima settimana di luglio, qualche giorno dopo l’uscita dell’inchiesta. L’attrice ha raccontato di essere stata tutta la mattina in via Caetani (e sottolineo tutta perché dice diessersi alzata presto, di aver fatto colazione nei pressi di via Caetani e di essere andata via pochi minuti prima del rinvenimento della R4), per molto tempo addirittura appoggiata sulla Renault rossa e di non aver mai visto né artificieri tantomeno uomini politici in via Caetani.

Questa cosa, secondo me, inizia ad essere seria e a lasciar intravedereconnotati molto più pesanti di quanto apparirebbe a prima vista, e cioè un semplice dettaglio. Non dimentichiamo che Vito Raso ha detto di aver visto versole 11, nei pressi della R4 una ragazza vestita in modo alternativo, alta, capelli neri non corti che si avvicinò e gli chiese: “E’ vero che in quella macchina c’è il cadavere di Moro?”

Io direi che può davvero valer la pena approfondire, anche perché nelracconto dell’attrice almeno due cose non tornano per nulla e, casualmente, entrambe hanno a che fare con il fattore tempo. Per carità, la memoria può fare brutti scherzi a distanza di 35 anni e capisco che alcuni dettagli Piera Degli Esposti non possa contestualizzarli in maniera così precisa dopo tanto tempo.

Ma lasciatemi una riflessione: Raso racconta di un particolare importante (perchéla ragazza fa riferimento a Moro) e nessuno lo coglie. Dopo pochi giorni però una donna (ragazza all’epoca) nel TG più importante di Mediaset smentisce la versione di due artificieri sull’orario del ritrovamento del corpo senza vita di Aldo Moro.

E’ tutto frutto di sola casualità?

A scanso di equivoci: non voglio concludere (anche perchè non lo penso) che Piera Degli Esposti fosse la ragazza vista da Vito Raso verso le 11 in via Caetani, o che l'attrice abbia detto il falso. Dico solo che c'è un passaggio che mi sfugge, considerando che a quel particolare raccontato da Vito Raso per me e per Paolo Cucchiarelli non è stata data la giusta importanza...

 
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