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Chi controlla il passato controlla il futuro; chi controlla il presente controlla il passato

George Orwell
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Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 

E’ da poche ore uscita una notizia che non può certo passare inosservata: un funzionario di Polizia in pensione racconta la sua inchiesta, partita nel 2009 a seguito di una lettera anonima, che porta direttamente in via Fani, alla mattina del 16 marzo 1978 e ad uno dei “misteri” di quell’agguato: la moto Honda. L’ha pubblicata l’ANSA e l’ha curata, come è ovvio per questo tipo di argomenti, il giornalista Paolo Cucchiarelli (autore assieme al sottoscritto dell’inchiesta degli orari del ritrovamento del cadavere di Moro in via Caetani, pubblicata nel giugno del 2013).
Una moto Honda fu vista da diversi testimoni quella mattina, sia prima che subito dopo l’assalto dei brigatisti che però hanno sempre negato ogni responsabilità in merito. L’intervista riporterà in  auge un vecchio refrain che collega la presenza della moto Honda con un presunto superkiller estraneo alle BR proprio la motocicletta avrebbe  portato via dalla scena dell’agguato ad Aldo Moro. Ho più volte dimostrato che non ci fu nessun superkiller super addestrato e quindi non tornerò su parole già scritte soprattutto in “Vuoto a perdere”.
Voglio però sottolineare un altro elemento sempre trascurato che lega la moto Honda al c.d. “cancelletto superiore” e che rappresenta il vero, grosso “vuoto” di quella mattina.
Procediamo con ordine.
Non esiste un’arma che sparò 49 colpi in quanto questa ipotesi fu avanzata dai periti nel corso della prima perizia, allorquando le armi dei brigatisti non erano ancora state sequestrate ed era, di conseguenza, impossibile fare riscontri precisi. Nel 1994 una nuova perizia, fatta ad armi sequestrate, consentì di individuare con esattezza 5 delle 6 armi che spararono in via Fani. Ne restò fuori una sesta che sparò dall’alto della scena esclusivamente contro l’agente Iozzino che fu l’unico a riuscire a tentare una minima reazione uscendo dall’alfetta di scorta e riuscendo ad esplodere appena due colpi contro gli avventori.
Da chi fu freddato Raffaele Iozzino? La perizia dice che fu colpito da 17 colpi provenienti tutti dal lato sinistro del corpo e, quindi, da uno sparatore posizionato all’altezza delle auto in sosta sul alto opposto. Chi c’era in quella posizione? Secondo la ricostruzione ufficiale, nessuno.
A presidiare la parte alta della zona dell’agguato c’erano Alessio Casimirri e Alvaro Lojacono, due irregolari della colonna romana che non hanno scontato nemmeno un giorno di carcere in Italia: il primo vive tranquillamente in Nicaragua da oltre trent’anni, il secondo (acquisita la cittadinanza svizzera per via della madre) ha scontato 11 anni di carcere in Svizzera per l’omicidio Tartaglione. Il paese elvetico non ha mai concesso l’estradizione e dopo essere uscito dal carcere Loiacono si è rifugiato in Francia.
Tre testimoni hanno visto qualcosa di diverso proprio in quel preciso posto. Il primo, Paolo Pistolesi, figlio dell’edicolante che aveva il suo chioschetto dei giornali a pochi metri di distanza, vide un uomo non in divisa ma con un sottocasco da motociclista che impugnava un mitra e che gli intimò per ben due volte di allontanarsi, la seconda volta puntandogli contro l’arma. Al che il giovane si buttò dietro un’auto in sosta e non vide più nulla. Dal loro balcone, i coniugi Tullio Moscardi e Maria Iannacone erano in grado di vedere solo un pezzo dell’area della strada sottostante dove si stava consumando l’agguato. E notarono un uomo con un qualcosa di lana in testa (uno zuccotto o un passamontagna non calato sul viso) con un mitra in mano che sbucato da dietro delle auto in sosta sul marciapiede sotto la loro visuale esplose due raffiche verso il centro della strada.
A questi testimoni diretti possiamo aggiungere il testimone principale di quella mattina, quell’ing. Alessandro Marini che assistette all’assalto da pochissimi metri e, soprattutto, fu forse l’unico a poter guardare tutta la scena dall’inizio alla fine. Ed egli racconta che ad un certo punto vide uscire dall’alfetta di scorta un poliziotto che reagì contro gli assalitori ma fu freddato da altri due individui, improvvisamente sbucati fra le autovetture in sosta poco oltre i quattro avieri.
Appare quindi assodato che Iozzino sia stato ucciso da un assalitore non in divisa e con un copricapo che non gli occultava completamente il viso (uno zuccotto di lana, un sottocasco di un motociclista, un passamontagna non calato).
Ma di questo killer, nella ricostruzione giudiziaria si perdono le tracce. Eppure bastava mettere insieme queste testimonianze per aprire un problema non secondario nella dinamica dell’agguato.
Con che arma ha sparato? Nei pressi delle auto posteggiate sul lato destro della strada sono stati rinvenuti due mucchietti di bossoli, calibro 9, che coincidono con i proiettili estratti dal corpo di Iozzino e dentro l’alfetta. Purtroppo, però, di questa ventina di colpi non è stato possibile risalire all’arma che li ha esplosi in quanto le rigature sui proiettili erano caratteristici di una canna molto usurata oppure manomessa per rendere difficile (o impossibile) riconoscerne la firma. Arma che, manco a dirlo, è l’unica tra quelle che hanno sparato in via Fani a non essere stata mai sequestrata.
Ed è la seconda cosa collegata al “cancelletto superiore” che sparisce.
E’ molto probabile che quell’aggressore fosse l’unico con un copricapo diverso da un berretto militare che fu notato dagli altri testimoni: nessun altro, infatti, ha accennato a brigatisti semi-mascherati. E sulla moto Honda l’ing. Marini notò proprio un uomo armato che aveva un passamontagna (nel luglio del ’79 parlò di un probabile zuccotto di lana in testa).
Ricapitoliamo. Un killer non in divisa che spunta da auto in sosta poste ben al di la della zona occupata dagli “avieri” che avrebbero sterminato la scorta di Moro e che, con tempestività, uccide l’unico agente che era riuscito a tentare una reazione. Come se fosse li per controllare e intervenire solo in caso di necessità. Che spara con l’unica arma mai rinvenuta e della quale è impossibile riconoscerne la natura. Che (probabilmente) sale su una moto Honda che non è presente nelle ricostruzioni giudiziarie dove è stata presa per vera la dinamica che fornisce Valerio Morucci (con tanto di posizioni e, in un secondo momento, nomi e cognomi) che, però, nega categoricamente sia la presenza della moto come mezzo a disposizione delle BR sia la possibilità che a sparare possa essere stato anche altro brigatista che non fosse tra i quattro avieri.
Che fossero in molti ad aver saputo in anticipo dell’azione brigatista è cosa piuttosto evidente. Che qualcuno sia andato sul luogo per rendersi conto di persona, occultare indizi, carpire informazioni preziose, s’era capito date le troppe presenze inspiegabili sul luogo solo un attimo dopo la fuga dei brigatisti.
Adesso un ex funzionario di Polizia afferma che su quella moto ci sarebbero stati due 007 con il compito di proteggere lo svolgersi dell’agguato brigatista.
Poiché per quanto detto poche righe fa, uno degli occupanti della moto Honda fu colui che certamente uccise Raffaele Iozzino, emerge un quadro allucinante, al quale non voglio neanche pensare. L’agente dei servizi divorato dal cancro nel 2009 avrebbe materialmente sparato contro un suo collega.
Follia? Dietrologia? Non so, non è mio compito spingermi oltre. Non ne ho gli strumenti e non voglio imbarcarmi in ipotesi personali.
Mi attengo ai fatti. E questi dicono inequivocabilmente che chi ha crivellato di colpi Raffaele Iozzino è salito sulla moto Honda che Giovanni Intrevado, un poliziotto non in servizio che si trovava per caso sul luogo, si vide passare accanto con molta calma, a sparatoria conclusa e auto dei brigatisti andate già via.
Speriamo che adesso questo nuovo pezzo possa venire adeguatamente esaminato dagli inquirenti che stanno lavorando nuovamente sul caso Moro e che possa portare ad un risultato netto: si o no.
Quando dico che le parti di verità mancanti vanno ricercate più nella parte del cielo che riguarda i comportamenti di c.d. uomini dello Stato che delle Brigate Rosse, forse non ho tutti i torti.
E c’è chi continua a depistare fomentando improbabili ricerche negli archivi dell’est europeo.

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A distanza di 36 anni dai fatti, e nonostante processi, Commissioni Parlamentari, perizie e analisi di ogni genere ritenevo che il mistero sulla fantomatica presenza di un superkiller in via Fani la mattina del 16 marzo ’78 fosse chiarito e archiviato.

E’ vero che sulla recente saggistica la questione è ancora riportata in quasi tutte le nuove pubblicazioni, ma che se ne potesse fare ancora un titolone francamente non lo ritenevo più possibile.


Ma così non è, purtroppo.


In breve.

Sin dai primi anni successivi all’agguato, quando si diffusero le prime perizie e si ebbe accesso alle  testimonianze di chi assistette al rapimento dell’On. Moro, fu ipotizzata la presenza di un killer molto preparato che avrebbe fatto quasi tutto il lavoro militare da solo. Con la conseguenza logica che non si potesse trattare di uno dei brigatisti noti in quanto quell’abilità richiedeva uno specifico addestramento ed un allenamento continuo.


Da quali elementi nasce questa ricostruzione? Sostanzialmente da due tasselli che sono stati erroneamente assemblati:

  • un testimone che avrebbe visto uno degli aggressori sparare con molta padronanza e precisione
  • la presenza sul luogo dell’eccidio di 49 bossoli attribuibili ad una sola arma su un totale di 91 esplosi da parte dei brigatisti

 


Il testimone
Si chiama Pietro Lalli, si definì esperto di armi e raccontò di aver visto uno degli assalitori, posizionato in corrispondenza della FIAT 130 dove viaggiava Moro, sparare due raffiche: una prima più corta ed indirizzata verso la 130 l’altra, più lunga, verso l’Alfetta di scorta

Assistetti allo sparo di due raffiche complete. La prima un po’ più corta della seconda a distanza ravvicinata rispetto al bersaglio che era una 130 blu. La seconda raffica, più lunga, fu estesa anche all’Alfetta chiara che seguiva la 130 e fu consentita da uno sbalzo all’indietro dello sparatore che in tal modo allargò il raggio d’azione e quindi di tiro. Quello che mi colpì in maniera impressionante fu la estrema padronanza di detto sparatore nell’uso preciso e determinato dell’arma. Esprimo un giudizio ma doveva essere uno particolarmente addestrato. Sparava avendo la mano sinistra poggiata sulla canna dell’arma [con il che deduco doveva trattarsi di un mitra non munito di flangi fiamma] e con la destra, imbracciato il mitra, tirava con calma e determinazione convinto di quello che faceva.

Questa è l’esatta posizione dalla quale il test Pietro Lalli assistette alla scena. Poco meno di 120 metri. L’auto rossa che si intravede in mezzo alla carreggiata non ha ancora raggiunto lo stop dove era fermo Alessandro Marini che era a ridosso della scena e che non ha mai notato quanto descritto da Lalli.


La distanza dalla quale il testimone vide la scena è di circa 120 metri su una strada in salita: la visuale non era sicuramente ideale né paragonabile a quella di un altro testimone importante, Alessandro Marini, che era fermo con il suo motorino proprio allo stop a pochi metri dal massacro. Lalli vide un killer che sparava verso la 130, poi se ne allontanò leggermente per riprendere a sparare. In un’altra deposizione aggiunse il particolare che nel fare questo balzo all’indietro il killer perse il berretto. Se ci atteniamo a quanto
accertato in sede processuale, il testimone vide esattamente ciò che fece Valerio Morucci nel corso dell’azione, che lo stesso ha più volte raccontato: dopo aver esploso una prima raffica, il mitra si inceppò, e fu costretto ad allontanarsi leggermente dalla sua posizione per non ostacolare i compagni nel tentativo di sbloccarlo. Pochi secondi dopo Morucci riprese a sparare, ma sempre sulla FIAT 130, non sull’Alfetta.


I bossoli
La prima perizia fu effettuata a ridosso dell’eccidio e in molti punti i periti furono “possibilistici” perché non potettero fare delle valutazioni balistiche oggettive. Ad esempio, proprio in relazione ai bossoli recuperati sul terreno, precisarono che la loro posizione potesse essere stata involontariamente spostata dai tanti curiosi che si riversarono sul luogo prima dei transennamenti e che avrebbero potuto anche sottrarre qualcosa a titolo di souvenir.


La cosa importantissima da sottolineare è che tale perizia fu effettuata senza che i periti avessero la possibilità di confrontare i reperti con delle armi ma potendo solo effettuare delle ipotesi. E da queste loro ipotesi essi stabiliscono che in via Fani quella mattina spararono 5 armi brigatiste, su almeno 3 delle quali i periti hanno “dubbi non risolti”:


Come si nota dall’originale della perizia, l’arma incriminata di aver sparato 49 colpi sarebbe una Beretta MP12 la qual cosa fu successivamente smentita.
La seconda perizia fu condotta nel 1993 dagli ingegneri Domenico Salza e Pietro Benedetti e si rese necessaria in quanto fu rinvenuto nel bagagliaio dell’Alfetta un proiettile “9 corto” non compatibile con le armi ipotizzate nella prima perizia. Questo fece sospettare la presenza di una nuova arma e vi fu quindi la necessità di nuove indagini di approfondimento. La differenza fondamentale fu che Salza e Benedetti potettero lavorare avendo la disponibilità di molte armi sequestrate nei covi o in occasione degli arresti (ad
esempio, la Smith & Wesson fu sequestrata a Prospero Gallinari al momento del suo arresto).


L’analisi comparativa dei proiettili con le armi sequestrate permise di sdoppiare quei 49 colpi che furono infatti ripartiti tra due mitra FNA 43. La perizia escluse anche la presenza di una settima arma perché si stabilì che il proiettile “9 corto” fu esploso da una delle armi sequestrate, erroneamente caricata, e di cui lo sparo ne causò l’inceppamento.

Un’altra cosa importante che si legge nelle perizie è che sia nei corpi dei componenti la scorta, sia nelle auto, sia in prossimità di esse sono stati repertati proiettili relativi ad armi diverse. E questo vuol dire una sola cosa: che non esiste un’unica arma che abbia sparato su entrambe le auto. Come, invece, appare scontato dal racconto di Pietro Lalli.

Per l’FNA 43, in particolare, la situazione è la seguente:

  • l’FNA 43 sequestrato esplose colpi contro Leonardi e probabilmente Ricci in quanto furono trovati 4 proiettili nel cadavere del primo e 5 proiettili più tre frammenti nella FIAT 130. Ricci fu colpito da 8 proiettili che però ne attraversarono il corpo
  • l’FNA 43 non sequestrato, invece, esplose almeno 7 colpi contro l’agente Iozzino mentre nell’Alfetta furono trovati altri 2 proiettili (uno nel bagagliaio ed uno nell’abitacolo) e sul piano stradale, accanto ad essa, altri due proiettili.


La misteriosa arma non sequestrata che viene ancora indicata come quella che esplose i 49 colpi, non sparò nemmeno da dove Pietro Lalli avrebbe visto il killer particolarmente esperto, ma da tutt’altra parte: in prossimità del “cancelletto superiore” nei pressi della Mini Cooper verde parcheggiata qualche metro prima di dove erano posti gli avieri. I suoi colpi furono indirizzati unicamente verso Iozzino e l’Alfetta di scorta.


Cosa dice l’esperto
Della dinamica dell’agguato di via Fani e di questo presunto mistero, ho parlato molte volte con l’Ing. Benedetti (l’Ing. Salza morì pochi anni dopo la perizia). E fu lui, nel lontano 2003, a dirsi stupito che se ne parlasse ancora in quanto la cosa era stata ampiamente chiarita. Aggiunse che, poiché a 91 bossoli corrispondevano solo 68 proiettili e poiché i proiettili di un’arma automatica a canna lunga viaggiano a 170 m/s (oltre 600 Km/h) anche dopo essere stati deviati, molti andarono dispersi finendo chissà dove. Un’imperizia da parte degli aggressori, la cui mira poteva essere definita non certamente “infallibile”.

Cosa fece si che l’attacco andasse a buon fine se gli sparatori non erano addestrati a dovere?


Secondo Pietro Benedetti furono tre i fattori che ne resero possibile la riuscita: in primo luogo la sorpresa, in secondo luogo la distanza molto ravvicinata (3-4 metri, non di più) ed, infine, l’utilizzo di armi lunghe ed automatiche che rendono molto più semplice colpire il bersaglio da quelle distanze. E, nonostante ciò, il 25% dei proiettili furono sparati “a casaccio”.

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Sul settimanale Oggi (in edicola da giovedì 18 giugno) ha intervistato l’ex brigatista Raffaele Fiore, uno dei componenti del commando che il 16 marzo ’78 partecipò all’agguato di via Fani nel quale fu rapito il presidente della DC Aldo Moro e uccisi i 5 componenti della sua scorta.


Nell’ultimo anno le novità non sono certo mancate: la vicenda raccontata da Giovanni Ladu che nella seconda metà di aprile del ’78 sostiene di essere stato, assieme ad un gruppo di 10 militari di leva, utilizzato per servizi di sorveglianza dell’appartamento di via Montalcini, la testimonianza degli artificieri Vito Raso e Giovanni Circhetta che raccontano di essere intervenuti in via Caetani attorno alle 11 del mattino con la indiretta conferma dell’On. Claudio Signorile che ha più volte detto di aver avuto la notizia proprio verso le 11 mentre si trovava nello studio del Ministro dell’Interno Cossiga ed infine la rivelazione dell’ex ispettore di polizia Enrico Rossi che si occupò di indagare (nel 2009) della “famosa” moto Honda di via Fani e dei suoi occupanti.


In un certo senso Fiore, con le sue parole, chiude il cerchio. 

Parlando di via Fani, l’ex brigatista è molto determinato “C’erano persone che non conoscevo. Che non dipendevano da noi. Che erano altri a gestire”. Parole molto forti che contrastano con quanto sempre raccontato dai pochi brigatisti che hanno, a vari livelli, parlato e permesso di ricostruire la dinamica dell’agguato del 16 marzo.


Riguardo alla moto Honda il suo pensiero è molto preciso: “Nè io nè gli altri compagni sappiamo nulla della moto, abbiamo avuto modo di parlarne e di riflettere. Non so se c'era, nè chi erano i due a bordo. Non facevano parte del commando dell'organizzazione”. Questa sembrerebbe la conferma definitiva dell’esistenza di una moto estranea al commando e del fatto che i brigatisti dopo l’azione ne avessero discusso tra loro meravigliati. E detta da uno dei partecipanti attivi di via Fani, che sparò proprio contro la FIAT 130 di Moro e che poi trasbordò materialmente il presidente sulla FIAT 131 guidata da Bruno Seghetti, potrebbe avere un peso.
Riguardo alle ingerenze esterne, Fiore aggiunge: “Non c'è stato un uso strumentale di altre forze. C'era una situazione per cui facendo qualcosa rischiavi, pur non volendo, di essere 'utile' ad altri”. Come a dire: nessuna etero-direzione e nessun infiltrato ma solo l’aver potuto fare il gioco di qualcun altro.


La conclusione di Fiore è una duplice ammissione: “Noi siamo stati costretti a quella soluzione finale […] volevamo solo il rilascio dei nostri compagni, poi abbiamo capito che non sarebbe stato facile portare avanti la battaglia. Che erano entrate troppe forze in campo”. 

Attendendo di poter leggere l’intervista integrale, cerchiamo di sintetizzare gli elementi a disposizione.

Le BR rapiscono Moro e lo tengono prigioniero agendo autonomamente ma consapevoli che questa loro azione non troverà solo oppositori ma anche ‘forze’ che potrebbero aver in un primo momento lasciato fare. Andando avanti con la gestione del sequestro, i brigatisti si rendono conto che la trattativa (‘battaglia’) era più complicata del previsto, soprattutto per la discesa in campo di altre forze che, nel complesso meccanismo creatosi, agivano in maniera autonoma per perseguire il proprio obiettivo (liberazione o eliminazione del prigioniero). Alla fine, deve aver evidentemente avuto la meglio una (o più) delle forze che si mossero per assicurarsi la conclusione cruenta del sequestro.

E’ questo che, almeno io, leggo nelle parole di Raffaele Fiore che potrebbero essere un elemento nuovo a supporto di un pensiero che ormai sostengo da tempo. In questa storia le BR hanno raccontato la loro parte (con delle omissioni “accomodanti”), ma hanno sempre rifiutato di parlare di ciò che non li riguardava. 

Dell’altra metà del cielo, quella che riguarda il comportamento dello Stato e dei suoi apparati, si sa solo che le Istituzioni si arroccarono dietro una fermezza politica alla quale non corrispose un’efficienza investigativa. Ma forse è venuto il momento di iniziarla a raccontare quest’altra metà.

Potrà essere una Commissione Parlamentare a farlo? 

Staremo a vedere.

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In attesa dell'intervista integrale di Raffaele Fiore, ecco cosa ne pensa l'ex ispettore della Digos Enrico Rossi.

Moro: Rossi(ex Digos), anche Fiore disinforma e depista? Tanti sanno nello Stato di questa vicenda, e' ora che parlino
(ANSA) -
ROMA, 18 GIU - "Mi rivolgo a coloro che sanno, e non sono pochi, a Torino e non, e gli chiedo un atto di coraggio.
Raccontate quello che sapete sulla vicenda della Honda in via Fani: dire la verita' vi rendera' piu' coraggiosi". Lo dice Enrico Rossi, l'ex funzionario della Digos di Torino che ha svelato, in una intervista all'Ansa lo scorso 23 marzo, la storia della inchiesta "interrotta" sulla presenza di una moto in via Fani il 16 marzo del 1978 e non riconducibile ai Br.
"Dopo quella intervista ho subito gravi denigrazioni sia a livello personale che professionale. Politici di vari schieramenti, da destra a sinistra hanno detto che bisognava 'tapparmi la bocca' perche' ammorbavo l'aria e che il mio scopo era di intorbidire le acque in cui si dibattono reduci degli apparati di sicurezza dello Stato, in perenne conflitto tra
loro. Ora ha parlato un brigatista, ne' pentito ne' dissociato come Fiore, che si trovava in via Fani la mattina del 16 marzo
1978. Rientra anche lui in un disegno occulto finalizzato a disinformare e depistare, mescolando vero e falso, per spostare
l'attenzione sui servizi segreti nostrani o, piu' semplicemente, il signor nessuno, l'ex Ispettore della Rossi ha soltanto detto
la verita' in merito ad un'indagine inspiegabilmente sottovalutata? ".
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COMMISSIONE MORO. GRASSI SCRIVE ALLA PRESIDENTE BOLDRINI.
(ANSA) - ROMA, 9 SET

"E' preoccupante e incomprensibile il rinvio dell'insediamento della Commissione bicamerale d'inchiesta sul caso Moro, conseguenza del comportamento di alcuni Gruppi che non hanno ancora indicato le proprie designazioni". Lo scrive in una lettera alla Presidente della Camera, Laura Boldrini, il vicepresidente dei deputati Pd Gero Grassi. "Abbiamo ventiquattro mesi di tempo per poter coordinare e sintetizzare le piu' recenti novita' e per dare impulso a nuove indagini che possano contribuire a fare verita' su questo delitto politico. Il ritardo di alcuni gruppi nel fornire le indicazioni richieste e consentire ai Presidenti di entrambe le Camere di procedere alla nomina dei componenti di questo organismo - aggiunge Grassi - e' grave perche' costituisce un' omissione istituzionale, visto che non consente l'avvio dei lavori della commissione, istituita con legge dello Stato". Il rallentamento invia al Paese un messaggio negativo: il disinteresse o, peggio, l'ostruzionismo da parte di alcuni nei confronti di questa iniziativa che invece, ha bisogno di avere un'opinione pubblica concorde e consapevole dei nostri sforzi, a tanti anni di distanza dei fatti. A fronte della legge approvata a maggio, siamo a settembre e la Commissione non ha ancora potuto avviare i propri lavori. E' oggettivamente un pessimo segnale che La prego davvero di contrastare sollecitando i gruppi politici a dare seguito alle loro responsabilita' o mettendo in atto i suoi poteri sostitutivi di designazione".

E' questo il testo della lettera spedita da Gero Grassi (deputato PD promotore della istituzione di una nuova Commissione d'Inchiesta sul caso Moro) a Laura Boldrini (Presidente della Camera) per sollecitare l'attuazione di quanto già deliberato dall'assemblea.

E voi che ne pensate? Siete favorevoli alla nuova Commissione? Perchè?

Questo ritardo a cosa è attribuibile? Ostruzionismo o scarso interesse?


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“Una ferita ancora aperta nella storia del nostro Paese, una delle pagine più drammatiche: il rapimento e l'uccisione di Aldo Moro. Se ne sono occupati in tanti, dal Parlamento fino al cinema ed ora, la ricostruzione fedele dell'agguato di via Fani, nel corso del quale nel 1978 venne rapito Aldo Moro e furono uccisi gli agenti della sua scorta, contenuta nel film del 2003 «Piazza delle Cinque lune», potrebbe diventare un atto ufficiale. «Chiedo che possa essere acquisita come prova nelle indagini della nuova commissione di inchiesta che indaga sul rapimento e l'assassino del presidente della Democrazia cristiana da parte delle Brigate Rosse», spiega il regista del film, Renzo Martinelli, dal palco de «La Gardesana 2014» l'evento in programma a Desenzano del Garda (Brescia) fino al 5 settembre. Il regista, intervistato da Giovanni Terzi, ha raccontato come la scena dell'attentato sia stata «girata più volte utilizzando tutti gli elementi fotografici e le testimonianze raccolte dalla magistratura». Una ricostruzione, secondo Martinelli, «che smentisce nei fatti la versione ufficiale dell'inchiesta» e risulterebbe più accurata di quella ufficiale ma, spiega Martinelli, «nessuno ci ha mai convocato per analizzare quello che abbiamo provato sul campo». Una nuova commissione si sta attivando per fare luce su quei fatti anche grazie al libro scritto da Ferdinando Imposimato, giudice che seguì il caso Moro. Ed ora, un aiuto per far luce su quella drammatica pagina, potrebbe arrivare anche dal cinema.”
Mi è capitato di leggere questo articolo tratta da una rassegna del 3 settembre scorso sul sito del quotidiano “Il Giornale”.

La ricostruzione del regista Martinelli può avere talmente tanta importanza da dover essere acquisita dai magistrati? In sostanza il regista ritiene che le BR siano state uno strumento eterodiretto che ha accettato di svolgere una parte del lavoro sporco per conto di altri che hanno realmente manipolato l’intera operazione.
Non è una logica a cui ho mai creduto men che meno se debbo rifarmi agli elementi portati nel filmato.

Infatti:


1) non è vero che non ci sia stato alcun tamponamento tra la 128CD brigatista e la FIAT 130 di Moro. A parte gli evidenti segni che sono presenti sulla macchina di Moro quando l’allora trasmissione Mixer l’andò a recuperare dove era custodita, ci sono i testimoni che parlano di un rumore di urto tra lamiere prima dell’inizio degli spari
2) la persona sul lato destro della strada che avrebbe sparato con una pistola su Leonardi colpendolo sulla spalla destra (quindi alle spalle) è una fantasia in quanto gli unici colpi di pistola sono repertabili in prossimità dei due autisti
3) l’arma del fantomatico super killer (ne dimostro l’inesistenza in questo articolo su AgoraVox) non avrebbe sparato dal punto in cui lo colloca Martinelli ma da tutt’altra parte
4) non c’è nessun riferimento a quello che io ritengo essere il vero problema di via Fani e, cioè, lo sparatore dal cancelletto superiore che spara verso Jozzino con un’arma mai repertata (dalla canna molto usurata che non ne permette con certezza l’individuazione) e che sale a bordo della famosa Honda. A questo proposito ho già scritto questa riflessione

Ho l’impressione che troppe imprecisioni non facciano altro che perseguire la machiavellica strategia del “mischia sempre lo vero con lo falso acciocchè nessuno sappia più quale è lo vero e quale è lo falso”. Facendo il gioco di chi vuol continuare a mischiare le carte allontanando la ricerca verso improbabili piste.

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Di Manlio  13/09/2014, in Pensieri liberi (5002 letture)

Leggo di un incontro/dibattito avvenuto un paio di giorni fa in cui, con la moderazione del giornalista Giovanni Fasanella, due ex si sono trovati a parlare del loro passato. Due ex, però, di opposta estrazione e che negli anni ’70 si trovavano da parti opposte della barricata: Alberto Franceschini (fondatore e leader delle BR) e Mario Mori (generale dei Carabinieri che alle BR dava la caccia). >leggi l'articolo tratto dal sito Panorama d'Italia<


Una prima riflessione che mi viene in mente è come mai non si sia levato il solito coro di disapprovazione in quanto, seppur accompagnato da un esponente delle istituzioni, sempre di ex brigatista si tratta e, in questi casi, consiglieri comunali e politicanti di ogni genere riescono ad ottenere il proprio minuto di visibilità inveendo contro un assassino, il suo diritto di parola e contro chi ha osato dargli voce.


C’è da dire che questa pratica, mediaticamente parlando, funziona, se è vero che qualcuno ha pensato di portarla ai massimi livelli inneggiando ad un “Fuori le BR dalle Procure”. Ma siamo in Italia e se la cultura su quegli anni è poca l’ignoranza, invece, è tanta. Ed aumenta sempre di più.

Una prova la trovo proprio nel tono dell’articolo (descritto quasi come un ritrovo tra due leader politici opposti che si sono fronteggiati nella conduzione di un Paese) e nelle considerazioni che vi sono presenti.

“Franceschini contribuì a fondare le Br con Renato Curcio e Mario Moretti e fu incarcerato dagli uomini di Mori prima di macchiarsi di fatti di sangue.”

Non è la prima volta che sento questa atrocità che è figlia del pensiero dietrologico che vedrebbe i primi brigatisti come buoni e ingenui Robin Hood che mai e poi mai si sarebbero macchiati dei crimini commessi dopo che l’Organizzazione fu decapitata proprio di Franceschini e dell’altro leader Renato Curcio.

Niente di più falso, per almeno due motivi:

  • la linea di sviluppo dell’attacco allo Stato, la formulazione del SIM, della DC come nemico numero uno da abbattere attraverso i suoi uomini di spicco, la diede proprio Renato Curcio (“vecchia guardia” per così dire) nella primavera del 1975, nel suo breve periodo di libertà dopo l’evasione dal carcere di Casale Monferrato. Quindi dire che le BR successive siano state, dal punto di vista politico e del salto di qualità nella lotta, una cosa diversa è errato
  • proprio Alberto Franceschini è stato tra coloro che in carcere ha più ferocemente condotto la lotta sia verso coloro che si pentivano o fossero solo in odore di pentimento, sia nei confronti dei compagni fuori allorché, al momento della scissione tra Partito della Guerriglia e Partito Comunista Combattente, si schierò con l’astro nascente Giovanni Senzani che fu protagonista dell’ultima stagione brigatista, un insensato precipitare in una spirale di crimini senza senso e fini a se stessi.

La storia delle BR è una storia collettiva, un’insurrezione dove non è possibile distinguere tra chi guidava un’auto, offriva riparo a latitanti, consegnava lettere o produceva documenti falsi e procurava armi. Una storia che ne ha visti i leader esserne responsabili al 100% dall’inizio alla fine. 


Qualcuno obietterà: “Ma se uno era in carcere come faceva a contrastare, ad esempio, la decisione di rapire Aldo Moro massacrando la sua scorta?”. Vero, in parte. Perché anche stando in carcere, nessuno dei leader ha mai esternato una condanna. Curcio, in rappresentanza degli altri che in quel momento erano ancora sotto un unico “partito armato”, dopo l’uccisione di Moro ebbe parole molto dure, seppure frutto di una citazione di Lenin. E Franceschini era al suo fianco, era l’altro generale brigatista.

Non se ne esce da questo drammatico periodo della nostra storia applicando le semplificazioni algebriche per ridurre le responsabilità, ma capendo realmente cosa successe, al di la delle facili e comode dietrologie che spostano il problema su un altro terreno


Non più una società che ha portato una parte non marginale di una generazione a volere una società più giusta (e questo è lecito) ritenendo che non si potesse che percorrere la strada della violenza (e fu questo l’errore) perché ciò che si voleva non erano nuove regole nella società in cui vivevano ma una nuova società che partisse dall’abbattimento di quella esistente. 

Ma la più rassicurante immagine di una società buona e giusta nella quale forze esterne (per lo più straniere ed in genere i cattivi russi o americani a seconda del punto di vista) hanno voluto disturbare il nostro benessere agitando le nostre giovani generazioni attraverso presunti agenti segreti.


Riuscendo, in questo insabbiamento, a perseguire un altro importante risultato: inseguendo improbabili piste si riesce a distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dagli indicibili segreti dello Stato che potrebbero, almeno in parte, emergere dalle carte di prossima desecretazione.


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Caso Moro. Grassi (Pd), la casa di Senzani era intercettata. I detrattori della Commissione parlamentare siano più cauti


11 marzo 2015 - “E’ emerso dalle recenti acquisizioni della Commissione che la casa del Brigatista Giovanni Senzani, un vero buco nero nella storia dell’eversione rossa, era intercettata. Dagli atti delle inchieste svolte dal procuratore Vigna è emerso che l’ex moglie di Senzani riferì agli investigatori di aver trovato in casa un registratore murato, opera che non era riconducibile a nessuno degli occupanti dell’appartamento. La novità, di cui ha parlato oggi il presidente Fioroni in occasione della interessante audizione del procuratore Tindari Baglioni, potrebbe aiutarci a trovare conferme sulla ‘pista fiorentina’, cioè quella che riconduce nel capoluogo toscano i protagonisti di alto calibro dell’affaire Moro”. Così Gero Grassi, componente della Commissione d’inchiesta sul sequestro e la morte di Aldo Moro, il quale aggiunge: “I detrattori dell’organismo parlamentare farebbero bene ad essere più cauti, perché il caso Moro, purtroppo, non è andato come ci hanno raccontato e scoprire almeno qualche elemento di realtà è nostro dovere”.

Comunicato Stampa.
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Caso Moro. Grassi (Pd), acquisite 17 cassette audio registrate tra i reperti di via Gradoli. Dagli atti risulta che non sono mai state ascoltate

“Oggi il presidente della Commissione d’inchiesta sul caso Maro, Giuseppe Fioroni, ha acquisito diciassette cassette audio-registrate ritrovate tra i reperti del covo brigatista di via Gradoli grazie al lavoro della dottoressa Antonia Giammaria, magistrato distaccato presso l’organismo parlamentare. Non risulta da nessun atto giudiziario che il contenuto di queste cassette sia mai stato ascoltato e verbalizzato. Da quel che si conosce dagli atti erano 18 le cassette registrate ritrovate nel covo e mai ascoltate: ad oggi ne manca dunque una. Per il momento le cassette sono dunque nella cassaforte della Commissione, presto ne conosceremo il contenuto e ne valuteremo la sua rilevanza per le nostre indagini”.
Ne dà notizia Gero Grassi, componente della Commissione d’inchiesta sul sequestro e la morte di Aldo Moro.


Comunicato stampa

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Moro: avvocato vittime v.Fani, scommetto manca cassetta n.13 (2)

(ANSA) - ROMA, 13 MAR - Davanti alla Commissione stragi Morucci, anni fa, ha spiegato che le cassette con gli
interrogatori di Moro furono distrutte probabilmente sovraincidendole. E le cassette di via Gradoli sono in molti
passaggi, sovraincise.
Parlando con l'Ansa, l'avvocato spiega perche' sono cosi' interessanti queste cassette e perche' quindi la sua attenzione e i suoi timori di scomparsa riguardano la n. 13 "Nella prima parte vi sono canti rivoluzionari, cosi' come nella seconda parte, ma per alcuni giri l'ufficiale di PG annota: 'voce maschile che parla con compagni per discutere di alcuni articoli'. Si tratta di una evidente sovraincisione. La voce registrata e' una sola, e dal tenore delle parole evidentemente si rivolge a piu' persone; a dei 'compagni'.
Il tema affrontato dalla 'voce maschile' riguarda 'alcuni articoli'. E' da escludere, per ragioni di evidente sicurezza,
che le BR registrassero le loro discussioni".
E se fosse uno stralcio dell'interrogatorio di Moro?
"Moretti - dice l'avvocato Biscotti - non usava il singolare del tipo 'io delle BR', ma 'noi delle BR' e puo' darsi che Moro
rivolgendosi a Moretti e alle Br usasse il plurale. ('Parla/i con i compagni'). La voce registrata e' una sola, altrimenti
l'ufficiale di PG avrebbe scritto piu' voci (piu' persone), il plurale e' riferito a quelli che ascoltano. La discussione 'su
alcuni articoli' e' suggestiva se si pensa che Moretti portava a Moro i ritagli degli articoli di stampa nella 'prigione' e che
in via Gradoli vengono trovati dei giornali del 29-30 aprile con evidenti tagli su articoli riguardanti la vicenda Moro.

E' certo che Moretti per aggiornare Moro su cio' che accadeva fuori gli portava nella 'prigione' solo articoli ritagliati.
Sempre a via Gradoli viene trovato un blocco note (reperto 774) di 12 pagine a quadretti manoscritte delle stesse
dimensioni del quaderno usato da Moro per scrivere il suo memoriale. Inutile ricordare l'importanza dei giorni 29 30 marzo (lettera a Cossiga che per Moro doveva rimanere riservata).

I poteri della Commissione consentono di far analizzare queste audiocassette e ascoltarle e di valutarle appieno anche
rispetto all'ipotesi che ci siano state delle sovraincisioni e sempre se, come temo, la numero 13 non sia scomparsa".

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