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Il superkiller di via Fani e i 49 colpi: un “mistero” ampiamente chiarito.
Di Manlio (del 31/03/2014 @ 20:25:51, in Approfondimenti, linkato 6380 volte)

A distanza di 36 anni dai fatti, e nonostante processi, Commissioni Parlamentari, perizie e analisi di ogni genere ritenevo che il mistero sulla fantomatica presenza di un superkiller in via Fani la mattina del 16 marzo ’78 fosse chiarito e archiviato.

E’ vero che sulla recente saggistica la questione è ancora riportata in quasi tutte le nuove pubblicazioni, ma che se ne potesse fare ancora un titolone francamente non lo ritenevo più possibile.


Ma così non è, purtroppo.


In breve.

Sin dai primi anni successivi all’agguato, quando si diffusero le prime perizie e si ebbe accesso alle  testimonianze di chi assistette al rapimento dell’On. Moro, fu ipotizzata la presenza di un killer molto preparato che avrebbe fatto quasi tutto il lavoro militare da solo. Con la conseguenza logica che non si potesse trattare di uno dei brigatisti noti in quanto quell’abilità richiedeva uno specifico addestramento ed un allenamento continuo.


Da quali elementi nasce questa ricostruzione? Sostanzialmente da due tasselli che sono stati erroneamente assemblati:

  • un testimone che avrebbe visto uno degli aggressori sparare con molta padronanza e precisione
  • la presenza sul luogo dell’eccidio di 49 bossoli attribuibili ad una sola arma su un totale di 91 esplosi da parte dei brigatisti

 


Il testimone
Si chiama Pietro Lalli, si definì esperto di armi e raccontò di aver visto uno degli assalitori, posizionato in corrispondenza della FIAT 130 dove viaggiava Moro, sparare due raffiche: una prima più corta ed indirizzata verso la 130 l’altra, più lunga, verso l’Alfetta di scorta

Assistetti allo sparo di due raffiche complete. La prima un po’ più corta della seconda a distanza ravvicinata rispetto al bersaglio che era una 130 blu. La seconda raffica, più lunga, fu estesa anche all’Alfetta chiara che seguiva la 130 e fu consentita da uno sbalzo all’indietro dello sparatore che in tal modo allargò il raggio d’azione e quindi di tiro. Quello che mi colpì in maniera impressionante fu la estrema padronanza di detto sparatore nell’uso preciso e determinato dell’arma. Esprimo un giudizio ma doveva essere uno particolarmente addestrato. Sparava avendo la mano sinistra poggiata sulla canna dell’arma [con il che deduco doveva trattarsi di un mitra non munito di flangi fiamma] e con la destra, imbracciato il mitra, tirava con calma e determinazione convinto di quello che faceva.

Questa è l’esatta posizione dalla quale il test Pietro Lalli assistette alla scena. Poco meno di 120 metri. L’auto rossa che si intravede in mezzo alla carreggiata non ha ancora raggiunto lo stop dove era fermo Alessandro Marini che era a ridosso della scena e che non ha mai notato quanto descritto da Lalli.


La distanza dalla quale il testimone vide la scena è di circa 120 metri su una strada in salita: la visuale non era sicuramente ideale né paragonabile a quella di un altro testimone importante, Alessandro Marini, che era fermo con il suo motorino proprio allo stop a pochi metri dal massacro. Lalli vide un killer che sparava verso la 130, poi se ne allontanò leggermente per riprendere a sparare. In un’altra deposizione aggiunse il particolare che nel fare questo balzo all’indietro il killer perse il berretto. Se ci atteniamo a quanto
accertato in sede processuale, il testimone vide esattamente ciò che fece Valerio Morucci nel corso dell’azione, che lo stesso ha più volte raccontato: dopo aver esploso una prima raffica, il mitra si inceppò, e fu costretto ad allontanarsi leggermente dalla sua posizione per non ostacolare i compagni nel tentativo di sbloccarlo. Pochi secondi dopo Morucci riprese a sparare, ma sempre sulla FIAT 130, non sull’Alfetta.


I bossoli
La prima perizia fu effettuata a ridosso dell’eccidio e in molti punti i periti furono “possibilistici” perché non potettero fare delle valutazioni balistiche oggettive. Ad esempio, proprio in relazione ai bossoli recuperati sul terreno, precisarono che la loro posizione potesse essere stata involontariamente spostata dai tanti curiosi che si riversarono sul luogo prima dei transennamenti e che avrebbero potuto anche sottrarre qualcosa a titolo di souvenir.


La cosa importantissima da sottolineare è che tale perizia fu effettuata senza che i periti avessero la possibilità di confrontare i reperti con delle armi ma potendo solo effettuare delle ipotesi. E da queste loro ipotesi essi stabiliscono che in via Fani quella mattina spararono 5 armi brigatiste, su almeno 3 delle quali i periti hanno “dubbi non risolti”:


Come si nota dall’originale della perizia, l’arma incriminata di aver sparato 49 colpi sarebbe una Beretta MP12 la qual cosa fu successivamente smentita.
La seconda perizia fu condotta nel 1993 dagli ingegneri Domenico Salza e Pietro Benedetti e si rese necessaria in quanto fu rinvenuto nel bagagliaio dell’Alfetta un proiettile “9 corto” non compatibile con le armi ipotizzate nella prima perizia. Questo fece sospettare la presenza di una nuova arma e vi fu quindi la necessità di nuove indagini di approfondimento. La differenza fondamentale fu che Salza e Benedetti potettero lavorare avendo la disponibilità di molte armi sequestrate nei covi o in occasione degli arresti (ad
esempio, la Smith & Wesson fu sequestrata a Prospero Gallinari al momento del suo arresto).


L’analisi comparativa dei proiettili con le armi sequestrate permise di sdoppiare quei 49 colpi che furono infatti ripartiti tra due mitra FNA 43. La perizia escluse anche la presenza di una settima arma perché si stabilì che il proiettile “9 corto” fu esploso da una delle armi sequestrate, erroneamente caricata, e di cui lo sparo ne causò l’inceppamento.

Un’altra cosa importante che si legge nelle perizie è che sia nei corpi dei componenti la scorta, sia nelle auto, sia in prossimità di esse sono stati repertati proiettili relativi ad armi diverse. E questo vuol dire una sola cosa: che non esiste un’unica arma che abbia sparato su entrambe le auto. Come, invece, appare scontato dal racconto di Pietro Lalli.

Per l’FNA 43, in particolare, la situazione è la seguente:

  • l’FNA 43 sequestrato esplose colpi contro Leonardi e probabilmente Ricci in quanto furono trovati 4 proiettili nel cadavere del primo e 5 proiettili più tre frammenti nella FIAT 130. Ricci fu colpito da 8 proiettili che però ne attraversarono il corpo
  • l’FNA 43 non sequestrato, invece, esplose almeno 7 colpi contro l’agente Iozzino mentre nell’Alfetta furono trovati altri 2 proiettili (uno nel bagagliaio ed uno nell’abitacolo) e sul piano stradale, accanto ad essa, altri due proiettili.


La misteriosa arma non sequestrata che viene ancora indicata come quella che esplose i 49 colpi, non sparò nemmeno da dove Pietro Lalli avrebbe visto il killer particolarmente esperto, ma da tutt’altra parte: in prossimità del “cancelletto superiore” nei pressi della Mini Cooper verde parcheggiata qualche metro prima di dove erano posti gli avieri. I suoi colpi furono indirizzati unicamente verso Iozzino e l’Alfetta di scorta.


Cosa dice l’esperto
Della dinamica dell’agguato di via Fani e di questo presunto mistero, ho parlato molte volte con l’Ing. Benedetti (l’Ing. Salza morì pochi anni dopo la perizia). E fu lui, nel lontano 2003, a dirsi stupito che se ne parlasse ancora in quanto la cosa era stata ampiamente chiarita. Aggiunse che, poiché a 91 bossoli corrispondevano solo 68 proiettili e poiché i proiettili di un’arma automatica a canna lunga viaggiano a 170 m/s (oltre 600 Km/h) anche dopo essere stati deviati, molti andarono dispersi finendo chissà dove. Un’imperizia da parte degli aggressori, la cui mira poteva essere definita non certamente “infallibile”.

Cosa fece si che l’attacco andasse a buon fine se gli sparatori non erano addestrati a dovere?


Secondo Pietro Benedetti furono tre i fattori che ne resero possibile la riuscita: in primo luogo la sorpresa, in secondo luogo la distanza molto ravvicinata (3-4 metri, non di più) ed, infine, l’utilizzo di armi lunghe ed automatiche che rendono molto più semplice colpire il bersaglio da quelle distanze. E, nonostante ciò, il 25% dei proiettili furono sparati “a casaccio”.