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George Orwell
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Di Manlio  23/04/2008, in Interviste (4281 letture)
Giuliano Boraso lo abbiamo già ascoltato circa un anno fa in relazione al progetto brigaterosse.org che porta avanti assieme all’amico Tommaso Fera. Nicola Biondo ho avuto il piacere di conoscerlo in occasione della nuova edizione di Vuoto a perdere e le sue riflessioni mi sono state molto utili nel far emergere la controversa vicenda relativa al ruolo di informatore di Ronald Stark.
Sono entrambi profondi conoscitori dei fenomeni eversivi, entrambi hanno pubblicato un libro di peso: Mucchio Selvaggio (Boraso, Castelvecchi 2006), l’unica storia completa di Prima Linea non narrata dal punto di vista dei protagonisti e per questo obiettiva e documentata e Una primavera rosso sangue (Biondo, Edizioni Memoria 1998), un tentativo riuscito di rimettere a posto tutti i documenti emersi sino al momento sul caso Moro per evidenziare come non sia possibile riorganizzare la conoscenza della vicenda per giungere ad una sola chiave interpretativa.
Giuliano e Nicola sono i protagonisti dell’operazione più importante del trentennale del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro, una ricorrenza diventata evento di marketing per autori, registi e giornalisti impegnati più a “guardare il dito e non la luna”.
Se non ci fossero stati loro, le loro competenze ed il loro lavoro umile e silenzioso, oggi non avremmo l’importante testimonianza di Steve Pieczenik e staremmo ancora a credere che ad uccidere Aldo Moro siano state la linea della fermezza e la sola volontà dei brigatisti.
Un documento del genere avrebbe provocato un terremoto di interrogazioni parlamentari, richieste di riapertura di indagini, fine di carriere politiche. Se non fosse che in Italia quella storia è in ostaggio di una “cricca di giornalisti e storici che si contano sulle dita di una mano e che determinano l’agenda del dibattito”.
E’ triste, ma è così. Non si può ancora parlare dei comportamenti dello Stato, delle decisioni, delle omissioni, delle trame che, parallelamente al progetto brigatista, hanno fatto si che qualcuno potesse perseguire interessi politici ed economici facendone cadere la responsabilità esclusivamente sulle Brigate Rosse.
Ed è disarmante la risposta che mi ha recentemente fornito un assoluto protagonista (da parte dello Stato) di quelle vicende, solo pochi giorni fa, quando alla mia domanda: “Ma perchè non parli, ormai una serie di cose le abbiamo capite” ha gelidamente risposto “No, non si è capito proprio nulla. Sono passati troppo pochi anni per parlarne...”


1. Ci può raccontare la genesi di questo importante lavoro editoriale?

Boraso: Tutto ha inizio negli ultimi giorni del 2006, quando sul forum del sito che curo insieme a Tommaso Fera, www.brigaterosse.org, un utente che si firma Pino pubblica un messaggio nel quale spiega di aver letto l’edizione francese del libro di Emmanuel Amara (uscito in Francia da un paio di mesi), concludendo il suo post con la domanda: «Che cosa si aspetta a parlarne in Italia?».
A quel punto cominciamo a informarci sul libro. Lavorando per uno studio editoriale, Oblique Studio, sono interessato alla faccenda anche da un punto di vista professionale. Compriamo una copia del libro su www.amazon.fr, lo leggiamo e, dato l’effettivo interesse dei contenuti dell’intervista di Pieczenik, verifichiamo se qualche editore è interessato a pubblicare il libro di Amara. Contatto Nicola Biondo che, oltre a essere un amico, è uno dei più affidabili e competenti esperti del caso Moro. Nei mesi successivi, siamo intorno alla primavera de 2007, l’Unità e il settimanale Left dedicano un paio di articoli al libro che però non ha ancora trovato una sua casa editrice italiana. Sembra incredibile, ma non riusciamo a incontrare l’interesse degli editori italiani. Fino a quando un giorno Nicola mi chiama, dicendomi che la casa editrice Cooper vuole pubblicare il libro. Siamo a dicembre, è passato esattamente un anno dal messaggio di Pino. Tre mesi di lavorazione e Abbiamo ucciso Aldo Moro è in libreria in coincidenza con il trentesimo anniversario del sequestro di Aldo Moro.


2. Quali difficoltà avete incontrato per adattare l’edizione francese al contesto italiano?

Boraso: Innanzitutto difficoltà legate ai tempi di lavorazione, molto stretti. Se pensiamo che i diritti del libro sono stati comprati a fine dicembre, poco prima delle vacanze natalizie, e che tra dicembre e gennaio il libro è stato tradotto da Alice Volpi, curato da Nicola con la realizzazione di un apparato di note fondamentale per il pubblico italiano, editato e impaginato, ci rendiamo conto che essere riusciti a farlo uscire nella prima metà di marzo è stato un bel colpo.
Non dimentichiamo poi che Amara ha scritto un libro per un lettore francese, sicuramente meno competente in materia rispetto al lettore italiano. Il lavoro di Nicola in tal senso è stato di fondamentale importanza: l’apparato di note ha permesso di integrare le informazioni trasmesse da Amara con una serie di acquisizioni documentali e storiografiche successive all’uscita del libro in Francia e indispensabili per il pubblico di lettori italiano.
C’è poi stato un lavoro di verifica della trascrizione delle interviste contenute nel libro, che si basa per gran parte su una serie di testimonianze orali raccolte dall’autore. Amara ci ha fatto avere le registrazioni audio delle interviste. E noi ci siamo preoccupati di verificarne e garantirne la fedeltà, anche in considerazione del fatto che si tratta di un libro tradotto.


3. Pellegrino, nell’introduzione, parla di “lettura nuova e per più profili sconvolgente” dei fatti noti…

Boraso: “Nuova” e “sconvolgente”: Pellegrino non poteva scegliere aggettivi più appropriati. Peccato che sia uno dei pochi a essersene accorto. Sconvolgenti non sono solo le rivelazioni di Pieczenik. Sconvolgente è il fatto che su quel libro non si sia aperto un dibattito, che sia passato praticamente inosservato sui mezzi di comunicazione di massa, salvo rare eccezioni. Sconvolgente è il fatto che in questo paese il dibattito storiografico sul caso Moro e sugli anni di piombo in generale sia monopolio esclusivo di una cricca di giornalisti e storici che si contano sulle dita di una mano e che determinano l’agenda del dibattito, stabilendo ciò che può esserne oggetto e ciò che invece deve esserne escluso.
Per le più svariate ragioni che non sempre hanno a che fare con il valore storico e documentale del contributo in questione.


4. Cosa ritiene abbia portato di nuovo questa intervista nella discussione sul lato oscuro dello Stato nella vicenda Moro?

Boraso: Pieczenik descrive i 55 giorni del sequestro Moro dall’interno del comitato di crisi istituito dal Governo italiano. Racconta, con una lucidità e un pragmatismo tutto americano, come il Governo italiano abbia deliberatamente scelto di sacrificare la vita di Moro per un calcolo politico, per quella che il consulente americano chiama “ragion di Stato”. In sostanza, Pieczenik conferma dalla sua viva voce tutto quello che già sapevamo, ma che nessuno aveva mai avuto il coraggio di mettere nero su bianco o di svelare davanti a una telecamera.
Cosa produce tutto questo nel “dibattito storiografico” in corso? Niente. Zero. Al massimo un’alzata di spalle. Un sorrisetto ironico. Un buffetto. Questo paese è precipitato in un abisso di cinismo e di indifferenza, mali che fino a pochi anni fa erano confinati solo in certi ambienti e che ora sembrano essere invece trasversali e distribuiti ovunque. In occasione dell’anniversario del 16 marzo, Rai Tre ha trasmesso una puntata del programma “Enigma” interamente dedicata al caso Moro durante la quale l’episodio della seduta spiritica dei professori bolognesi è stata definito “verosimile” e all’analista statunitense Edward Luttwak veniva permesso di dire ogni fesseria senza il benché minimo contraddittorio.
Non so quale contributo il libro di Amara abbia portato. Di certo ha confermato che stiamo vivendo un momento storico nauseante.


5. Dal punto di vista delle fonti, quanto può essere ritenuto importante questo documento-intervista?

Biondo: Il lavoro di Amara si basa su una serie di interviste in video: a uomini politici, ad ex brigatisti, a studiosi. È una buona occasione, sia per un lettore esperto che per uno meno aduso a questi argomenti, di farsi un’idea. Non c’è alcun dubbio che l’intervista a Steve Pieczenik è di grande importanza e sostanzia il titolo del libro. Ma in fondo “ad aver ucciso Aldo Moro” hanno concorso in tanti e il libro di Amara riesce, attraverso le voci dei protagonisti, a raccontare questa tragedia italiana. Forse proprio perché si trovavano di fronte a un giornalista straniero, gli intervistati si sono sentiti “più liberi” di scavare nei propri ricordi. Il racconto di Pieczenik entra a pieno titolo nella ricostruzione generale sul caso Moro, ma sopratutto sulle modalità con le quali lo Stato italiano ha combattuto il terrorismo italiano. Che l’inviato americano affermi davanti a una telecamera che Moro doveva morire con le sue rivelazioni è senza dubbio una testimonianza che non può essere licenziata con un’alzata di spalle.


6. Qual è stata la prima impressione nella lettura delle dichiarazioni di Pieczenik?

Biondo: Non sono rimasto sorpreso. Le verità dell’esperto americano sono senza dubbio degne dell’Italia di Machiavelli o di Andreotti o dell’America di Henry Kissinger. La frase che più mi ha colpito è questa: “Moro era disperato e avrebbe sicuramente fatto delle rivelazioni piuttosto importanti ai suoi carcerieri su uomini politici come Andreotti. È in quell’istante preciso che io e Cossiga ci siamo detti che bisognava cominciare a tendere la trappola alle Brigate Rosse. Abbandonare Aldo Moro e fare in modo che muoia con le sue rivelazioni”. Quanto racconta Pieczenik lo avevamo sospettato in molti, altri lo temevano. Io credo che la sua testimonianza andava proposta ai lettori italiani. Mi ha colpito molto vedere nel documentario di Amara il Presidente Cossiga guardare nel televisore del suo studio il viso e la voce del “suo” consulente che raccontava tutto questo.
Peraltro non una delle affermazioni di Pieczenik contrasta con le acquisizioni processuali e documentali, anzi trova piena conferma in esse. Punto primo: altri consulenti del Ministero dell’Interno, nello stesso comitato di Pieczenik affermano che Moro avrebbe dovuto accettare di morire. E’ il caso del professore Vincenzo Cappelletti che in Commissione Stragi ha affermato: “Di fronte a queste inattesissime lettere di Moro, la gente fu colta da un enorme stupore. [...] Io ne ricevetti una profonda delusione morale [...] perché Moro doveva accettare di morire, anche se ovviamente aveva tante ragioni dalla sua parte in quanto era stato rapito; tuttavia, a mio avviso egli avrebbe dovuto accettare di morire. Se erano veri i valori in cui Moro credeva, egli avrebbe dovuto accettare di morire”.
Punto secondo: da tempo è noto che il comunicato del lago della Duchessa non proviene dalle Br. E soprattutto, non è un’operazione fatta a fin di bene, come qualcuno in modo disinvolto afferma. Quel comunicato era una minaccia nei confronti dei brigatisti ma anche nei confronti dell’ostaggio. Basta rileggerlo: l’ideatore di quel volantino fa riferimento ai membri della Baader Meinhof, un gruppo armato tedesco di estrema sinistra, i cui membri sono morti in carcere. Nel 1978 era opinione comune che fossero stati uccisi dalle forze di polizia come rappresaglia dopo che i loro compagni avevano ucciso, dopo averlo sequestrato, il capo della Confidustria tedesca Martin Schleyer. L’autore del volantino accosta la morte violenta dei componenti della Baader Meinhof a quella dei brigatisti che detengono Moro. Nel comunicato si afferma anche che “il corpo di Moro si trova nelle acque limacciose del lago della Duchessa (ecco perché si dichiarava impantanato)”. In una lettera al ministro Cossiga Moro scrive indirizzandosi ai suoi amici della DC “Che Iddio vi illumini per il meglio, evitando che siate impantanati in un doloroso episodio, dal quale potrebbero dipendere molte cose.” Secondo Aldo Moro, il rischio di essere impantanati riguarda i dirigenti della Dc nel momento in cui non si impegnassero nella sua liberazione. Liberazione che, scrive Moro, sarebbe auspicabile “in nome della ragione di Stato, visto che, “io mi trovo sotto un dominio pieno e incontrollato”. In questa lettera è Moro a indicare alla Dc le vie di una possibile soluzione al suo rapimento. Chi scrive il falso comunicato manda una risposta direttamente al presidente della Dc: è lui a essere “impantanato”, e non i dirigenti del suo partito. È una risposta chiara, definitiva e minacciosa. Infatti l’esperto americano dice che il suo obiettivo era “lasciare morire Moro con le sue rivelazioni”.
Terzo punto: è un fatto che gli scritti di Moro sono stati amputati dagli stessi brigatisti e poi da chi li ha trovati la prima volta. La versione del memoriale che viene ritrovata solo nel 1990 risulta in alcuni punti ancora incompleta. E anche su questo punto i fatti confermano quanto dice Pieczenik: le rivelazioni di Moro dovevano essere oscurate. Quarto e ultimo punto: vi furono trattative, dice Pieczenik, con l’obiettivo di intrappolare le Br e costringerle a uccidere l’ostaggio. Nel comunicato numero 4 del 10 aprile le Br scrivono: “Denunciamo come manovre propagandistiche e strumentali i tentativi del regime di far credere nostro ciò che invece cerca di imporre: trattative segrete, misteriosi intermediari, mascheramento dei fatti.”
Servono altre conferme? Secondo me sì, l’americano dice anche molte altre cose ma sui punti fondamentali, la versione di Pieczenik si incastra perfettamente con i dati di fatto ormai acquisiti.


7. Cosa, secondo lei, Pieczenik avrebbe potuto aggiungere al suo racconto?

Biondo: Sicuramente molte altre cose. Pieczenik racconta che per raggiungere il suo obiettivo venne deciso di far venir fuori un falso volantino brigatista. Ciò avvenne il 18 aprile del 1978 con il comunicato numero 7 che indicava in uno sperduto lago dell’Abruzzo il luogo dove si trovava il corpo del Presidente della DC. Fu una trappola, dice Pieczenik, che aggiunge che a quel punto le Br non potevano fare altro che ucciderlo. Ecco, io credo che la versione di Pieczenik non spiega molte cose. Come poteva immaginare che le Br solo in virtù di quel comunicato avrebbero ucciso Moro e blindato le sue rivelazioni? Io sono dell’idea che la scoperta del covo di via Gradoli, ad esempio, è un’altra delle “trappole”. Lo stato ha agito con l’obiettivo fissato da Pieczenik: far morire Moro e le sue rivelazioni. Per fare questo ha intrappolato le Br con una serie di escamotage, tipo quello del falso comunicato numero 7. E probabilmente con altre operazioni di accerchiamento. Con buona pace di autorevoli commentatori i fatti dimostrano che l’allagamento che porta alla scoperta del covo di via Gradoli fu di natura dolosa. Le foto scattate dalla polizia all’interno del covo non dimostrano nulla se non l’insipienza di chi vorrebbe utilizzarle per dimostrare il contrario. La testimonianza della prima persona che entra nel covo, il vigile del fuoco Leonardi, dimostra che quell’allagamento fu doloso. Nel libro di Amara, cito in nota il verbale del suo interrogatorio al processo Moro in cui si legge:
“PRESIDENTE Questa doccia come era tenuta?
LEONARDI Su un manico di scopa.
PRESIDENTE Il rubinetto era aperto o guasto?
LEONARDI Era aperto. Noi lo abbiamo chiuso. Siamo stati chiamati dall’appartamento di sotto perché quest’acqua filtrava nel muro.
PRESIDENTE Questo per noi ha una certa importanza. Lei ha trovato, quando è entrato, il rubinetto della doccia aperto. Questa doccia era trattenuta da un manico di scopa e l’acqua filtrava dal rubinetto della doccia attraverso una fessura del muro?
LEONARDI Sì.
PRESIDENTE Lo scarico della vasca era aperto?
LEONARDI Sì.
PRESIDENTE Ora le farò vedere le foto, sono i rilievi della polizia. La mia domanda è semplice: se la doccia fosse rimasta in posizione normale, avrebbe scaricato nella vasca? Non era otturato lo scarico?
LEONARDI No, l’acqua defluiva.
PRESIDENTE La particolarità era che invece di defluire nello scarico defluiva sul muro?
LEONARDI Esatto.
PRESIDENTE Nella vasca da bagno, di solito, la doccia è agganciata. Questo gancio c’era?
LEONARDI La doccia, praticamente, era agganciata su un manico di scopa messo di traverso dentro la vasca.
PRESIDENTE Era possibile appenderla al muro, al posto suo?
LEONARDI Certo.
PRESIDENTE Queste sono le foto scattate dopo l’intervento della polizia. Questa è la vasca da bagno. Ci dica la posizione della doccia quando lei è entrato.
LEONARDI La scopa stava di traverso e la doccia vi stava appoggiata sopra e dava verso il muro.
PRESIDENTE Il buco sul muro era evidente?
LEONARDI Si vedeva uno spacchetto […].
PRESIDENTE Fu lei a rimettere la doccia al suo posto e a chiudere il rubinetto?
LEONARDI Sì.

Leonardi peraltro trova una casa sottosopra: armi e munizioni buttate su un letto, documenti in bianco e volantini Br sparsi per l’appartamento, due bombe a mano per terra. Se non ci fosse stato tutto questo, il covo Br non l’avremmo mai scoperto come tale e Mario Moretti, forse, sarebbe ritornato lì e avrebbe trovato l’amministratore del condominio che gli comunicava l’allagamento del bagno. E invece quel disordine era funzionale a bruciare quel covo che peraltro, come è noto, era stato segnalato almeno un paio di volte alle forze dell’ordine, per tacere della famosa seduta spiritica che porta la polizia nel paesino di Gradoli e non in una via della città dove era stato compiuto il rapimento. Nello stesso giorno in cui viene “scoperto” il covo, fa la sua comparsa il volantino ideato da Pieczenik: le Br sono di fatto accerchiate. Non per niente Patrizio Peci, tra gli altri, affermerà che le Br avevano accelerato la decisione di uccidere Moro perché temevano di essere scoperte.
I fatti sono chiari: qualcuno il 18 aprile 1978 si spaccia per brigatista e contemporaneamente l’appartamento dove abita Moretti viene fatto scoprire. Sarebbe interessante se Moretti ci dicesse se le condizioni in cui ha lasciato il suo appartamento la mattina del 18 aprile sono le stesse che vede non appena entra il vigile Leonardi, così da poter capire chi ha messo in piedi quella sceneggiata. Ma a lui non importa nulla: ormai è un uomo libero, con una nuova vita e soprattutto è rimasto vivo.


8. Conferme, sulle dichiarazioni di Pieczenik, non ce ne sono state, ma neanche smentite categoriche. Come mai le dichiarazioni sono apparse sui quotidiani senza scalfire alcunché? O si è trattato di “calma apparente”?

Biondo: Sinceramente non lo so. Per esperienza personale, posso dire che le dinamiche dei mass media mi risultano spesso oscure. Credo che il racconto di Pieczenik abbia creato qualche imbarazzo. Insomma, un cittadino americano, consulente del dipartimento di Stato, che dirige la prima unità di analisi antiterrorismo voluta da Henry Kissinger, che viene chiamato ad affrontare la crisi del sequestro, che ha sempre rifiutato di tornare in Italia a raccontare la sua versione dei fatti e che poi, a distanza di 30 anni dice queste cose, immagino abbia fatto imbestialire tanta gente. Ma non i diretti protagonisti, chiariamo bene. I presidenti Cossiga e Andreotti, i brigatisti implicati nel sequestro, sono uomini di mondo, conoscono le regole del gioco: “Mai rispondere ad una dichiarazione che fin dall’inizio li mette in difficoltà”. Ho avuto modo di confrontarmi pubblicamente con l’ex-sottosegretario alla Presidenza del Consiglio (con delega ai servizi segreti) Franco Mazzola. Lui giura di non aver mai sentito dire nei giorni del sequestro che c’era l’idea di tirare fuori un falso comunicato e che nell’unica volta in cui ha visto Pieczenik questi non ha mai detto una cosa simile. Mazzola afferma questo anche sulla base di un appunto di una riunione avvenuta l’11 aprile 1978. Mazzola non è un ingenuo e sa benissimo che una decisione simile, come quella di un falso comunicato di quel tipo, non si mette a verbale e che meno persone ne sono a conoscenza meglio è.
Io credo di aver fatto solo il mio dovere, con l’aiuto fondamentale di Giuliano Boraso: proporre questo libro a un editore italiano, Cooper, che a sua volta, con grande intelligenza e professionalità, ha fatto il suo dovere e cioè pubblicarlo dopo le necessarie verifiche. Il resto, tutto il resto, non mi interessa.
Non credo che il Presidente Cossiga abbia mandato a morte il suo amico Aldo Moro a cui era umanamente legatissimo. Ma è indubbio che conosce i retroscena dell’operazione del lago della Duchessa. Io credo che sia rimasto stritolato dalle indicazioni di Pieczenik che altri hanno avallato e a cui lui non ha saputo opporsi. Spesso l’uomo di Stato Francesco Cossiga ha smesso i suoi panni per difendere con estrema forza, a torto o ragione, le sue posizioni e i suoi convincimenti avvicinandosi così alle passioni dei semplici cittadini. Sarebbe davvero importante se lo facesse anche stavolta, se riuscisse a lasciare nel suo testamento politico la verità su chi, insieme a Steve Pieczenik, ha deciso freddamente che “Moro doveva morire con le sue rivelazioni”. Solo lui, credo, ha la forza di poterlo fare.
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