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  Moro, trent'anni dopo.  
Ma perché Cossiga non pubblica quel diario?  
di Giuseppe Giacovazzo  
Sopraffatto dagli incubi, Francesco Cossiga confessa: «Ho ucciso Aldo Moro a 
cui debbo la mia immeritata vertiginosa carriera. Ma credo di espiare ricevendo 
periodicamente dalla famiglia Moro l’epiteto di assassino». (La Stampa, 9 marzo 
2008)  
L’ultima volta gliel’ha detto, senza nominarlo, la vedova Eleonora Moro, 
attraverso un colloquio con l’ex magistrato Ferdinando Imposimato, riportato nel 
suo libro «Doveva morire». «Chi l’ha assassinato è vivo. E non penso ai 
poveretti che l’hanno sparato. Prego Dio per lui affinché gli tenga la sua santa 
mano sul capo. A quelli che l’hanno fatto uccidere non posso stringere la mano… 
Quando li vedo, attraverso la strada e vado dall’altra parte».  
La signora Moro ha varcato i 90 anni. Non abita più in via di Forte 
Trionfale. L’ultima volta che andai a trovarla in quella casa tentai di 
convincerla a raccontare quella parte della sua sofferta verità che ha taciuto 
anche nei cinque processi. «No», mi disse con voce materna. E ancora no, con 
quegli occhi azzurri che il tempo non ha appannato. «Mio caro, se parlo devo 
dire la verità, e se dico la verità faccio del male non solo a me, che non me ne 
importa niente, ma ai miei figli, ai nipoti… e anche a te che scrivi e sei 
venuto qui a trovarmi». Poi mi accompagnò alla vetrata del balcone che dava 
sulla strada dove avevo parcheggiato. «Ti ho visto mentre arrivavi, e subito 
dopo s’è fermata dietro la tua auto una macchina nera… la conosco, la 
conosciamo».  
Non me la sentii di andare oltre.  
Forse riaffiorava in lei l’ombra di quelle strane presenze non sempre 
protettive, quei «servizi» che hanno avuto un oscuro inquietante ruolo nel 
dramma della sua famiglia, manovrati da massime potenze. Donna Eleonora non ha 
mai nascosto una sua convinzione: c’era la mano americana dietro il cosiddetto 
partito della fermezza, che negò ogni seria trattativa per salvare Moro. E ora 
ne abbiamo la conferma diretta.  
Dopo trent’anni di silenzio si fa vivo quel signore americano scomparso, che 
per conto della Casa Bianca sbarcò in Italia nel marzo del 1978 e tenne i fili 
del sequestro Moro per i 55 giorni della prigionia. Molti si chiedevano che fine 
avesse fatto Steve Pieczenick, fiduciario del presidente Carter, l’uomo che ebbe 
carta bianca, fino a scavalcare, come fece, il fiacco ambasciatore Gardner. 
L’inviato speciale americano prese in mano le redini dell’operazione appena si 
rese conto che il governo Andreotti e il suo ministro dell’Interno Cossiga si 
erano affidati a servizi segreti inefficienti e corrotti, infiltrati dalle 
brigate rosse e in combutta con loro.  
Ora finalmente l’americano racconta tutto per filo e per segno al giornalista 
francese Emmanuel Amara in un libro senza equivoci, a partire dal titolo: 
«Abbiamo ucciso Moro». Appena giunto a Roma, Steve capì subito che lo Stato 
italiano era ridotto a un colabrodo. Ormai il governo aveva consegnato le chiavi 
della sicurezza nazionale nelle mani della P2. A capo del Sismi e del Sisde 
sedevano i generali Santovito e Grassini, iscritti insieme ad altri capi e 
sottocapi alla loggia massonica di Licio Gelli che perseguiva un preciso 
disegno: far fallire con ogni mezzo il dialogo avviato da Moro con Berlinguer 
per la formazione di un governo di solidarietà nazionale. Ma dopo il sequestro i 
vertici della Dc e lo stesso leader comunista dissero che trattare con le Br 
significava infliggere un colpo mortale allo Stato. E si chiusero nella 
fermezza.  
In quella situazione caotica i brigatisti si muovevano liberamente per Roma 
sotto il naso degli inquirenti ridicolizzati, e il governo impotente a guardare, 
in mezzo a un intreccio di segreti inconfessati. Il fondatore delle Br, Curcio, 
l’aveva detto in un processo: «Non possono parlare loro e non parleremo neppure 
noi». Questo era il tacito patto con i servizi deviati, sottomessi alla P2.  
Di qui la fallacia dei processi. E perché tutti gli assassini sono da tempo 
in libertà. Ho visto e ascoltato di persona i brigatisti Moretti, Gallinari, 
Peci, Savasta. Ho potuto a lungo parlare con Germano Maccari che dopo 
l’uccisione nel garage di via Montalcini guidò la Renault rossa in via Caetani 
col cadavere di Moro. Ho rifatto con lui, vent’anni dopo, quello stesso 
tragitto. Neanche lui ci ha detto la verità, pur essendo già segnato dal male 
che poco dopo l’avrebbe spento, ancor giovane. Non è chiara tuttora neppure la 
dinamica dell’eccidio di via Fani, trent’anni dopo quel 16 marzo. E neppure il 
numero dei brigatisti che spararono. Ci si chiede ancora come mai il covo di via 
Montalcini fosse stato scoperto quattro anni più tardi. E la Braghetti vi 
abitava ancora nel febbraio del 1980 quando assassinò all’Università di Roma il 
professor Vittorio Bachelet.  
Con questi misteri conviviamo dopo tre decenni. E il dolente Cossiga non sarà 
facilmente affrancato dagli incubi che lo tormentano, fino a quando non si 
deciderà a raccontare tutta la verità che conosce, finché non avrà spazzato via 
la nebbia che copre ancora gli assassini di Moro e i loro complici più o meno 
occulti. Ha detto di recente in una intervista che ha tenuto «un diario 
giornaliero di quella vicenda e chissà che non lo pubblichi». Cosa aspetta? 
Potrebbe aiutarlo a scongiurare quell’epiteto di assassino che periodicamente 
gli cade addosso. Di chi ha paura?  
Se davvero crede a un cammino d’espiazione, non è tacendo che si può espiare. 
Così tutti continuiamo a espiare, consapevoli e non, un lutto italiano che non 
riusciamo a cancellare, né dalla memoria né dalla storia. Così non si rende 
giustizia a nessuno. Tanto meno a un martire che ancor giovane docente 
universitario scriveva: «Forse il destino dell’uomo non è di realizzare 
pienamente la giustizia, ma di avere della giustizia perennemente fame e sete. 
Ma è sempre un gran destino».  
di Giuseppe Giacovazzo ("La Gazzetta del Mezzogiorno" del 15/03/2008) 
      
      
       
       
    
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