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Il rivoluzionario da fumetto che si arrese ad una quaglia
C’è il libro «L’infame, storia dell’uomo che uccise le Brigate rosse» che
Patrizio Peci ha scritto per raccontare le sue verità sugli Anni di piombo e che
«Il Giornale» ha anticipato sulle pagine di lunedì. E poi c’è il maresciallo
Angelo Incandela, l’uomo che lo ha convinto a collaborare. E che sempre in
un’intervista al «Giornale», ha accusato Peci di essere un «vigliacco»: «Macché
pentito. La verità è che non ha retto all’isolamento, non ha ceduto alla
coscienza ma alla gola. Quando gli ho fatto capire come potevo rendergli la
prigionia più facile ha vuotato il sacco». Frasi che provocano oggi un altro
botta e risposta.
Adesso che carta canta è tutto chiaro, chiaro come il sole. È come dice il
maresciallo Angelo Incandela. Nel carcere di Cuneo Patrizio Peci, il terrorista
che per primo «collaborò» raccontando quanto bastava per smantellare e mandare
in pensione le Brigate rosse, non mangiava «quello che passava la cucina
comune», ma à la carte. La mattina passava l'appuntato e chiedeva: Peci, cosa
vuoi per colazione? Peci ordinava e l'appuntato prendeva nota su un foglietto di
carta a quadretti. In uno di quei foglietti, conservato come una reliquia da
Incandela, si legge: «quaglie», «prosciutto» e «banane». Non proprio ciò che
esce, d'abitudine, dalle cucine d'un carcere. Niente di male, nel volersi tener
su con un piatto di quaglie al prosciutto. Condottovi per mano da Incandela,
Peci stava per vuotare il sacco al generale Della Chiesa.
La tensione doveva essere forte e in simili circostanze un buon pasto aiuta.
Niente di male nemmeno nell'accedere allo "spesino" del sopravvitto. Oltre ai
generi mangerecci, quel giorno Peci ordinò un cambio di mutande e di calzini,
una caffettiera, tre tazzine, caffè, zucchero e gli attrezzi per potersi
sbarbare. Tutte richieste che uno si aspetta da un detenuto, foss'anche il
fondatore del Pail (Proletari Armati In Lotta) e fra i venti più ricercati
brigatisti rossi. Quello che non ci aspetterebbe, invece, da un profeta armato
in lotta contro lo Stato borghese è la richiesta di una certa quantità di
pubblicazioni, diciamo così, frivole. Nella fattispecie «giornale fumetti» e
«numero 7 fotoromanzi», per un costo, questi ultimi, di 3mila 950 lire.
Fotoromanzi. Quella che un tempo faceva sognare le servette costituiva, dunque,
la lettura preferita, forse la sola, dell'uomo che, a sua volta, sognava di
sovvertire l'ordine delle cose e instaurare, a suon di P38, la dittatura del
proletariato (in lotta).
Le preferenze di Fabrizio Peci nulla tolgono o aggiungono alla tragica
rappresentazione degli Anni di piombo, questo va da sé. Però fa un po' rabbia
venire a sapere che gratta gratta lo Stato e i cittadini se la dovettero vedere
con gente con quelle ambizioni culturali. Credevamo d'aver di fronte gente assai
ferrata ideologicamente e capace di elaborare sofisticate strategie sovversive e
sediziose. E invece, ma guarda tu, mica si abbeveravano a Marx, Trotzky o
Bakunin, ai saggi sul collettivismo o ai tomi di sociologia firmati da qualche
docente dell'università di Trento. Macché, a Grand Hotel, Sogno e Bolero. Non
poteva che finire così, dare l'addio alle armi per un piatto di quaglie al
prosciutto.
La lettera di Peci: "Povero maresciallo, quante bugie racconti"
La risposta del maresciallo Incandela:"Povero Peci, la verità ti fa male"
Paolo Granzotto (Il Giornale, 22 ottobre 2008)
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