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‘Io l'infame' uscì nel 1983. È il racconto di Patrizio Peci a Giordano
Bruno Guerri: la storia del primo pentito delle Br, quello che diede un colpo
forse decisivo al partito armato. Il 21 ottobre ritorna in libreria per Sperling
& Kupfer in una versione aggiornata con quattro capitoli inediti. Premessa di
Luca Telese, prefazione di Giordano Bruno Guerri (288 pagine, 15 euro)
Intervista a Patrizio Peci
“Non fu lo Stato ad abbattere le Brigate Rosse, siamo noi che ci siamo
autodistrutti”
Si paragona a un condannato a morte «che viene ammazzato dopo vent´anni». E
lo fa per spiegare quanto sia cambiato in un quarto di secolo. Insiste che,
proprio come quel deadman walking destinato a lasciarci la pelle, è anche lui
«ormai un altro uomo. Non innocente sia chiaro, ma certo tutta un´altra
persona». Lui è Patrizio Peci, cinquantacinque anni, l´ex terrorista che con le
sue ammissioni fece arrestare nel 1980 oltre settanta brigatisti e favorì lo
smantellamento di decine di covi.
Il primo pentito di quegli anni bui, colui che causò il terremoto delle
dissociazioni e dette il via alla legge che le tutelò. Il collaboratore di
giustizia che contribuì più di ogni altro a disintegrare la stella a cinque
punte. Un ex brigatista, corresponsabile di sette omicidi, condannato grazie
alla normativa che lui stesso provocò a soli sette anni dei quali quattro
scontati in carcere.
Ma anche l´unico che in quel tempo di piombo «abbia abitato entrambi i gironi
dei dannati: sia fra le vittime che fra i carnefici» per aver dovuto piangere la
morte del fratello, Roberto, catturato e ucciso dalle Brigate rosse per vendetta
trasversale a venticinque anni e mentre sua moglie era incinta. «E se anche di
questo non voglio parlare, dico che quei brigatisti li odio ancora per quello
che hanno fatto. E io non li perdono».
Da allora Patrizio Peci vive una seconda vita. In silenzio e senza identità.
Più precisamente con un´altra identità, rimasta sconosciuta. Ma con la stessa
faccia. Lui, la plastica per cambiarsi i connotati non l´ha mai voluta fare. Ha
un lavoro «equivalente a quello di un operaio», non ha scorta né stipendio da
protetto, «mai avuti questi privilegi», e un fisico che, dicono, se si escludono
i chili in più, non è poi così cambiato, compresi i baffi appena ingrigiti dall´età.
«La plastica non sarebbe servita. Uno come me, con un´esperienza da clandestino
nelle bierre, sa che per sparire il miglior nascondiglio è vivere tra la gente».
Patrizio Peci non si presenta all´incontro organizzato da settimane. Un
dolore alla schiena gli impedisce di muoversi. «Il male è grande, ma non muoio,
sono sopravvissuto a tante situazioni...». Dice che, pur avendo sperato fino all´ultimo
momento di poter viaggiare (da dove, resta un comprensibile mistero), non può
arrivare nella sede della casa editrice che pubblica la nuova edizione di Io
l´infame, il libro scritto anni fa con Giordano Bruno Guerri e che, arricchito
di qualche decina di pagine inedite, torna in libreria lunedì 21 ottobre per
Sperling e Kupfer nella collana diretta da Luca Telese. L´appuntamento diventa
telefonico e Peci stavolta è puntuale.
«Ormai sono un´altra persona, che vive e fa cose diverse, che ha una
famiglia, un figlio. È stata una scommessa, una delle tante. La mia contro le
bierre. Nessuno avrebbe creduto che mi sarei salvato. All´inizio è stata dura,
molto dura. All´epoca le Brigate rosse erano ancora forti e il rischio che mi
trovassero era concreto; solo col tempo mi sono convinto che ce l´avrei fatta».
Peci e la sua seconda vita. La moglie l´ha conosciuta in carcere, per
corrispondenza. «Mi sono sposato poco dopo essere uscito di galera, è stata una
scelta. Rientrare nella legalità, avere un´altra vita. Il matrimonio, un figlio,
il lavoro, la normalità: era quello che cercavo. Mia moglie ha sempre saputo chi
io fossi, e ho sempre condiviso con tutti i miei parenti quello che stavo
diventando, quello che ho fatto».
E non si sente senza macchia. «Sono quello che sono. Ma chi mi ha accettato
ha riconosciuto la mia buona fede, sempre, dalla lotta armata alla
dissociazione. Tutte scelte trasparenti, compiute senza condizionamenti». È il
suo modo per respingere ancora una volta «le balle» circolate intorno al suo
doppio arresto e al suo ruolo di infiltrato, «balle» appiccicate dalle Brigate
rosse addosso a suo fratello in quei giorni di strazio.
Lei aveva provocato tanti arresti, poteva immaginare una vendetta di quel
genere? «No di certo, non era in preventivo, ovviamente. Ero tranquillissimo per
tutta la mia famiglia, Roberto non era responsabile di nulla� fu un fulmine a
ciel sereno. Mi aspettavo che l´avrebbero fatta pagare a me. Ma io sarei stato
in grado di difendermi».
Sul come lui si sia difeso e nascosto per decenni, minimizza. «Sono stato,
semplicemente, tra la gente. Avevo la mia vita, gli amici, la maggior parte dei
quali ignorava la mia vera identità. Negli anni ho cambiato lavoro un paio di
volte, e anche città. Ma non per sfuggire a qualcosa, solo perché avevo trovato
un posto migliore, più remunerativo. I primi tempi sono stati difficili, adesso
lavoriamo in due e va molto meglio».
La famiglia e quella parola ricorrente, «normalità», che Peci usa perfino da
lente per guardare il figlio. «Ha ventiquattro anni e adesso vive praticamente
da solo. Non gli avevamo detto nulla su di me, l´ha scoperto da ragazzino quando
vide una mia foto su un giornale. Alla fine ammisi di essere io quello e,
insieme a mia moglie, piano piano gli abbiamo raccontato tutto. Non gli ho mai
chiesto di mantenere il segreto sulla mia vera identità, ma lui lo ha fatto
automaticamente e se ne è assunto la responsabilità. Ha capito la buona fede del
padre».
Patrizio Peci e la paura. Non ne ha avuta mai? «Una volta è capitato. A
Milano. Ero con mia moglie per strada e ho temuto un agguato. Un´altra volta,
ricevetti una segnalazione secondo la quale le Br mi avevano scovato. Si rivelò
falsa. Del resto non ho mai avuto una scorta, se non quando mi dovevo presentare
in posti ufficiali, dove si sapeva che sarei andato. Ho sempre vissuto qui e non
ho mai fatto la plastica. A che cosa sarebbe dovuta servire? Sembra incredibile,
ma, in questi venticinque anni, ho fatto sempre la stessa vita, mimetizzato in
mezzo alla gente. È il modo migliore per sparire. Certo, problemi ce ne sono
stati e tanti. Soprattutto quelli legati all´identità, a cominciare dal libretto
della mutua».
Una second life quasi banale quella che Peci descrive. Tranne che per
l´assassinio del fratello Roberto, che lui vuole tenere fuori. E si ammorbidisce
solo per descrivere le sue reazioni. «Dolore, sofferenza. Mio fratello era anche
un amico, la persona sulla quale avrei potuto fare affidamento, appena uscito
dal carcere. Con lui avrei potuto risolvere tante cose, consigliarmi. Invece in
me è scattato un tale odio per i responsabili. Un odio che è rimasto uguale da
allora e che mi porto sempre dentro, anche se non guardo i giornali che ne
parlano, anche se, quando mi capita di incrociare una qualche trasmissione tv,
subito spengo». Sospira, cambia voce e torna a parlare di sé. «Se ho accettato
di scrivere una parte nuova del mio libro è stato solo per dimostrare che si può
cambiare veramente vita e diventare un altro. Che si possono avere degli affetti
e perfino qualche bene materiale. Volevo dimostrare che è possibile farcela».
Peci, lei non è senza identità, ne ha una doppia. «È vero, ho avuto nuovi
amici che non sanno e non hanno mai saputo chi io fossi. E vecchi amici,
pochissimi, che sanno e che vedo raramente perché tutto è cambiato e tutto
cambia. È passato talmente tanto tempo e, se io sono un´altra persona, anche
loro sono diversi, non ci sono più le affinità di una volta». Un´esistenza
sdoppiata: da una parte una moglie, un figlio, qualche vecchio amico, e due
carabinieri, uno soprattutto, Creso, con cui suo figlio è cresciuto. «Li ho
conosciuti e ci siamo trovati bene. Un rapporto di verità». Dall´altra la
finzione: gli amici nuovi, i rapporti di lavoro, i conoscenti. Come fa a
insistere che tutto questo è normale? Si risente: «Non capisce? Io sono stato
abituato a vivere la clandestinità. L´ho fatto per quattro anni, prima di finire
in carcere».
Si è mai rammaricato di aver provocato tanti arresti? «Durante il carcere è
stato tutto molto difficile, dal punto di vista psicologico e da quello
pratico». Come decise di saltare il fosso e di collaborare? «Dubbi all´inizio ne
avevo tanti, e anche sofferenza, già prima di essere arrestato. Non ero più
convinto di quello che avevo fatto e, dopo Moro (il rapimento e l´assassinio di
Aldo Moro è del 9 maggio 1978, cinquantacinque giorni dopo la strage di via
Fani, ndr), non sapevamo più come andare avanti. Quella non era la mia crisi,
era quella di tutte le Brigate rosse. Lo so, io sono stato il primo, ma se la
mia scelta fosse rimasta singola, isolata, non si sarebbe creato il fenomeno
della dissociazione. E quindi le bierre non si sarebbero disintegrate. La mia
dissociazione fu un po´ quella di tutti. Non fu lo Stato a distruggere le
Brigate rosse, siamo noi che ci siamo autodistrutti. La nostra strategia non era
giusta, non lo era la violenza in Italia, in quelle condizioni. Non lo era aver
provocato tanti danni, morte e dolore».
Progetti per il futuro? «Sei anni fa ho avuto un tumore, ora diciamo che è
superato, almeno sembra. Vorrei invecchiare tranquillamente. Per il resto anche
prima vivevo nella normalità: facevo la spesa, parlavo con la portinaia, andavo
al bar, al supermercato».
Eccezioni? «Una volta, ero a Torino per un processo; a Porta Palazzo un
ragazzo mi ha riconosciuto e me l´ha detto in faccia. Ti stai sbagliando, gli ho
risposto. E lui: "Io, al posto tuo, starei attento". E io: "Lo farò". È stato
uno dei pochissimi casi. Per il resto, normalità».
Ancora questa parola? «Non ci crede? Beh, glielo dico, all´epoca sono tornato
perfino a San Benedetto qualche volta, la città dove ho vissuto, la mia città.
Fu qualche anno dopo; sono stato a trovare mia madre, i miei parenti. E ho anche
dormito in casa di mia madre. E senza i miei amici carabinieri che qualche volta
lasciavano correre, altrimenti non campavo più. La mattina andavo al mare e una
volta il padrone dello chalet mi ha perfino riconosciuto, abbiamo pranzato
insieme. Ci pensi, se fosse venuto fuori: Peci sta al mare a San Benedetto, ci
avrebbe forse creduto qualcuno? È tutto lì il bluff».
Silvana Mazzocchi (Repubblica, 19 ottobre 2008)
UN BRANO INEDITO DI PATRIZIO PECI TRATTO DA "IO, L'INFAME"
Patrizio Peci è morto il 18 maggio 1983. Patrizio Peci ero io. Il 18 maggio
1983, a Torino, l´uomo conosciuto con il nome di Patrizio Peci entrava in
un´aula del tribunale di Torino per testimoniare contro i suoi ex compagni,
principale teste d´accusa nel processo contro le Brigate rosse. Fino a quel
giorno ero stato un brigatista, dopo di allora divenni il più feroce nemico dei
brigatisti, l´uomo che aveva reso possibile lo smantellamento della più
importante organizzazione armata degli anni di piombo. Peci "l´infame", perché
aveva tradito il codice di omertà che lega tra di loro gli ex terroristi, spesso
anche dopo la cattura.
Peci "l´infame", perché aveva vuotato il sacco, chiuso ogni margine di
ambiguità possibile, perché si era bruciato i ponti dietro le spalle; infame
perché aveva fatto i nomi, perché aveva collaborato con il generale, perché
aveva scelto quegli stessi carabinieri che gli avevano dato la caccia. Infame
perché era passato dalla parte dei suoi ex nemici, che adesso erano destinati a
diventare i suoi unici compagni di vita. Peci, l´ex combattente convinto che la
guerra sia finita.
«Perché non ti fai una plastica?». Se dovevo restare in questo paese,
bisognava immaginare come. Se non dovevo trasferirmi all´estero, era
indispensabile trovare un modo per vivere in Italia. Ci pensai a lungo e giunsi
a un´unica conclusione. La sola cosa della vita di Patrizio Peci che poteva
servire anche alla vita del nuovo Patrizio era quello che Peci sapeva fare
meglio. Ovvero vivere nelle città, dissimularsi tra mille esistenze anonime,
vivere da clandestino. Sfuggire alla condanna a morte delle Brigate rosse con
gli stessi strumenti appresi alla scuola delle Brigate rosse.
L´ultima scelta, se possibile, fu ancora più importante. Vivere con la mia
faccia di sempre, l´unica che conoscevo. Quella a cui ero affezionato. Uno a cui
capita di morire, una volta nella vita, può cambiare tutto. Tutto, ma non
l´immagine che guarda la mattina quando si ritrova davanti allo specchio. Era un
azzardo, mi dicevano. Ma sentivo che potevo farlo. Ero convinto di aver imparato
una regola, nel periodo della mia prima latitanza.
Un giorno, al mare, mi ero ritrovato in spiaggia. Ero bardato, senza baffi,
apparentemente irriconoscibile rispetto all´identikit diffuso dai giornali. Mi
capitò di incrociare lo sguardo di un amico di infanzia, dietro un ombrellone,
di esserne come attraversato, di avere la certezza matematica di essere stato
riconosciuto.
Quel giorno mi ero convinto che se qualcuno ti riconosce non è per la forma
del naso, o per il modo in cui la mascella si appoggia sul tuo collo, o per il
taglio delle sopracciglia. Se uno ti riconosce, quando sei latitante, è perché
ti sa guardare negli occhi. Ma siccome gli occhi sono quelli, e nessuno te li
può cambiare, decisi che già che c´ero avrei corso il rischio, che avrei tenuto
anche la mia faccia. Il primo anno fu durissimo. Il secondo migliore. Dal terzo
iniziai a pensare che ce l´avrei potuta fare. Scegliere di fare un bambino,
insieme, fu la traduzione di questa certezza acquisita, fu il passo di non
ritorno nella normalità. Il ritorno alle responsabilità era un altro passo che
mi separava dalla mia vita precedente. Essere responsabile di una vita è la cosa
che più ti allontana da un´esistenza in cui le vite non contano.
Oggi mio figlio ha ventiquattro anni, e un segreto. Non è stato sempre così.
Non gli avevamo detto tutto, quindi per molti anni anche lui ha coltivato il
dubbio. Quando era piccolo non si faceva troppe domande. Non ci chiedeva chi
fossero gli "amici" con la pistola che spesso ci venivano a fare visita, non mi
faceva domande sullo "zio Creso" e sullo "zio Picciotto", i due carabinieri che
dopo avermi dato la caccia erano diventati i miei migliori amici. Quello era il
suo mondo, la sua famiglia, la normalità, i volti delle persone che conosceva da
sempre.
Curcio Renato
Certo, come una premonizione, c´era la sua passione per gli anni di piombo,
per i programmi di Giovanni Minoli e per gli articoli dei giornali. Non ci
eravamo dati regole perentorie, io e mia moglie, se non questa: quando lui
faceva domande, noi rispondevamo sempre.
La verità iniziò a farsi largo a poco a poco, per gradi, come se si fosse
trattato di un destino ineluttabile, di una necessità. Un giorno,
improvvisamente, ogni filtro cadde.
Mio figlio mi venne incontro con in mano una copia di un giornale, credo La
Stampa. Non ebbi bisogno di leggere per sapere di cosa si trattasse. C´era un
articolo su Peci e una foto dei tempi del processo. Era una vecchia immagine in
bianco e nero, per giunta un po´ sgranata, dove apparivo molto diverso da come
ero in quei giorni. Ma se la regola dello sguardo ha un senso per chi ti ha
conosciuto bene, figuratevi se uno sguardo può mantenere un segreto di fronte a
un figlio.
Disse semplicemente: «Papà, questo sei tu».
Io provai a scherzarci su, e risposi ridendo: «Sì, figurati, sono il
terrorista Peci». Lui continuò, senza farsi scoraggiare dalla mia battuta:
«Papà, Peci sei tu, io lo so».
Mi sono accorto solo per caso che io sono l´unico. L´unico che negli anni di
piombo abbia abitato entrambi i gironi dei dannati: sia fra le vittime sia fra i
carnefici, sia fra chi ha amministrato la morte sia fra chi ha conosciuto la
morte, quella di una delle persone più care, quella che ti fa conoscere il senso
della perdita irrevocabile. Sono l´unico, e non è certo un privilegio. È come se
queste due parti della mia storia e della mia personalità si inseguissero in
tondo dentro di me, in un moto perpetuo, e non si incontrassero mai. Come se
aver impugnato una pistola per sparare mi rendesse ancora più difficile, e non
più facile, capire le ragioni di chi ha sparato.
Ogni volta che penso a mio fratello, e a quello che gli hanno fatto, alla
squallida messa in scena allestita a beneficio dei giornali, alla foto dell´esecuzione
scattata come se si trattasse di un film, al canto di Bandiera rossa mandato in
onda mentre gli leggono la sentenza di morte, sento ribollire il sangue nelle
vene per l´ira. Anni fa, come ho già raccontato, credevo che avrei trascorso
quello che mi restava da vivere a inseguirli con la pistola in mano. Oggi che
l´idea della vendetta è passata come una febbre tropicale dentro di me, sento
solo un grande vuoto: il senso della perdita e dell´assenza. Non potrò perdonare
mai. Mai. Perché non si può perdonare quello che non ha senso.
E forse è per questo che i parenti delle vittime non riescono a spiegare mai,
a chi non lo ha conosciuto, il senso del lutto. Non puoi perdonare la perdita
irrevocabile, soprattutto quando sai che non c´era motivo, soltanto odio e
ferocia animalesca in chi ha premuto il grilletto. Ancora oggi, di questi
brigatisti del presunto Fronte delle carceri, quelli che realizzarono il
sequestro, penso un´unica cosa: che sono delle bestie.
Oggi, a distanza di tanti anni, non so dire se davvero sono io quello che ha
smantellato le Brigate rosse. Non sono un presuntuoso, non mi interessa
appuntarmi medaglie sul petto, non è nel mio carattere. Ma di una cosa sono
sicuro: io ho anticipato, con la mia scelta, qualcosa che doveva accadere. Sono
stato lo strumento che ha reso possibile qualcosa che era già nella storia.
Oggi, dopo che è passato un quarto di secolo, e che il tempo ha misurato il
peso delle scelte, penso semplicemente questo: non ho rimpianti, non ho rimorsi.
Sono felice di avere fatto quello che ho fatto, perché era giusto farlo.
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