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Cossiga agli ebrei italiani: “Vi abbiamo venduto”
Lo chiamavano “L’Accordo Moro”, e la formula era semplice: l’Italia non si
intromette negli affari dei palestinesi, che in cambio non toccano obiettivi
italiani. Tuttavia, ora si scopre che gli ebrei erano esclusi dall’equazione. In
un’intervista speciale, l’ex Presidente Francesco Cossiga rivela come le
Autorità di Roma avrebbero collaborato con le organizzazioni terroristiche negli
Anni Ottanta, ed ammonisce: “Oggi c’è un accordo analogo con Hizbullah in
Libano”
di Menachem Gantz
In casa di Francesco Cossiga, nel cuore del quartiere Prati
di Roma, sventolano - l’una accanto all’altra - tre bandiere eleganti: quella
dell’Italia, quella della Regione Sardegna e quella di Israele. Non sempre l’ex
Presidente della Repubblica italiana - uno dei politici più noti e di buona fama
del Bel Paese - era un tale amante di Sion. Una volta, negli Anni Cinquanta, fu
lui ad inaugurare l’Associazione d’amicizia Italia- Palestina. Poi, quando era
Presidente del Senato, ha persino dato, nel suo Gabinetto,asilo ad Arafat quando
era stato emesso un mandato di cattura nei suoi confronti.
Ma oggi, a ottant’anni, Cossiga ama Israele. Questo è forse
il motivo per il quale accetta quasi immediatamente, senza condizioni, di
concedere un’intervista ad un giornale israeliano. Questo è forse anche il
motivo per cui è disposto ad aprire, con raro candore, un vaso di Pandora tra i
più stupefacenti e orripilanti dell’Italia, [che egli ha conosciuto] nei lunghi
anni di servizio pubblico. Sarà forse l’imbarazzo, la volontà di riparare al
male causato dall’accordo in cui l’Italia avrebbe di fatto permesso di sottrarre
la vita di qualsiasi ebreo in quanto tale - sarà forse questo che lo porta ad
aprire la storia per intero.
Tutto è cominciato lo scorso agosto, quando la maggior parte
degli italiani inondava le spiagge per le vacanze estive. In
un’intervista al Corriere della Sera, Bassam Abu Sharif, considerato il ministro
degli esteri del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina negli Anni
Settanta e Ottanta, ha svelato che in quegli anni i Governi di Roma permettevano
ad organizzazioni terroristiche palestinesi di agire liberamente in territorio
italiano, in cambio [di un impegno] a non colpire obiettivi nazionali in Italia
e nel mondo. L’accordo, secondo Abu Sharif, era stato denominato
“L’Accordo Moro”, riprendendo il nome di Aldo Moro, ex Presidente del Consiglio
assassinato nel 1978, che ne era il responsabile.
Cossiga si è affrettato [in agosto] a confermare le
asserzioni di Abu Sharif. “Ho sempre saputo - benché non sulla base di documenti
o informazioni ufficiali, sempre tenuti celati nei miei confronti -
dell’esistenza di un accordo sulla base della formula “tu non mi colpisci, io
non ti colpisco” tra lo Stato italiano ed organizzazione come l’OLP ed il Fronte
Popolare per la Liberazione della Palestina”, ha ammesso in un articolo
pubblicato dal Corriere.
Ma quella pubblicazione aveva lasciato dei buchi, degli
interrogativi troppo grandi. Se l’Italia aveva ottenuto l’immunità dal
terrorismo palestinese, come mai ebbero luogo nel Paese attentati sanguinosi
contro obiettivi ebraici? Se c’era un accordo, come mai vi erano stati uccisi
ebrei innocenti?
Ora Cossiga rivela tutta la verità. “In cambio di una
“mano libera” in Italia”, ammette in un’intervista speciale, “i palestinesi
hanno assicurato la sicurezza del nostro Stato e [l'immunità] di obiettivi
italiani al di fuori del Paese da attentati terroristici - fin tanto che tali
obiettivi non collaborassero con il sionismo e con lo Stato d’Israele”.
In altre parole: gli italiani non si toccano, ma se sono ebrei - questo è già un
altro paio di maniche.
“Per evitare problemi, l’Italia assumeva una linea di
condotta [che le permetteva] di non essere disturbata o infastidita”, spiega
Cossiga, “Poiché gli arabi erano in grado di disturbare l’Italia più degli
americani, l’Italia si arrese ai primi. Posso dire con certezza che
anche oggi esiste una simile politica. L’Italia ha un accordo con Hizbullah per
cui le forze UNIFIL chiudono un occhio sul processo di riarmamento, purché non
siano compiuti attentati contro gli uomini del suo contingente”.
Cossiga ammette di essere rimasto sorpreso per l’indifferenza
con cui venne accolta in Italia la sua rivelazione. “Ero convinto che la notizia
pubblicata in agosto avrebbe risvegliato i media, che magistrati avrebbero
cominciato ad indagare, che sarebbero cominciate interrogazioni ai coinvolti.
Invece c’è stato il silenzio assoluto. A quanto pare, nessuno se ne interessa
qui. Lei è l’unico ad avermi interpellato in materia”.
Tuttavia, scavare nella profondità di questo dossier potrebbe
rivelare agli italiani molto sul loro regime e sulla sua condotta. E pare non ci
possa essere persona più qualificata, esperta ed informata dei dettagli di
questo ambiente che Cossiga. Ha ricoperto innumerevoli cariche: Direttore
Generale del Ministero della Difesa, Ministro dell’Interno, Presidente del
Consiglio, Presidente della Repubblica. Le riforme che portò a termine nei
servizi segreti italiani gli hanno guadagnato il soprannome “Spy Master”. Oggi
non ha più un ruolo ufficiale, a parte quello di Senatore a Vita, ma le
telefonate di Ministri ed alti ufficiali della Polizia, che interrompono
continuamente l’intervista, dimostrano che la sua posizione è inalienabile.
Cossiga continua a muovere i fili.
I rapporti complessi con il meccanismo del terrorismo
palestinese, li ha conosciuti per la prima volta alla sua nomina a Ministro
dell’Interno nel 1976. “Già allora mi fecero sapere che gli uomini
dell’OLP tenevano armi nei propri appartamenti ed erano protetti da immunità
diplomatica“, rammenta, “Mi dissero di non preoccuparmi, ma io riuscii
a convincerli a rinunciare all’artiglieria pesante ed accontentarsi di armi
leggere”.
Più tardi, quando era Presidente del Consiglio nel 1979-1980,
gli divenne sempre più evidente il fatto che esistesse un accordo chiaro tra le
parti. “Durante il mio mandato, una pattuglia della polizia aveva fermato un
camion nei pressi di Orte per un consueto controllo”, racconta, “I poliziotti
rimasero sbigottiti nel trovare un missile terra-aria, che aveva raggiunto il
territorio italiano per mare”. Nel giro di alcuni giorni, racconta Cossiga, una
sua fonte personale all’interno del SISMI - lui lo chiama “gola profonda” -
passò al segretario del governo informazioni in base alle quali il missile
andava restituito ai palestinesi. “In un telegramma arrivato da Beirut era
scritto che secondo l’accordo, il missile non era destinato ad un attentato in
Italia, e a me fu chiesto di restituirlo e liberare gli arrestati”.
Cossiga stesso, va sottolineato, non era stato mai
ufficialmente informato dell’esistenza di questo telegramma. Se non fosse stato
per la sua fonte nel SISMI, non sarebbe stato consapevole di tutta questa
storia. “Alle dieci di notte telefonai al capo del SISMI e lo rimproverai, “Mi
stai nascondendo delle informazioni. Perché non mi hai informato del telegramma
indirizzato a me?”. Ma egli, a quanto pare, era partecipe dell’accordo con i
palestinesi”.
Il Presidente del Consiglio cominciò a sospettare che dietro
all’evento di poca importanza si celasse qualcosa di più grande. “Col tempo
cominciai a chiedermi che cosa potesse essere questo accordo di cui si parlava
nel telegramma”, racconta. “Tutti i miei tentativi di indagare presso i Servizi
e presso diplomatici si sono sempre imbattuti in un silenzio tuonante. Fatto sta
che Aldo Moro era un mito nell’ambito dei Servizi Segreti. Sin dalla fondazione
della Repubblica fino ai miei tempi al Quirinale ho conosciuto tre politici che
sapevano utilizzare i Servizi Segreti: il fondatore, io, e Aldo Moro. La gente
gli giurava fedeltà, e continuava anche dopo finito l’incarico”.
Ma le vere prove dell’esistenza de “L’Accordo Moro”, e
soprattutto i suoi raccapriccianti dettagli, si potevano trovare solo nella
realtà. Ventisei anni sono passati dall’attentato al ghetto ebraico di
Roma, ma la ferita è ancora aperta. Era il 9 ottobre 1982. La prima
Guerra del Libano era in corso, e la comunità ebraica era esposta ad un’ondata
di odio senza precedenti. “Sentivamo l’atmosfera”, racconta uno dei vertici
della comunità di quei giorni, “sentivamo che qualcosa di terribile si stava
avvicinando”.
Quel giorno, poco prima di mezzogiorno, un commando
di sei terroristi si scagliò contro la sinagoga, sparando e lanciando bombe a
mano sui fedeli che avevano appena finito la preghiera. Decine di persone furono
ferite. Stefano Tache’, un bambino di due anni, rimase ucciso per mano dei
terroristi.
Dichiarazioni ufficiali di condanna da parte dei politici al
vertice furono subito rilasciate, ma gli ebrei di Roma non ne rimasero convinti.
La sensazione di abbandono era grave: quel mattino, all’improvviso,
sparirono senza spiegazione le due volanti della polizia che durante le feste
ebraiche fornivano protezione all’ingresso della sinagoga. Anche dopo
l’attentato è continuato l’atteggiamento strano. A tutt’oggi non sono stati
pubblicati i nomi dei terroristi. Con il passare degli anni, prende
sempre più piede l’ipotesi che anche attivisti dalla Germania ed elementi delle
Brigate Rosse avessero sposato la causa di assassinare ebrei, ma a Roma non c’è
stato a tutt’oggi un governo che abbia ritenuto necessario portare i colpevoli
in corte.
“Io non avevo un ruolo ufficiale in quell’epoca”, chiarisce
Cossiga, che allora aveva terminato l’incarico di Presidente del Consiglio e
ancora non era stato nominato Presidente del Senato. “Ricordo di essere arrivato
per primo sul luogo dell’attentato. Ho visto la pozza di sangue del bambino di
due anni”.
Solo uno degli attentatori fu catturato, e nemmeno dagli
italiani. Avvenne un mese dopo l’attentato, quando Abd El Osama A-Zumaher fu
arrestato in Grecia con esplosivi nella sua macchina. I greci lo liberarono dopo
sei anni, ed egli scappò in Libia. Le Autorità italiane non ne chiesero
l’estradizione. “Oggi”, ammette Cossiga, “non si può più scoprire tutta la
verità su quanto accaduto lì. L’Italia non chiederà mai la sua estradizione, ed
i libici non lo consegneranno”.
Cossiga sa perfettamente il significato delle cose che sta
rivelando qui, ne conosce la gravità. Né cerca di giustificare coloro che
presero le decisioni. Tuttavia, anche oggi torna a spiegare la logica di questo
pensiero: l’Italia non si immischia in quanto non la concerne. A prova di ciò,
presenta l’altra parte. “L’azione del Mossad contro gli assassini degli atleti
israeliani alle Olimpiadi di Monaco nel 1972 è passata anche per Roma”, dice.
Come noto, Adel Wahid Zuaitar, il simbolo della furbizia dell’organizzazione del
Settembre Nero, fu ucciso a Roma. “Crede che l’Italia non potesse, a suo tempo,
arrestare i due agenti che lo fecero fuori? Un giorno, mentre rientrava in casa,
due giovani lo picchiarono all’ingresso e lo fecero fuori con due pistole munite
di silenziatore. Crede che gli italiani non sapessero chi fossero? È ovvio che
lo sapevano, ma in questioni del genere è meglio non mettere le mani, ed è
questa la linea che guidava il comportamento dell’Italia”.
Lei paragona l’eliminazione di un terrorista all’assassinio
di un bambino di due anni all’uscita della sinagoga?
“No, assolutamente no. Se avessi saputo che le volanti della
polizia erano state istruite ad andarsene quella mattina, nell’ambito di quell’accordo
di cui mi hanno sempre negato l’esistenza, forse tutto sarebbe andato
diversamente”. La colpa, tuttavia, la attribuisce solo ed esclusivamente ad Aldo
Moro.
Tuttavia, basta un ulteriore singolo sguardo sull’Italia
degli ultimi trent’anni per scoprire che l’influenza dell’Accordo Moro non è
finita lì. Nel dicembre 1985, quando Cossiga era già Presidente
della Repubblica, avvenne l’attentato sanguinoso al banco della El Al
all’aeroporto di Fiumicino. Fu un attacco combinato, a Roma e a Vienna, a firma
delle unità di Abu Nidal, in cui morirono 17 persone, di cui 10 in Italia. Le
Autorità di Roma, superfluo anche dirlo, non si sono considerate parte in causa.
Come si concilia l’attentato all’aeroporto con l’accordo di
non colpire obiettivi italiani? “Non furono colpiti obiettivi italiani”, spiega
Cossiga, “fu la compagnia aerea israeliana ad essere attaccata nell’aeroporto”.
Ma il territorio era italiano.
“I morti furono tutti israeliani, ebrei ed americani, non
italiani. Gli scambi di fuoco non hanno incluso i nostri uomini, solo i
palestinesi e gli addetti alla sicurezza di El Al e dello Shabak [servizi di
sicurezza interna israeliani - Ndt].
Cossiga sa perfettamente il significato di ciò. Dal punto di
vista dell’Italia, in fondo, l’attentato non era affatto una cosa che la
riguardava. Fin tanto che non sono stati uccisi italiani non ebrei, tutto bene.
“Non ho mai visto le carte, ma credo di sì. Così funzionavano le cose”, ammette.
Il capo del SISMI a quei tempi, Fulvio Martini, ammette in un libro che
ha scritto che era stato ricevuto un vero e proprio avvertimento dell’attentato.
“Qualcosa non ha funzionato con le forze della sicurezza italiane, che sapevano
a priori dell’attacco”, spiega.
Cossiga tiene a che si sappia che egli non era stato
coinvolto personalmente nell’accordo. “Quando ero Presidente del Consiglio e
Presidente della Repubblica non ne sapevo niente”, insiste fermamente, “me lo
tenevano nascosto. Io soltanto speculavo che un tale accordo esistesse, per via
di quel telegramma da Beirut, ma tutti stavano zitti. Bassem Abu Sharif ha detto
che l’Accordo Moro fu firmato a Roma e a Beirut e che gli italiani erano
rappresentati dal capo dei servizi segreti dell’Italia che era in servizio in
Libano, ma io non ne sapevo niente”.
Tuttavia, Cossiga mostra un certo bisogno, forse
incontrollabile, di difendere quell’Italia che avrebbe firmato l’accordo.Quella
politica, egli spiega, era comune anche in altri Paesi. “La Germania ha liberato
il commando dei terroristi che uccisero gli atleti a Monaco di Baviera, e anche
la Francia si è comportata analogamente. Questa era la politica europea. Tranne
gli inglesi, ovviamente. I palestinesi sapevano quel che facevano. Non ho mai
incontrato un capo di un’organizzazione terroristica che fosse stupido. Arafat
non era stupido.
Cossiga, per inciso, non è solo. Dopo la rivelazione del
Corriere della Sera, il famoso magistrato Rosario Priore - responsabile in
quegli anni dell’indagine di misteri come il rapimento e l’uccisione di Aldo
Moro e l’attentato contro Papa Giovanni Paolo II - ne ha ammesso i dettagli.
“L’Accordo Moro è esistito per anni”, ha dichiarato,
“l’OLP aveva in territorio italiano uomini, basi ed armi. Anche fazioni autonome
come quelle di Abu Abbas, il Consiglio della Rivoluzione e il Fronte di George
Habbash. Era stata una decisione politica fredda, che aveva come scopo
l’immunità della nostra gente e dei nostri interessi in territorio italiano, in
cambio [dell'accettazione] dell’immagazzinamento e del trasporto di esplosivi e
di commandi terroristici che dovevano operare altrove”.
Ebbene sì, anche l’uomo che oggi è membro della Corte di
Cassazione di Roma, non ha incluso gli ebrei della città nella definizione
“immunità della nostra gente”.
L’elenco non termina qui. L’Accordo Moro, si scopre, ha avuto
un’influenza decisiva sulla vita - e sulla morte - di molti.
Anche le circostanze del sequestro della nave italiana
Achille Lauro rivelano un legame tra l’Amministrazione di Roma e le
organizzazioni terroristiche, e anche questa volta - che sorpresa! - gli
obiettivi erano ebraici.
Il 7 ottobre 1985, mentre la nave era in viaggio da
Alessandria d’Egitto a Port Said, l’hanno sequestrata quattro terroristi armati
del Fronte per la Liberazione della Palestina di Ahmad Jibril. I sequestratori,
entrati in azione prima del previsto poiché erano stati smascherati da un membro
dell’equipaggio, hanno minacciato di uccidere ostaggi se non fossero stati
liberati 50 prigionieri palestinesi che erano incarcerati in Israele. Si sono
diretti verso la Siria, ma questa non ne ha permesso l’ingresso nelle sue acque
territoriali.
La vittima di quel sequestro fu Leon Klinghoffer, un
passeggero ebreo americano, paralitico in sedia a rotelle. I sequestratori non
ebbero pietà di lui: gli spararono e poi lo gettarono in mare ancora vivo, con
la sedia a rotelle. La nave ritornò in Egitto, e dopo due giorni di
trattative i sequestratori acconsentirono a lasciarla. Furono trasferiti verso
la Tunisia su un aereo civile egiziano, che fu però intercettato da caccia
americani e costretto ad atterrare nella base NATO in Sicilia.
Questo evento è indelebilmente impresso nella memoria
collettiva italiana. Forze italiane dei carabinieri da una parte, incursori
delta americani dall’altra, in mezzo l’aereo con i sequestratori a bordo, e
tutti che si minacciano a vicenda con le armi cariche, mentre si attende che i
politici trovino una formula per uscire dalla crisi. L’evento è rimasto impresso
nella coscienza italiana come un simbolo dell’indipendenza dell’Italia e
dell’immobilità dell’allora Presidente del Consiglio, Bettino Craxi, di fronte
agli americani.
Solo che ora Cossiga rivela che il motivo della
fermezza di Craxi era ben altro. Spiega che Craxi ha scelto di riservare ad
Arafat un atteggiamento ruffiano. “C’era stato un accordo chiaro tra l’Italia e
Arafat, secondo cui la nave sarebbe stata liberata dal commando terroristico in
cambio della libertà di Abu Abbas, e così fu”, svela.
I sequestratori furono arrestati dalle forze della polizia
italiana ed all’aereo fu permesso di continuare il viaggio malgrado la richiesta
americana di fermarlo - poiché tra i passeggeri liberi c’era anche l’uomo che
era alla guida dei sequestratori, Abu Abbas. I quattro sequestratori furono
processati in Italia e trovati colpevoli. Abu Abbas, invece, fu liberato.
La spiegazione ufficiale di Craxi e del governo italiano fu
che le asserzioni degli americani sul coinvolgimento diretto di Abu Abbas nel
sequestro erano arrivate troppo tardi, solo dopo il suo decollo dall’Italia in
direzione della Jugoslavia. Cossiga, comunque, chiarisce che non fu proprio
così. “Non è assolutamente andata così”, dice, “tutto era parte dell’accordo con
Arafat. Fu lui a convincere Abu Abbas, malgrado non facesse parte dell’OLP, di
liberare la nave al Cairo, in cambio della sua libertà e di una promessa di
incolumità. La posizione italiana, secondo cui questo lo si venne a sapere solo
dopo la sua liberazione, è una frottola. Lo abbiamo liberato dopo”.
C’è chi asserisce che egli sia rimasto a Roma alcune ore ed
abbia persino incontrato alcune personalità.
“Io non ne so niente. Ero Presidente della Repubblica e a me
dissero che era rimasto tutto il tempo all’interno dell’aeroporto. Le ricordo
che tutta l’area era circondata da agenti della CIA”.
Questo episodio, va sottolineato, è lungi dallo sparire dalla
coscienza pubblica italiana. Proprio in questi giorni, la corte a Roma sta per
discutere la domanda di uno dei sequestratori, Abdel Atif Ibrahim, liberato dopo
vent’anni in carcere, di rimanere in Italia. “Gli permetteranno di rimanere qui,
non c’è dubbio”, afferma Cossiga, “ma la decisione, in definitiva, sarà
politica, ed il Ministro dell’Interno dovrà decidere”.
Se Lei fosse oggi Ministro dell’Interno e dipendesse da Lei,
gli permetterebbe di restare?
“Io lo metterei su un velivolo militare diretto in Libano,
atterrerei lì con la scusa di portare un diplomatico, spegnerei i motori,
aprirei la porta, lo butterei sulla pista e decollerei di ritorno”.
Nonostante oggi Cossiga tenga molto a presentarsi come un
fermo oppositore del terrorismo palestinese, c’è ancora chi non dimentica la sua
posizione favorevole ad Arafat quando contro questi era stato emesso un mandato
di cattura in Italia. Anche da questa faccenda, le Autorità e i meccanismi della
legalità in Italia non escono - come dire - brillantemente. “Arafat”, spiega
Cossiga, “era arrivato in Italia per il funerale del leader della sinistra
italiana, Segretario Generale del Partito Comunista, Enrico Berlinguer, che era
mio cugino. Fino ad oggi c’è molta gente che non crede
affatto che fossimo imparentati. All’arrivo di Arafat qui, lo attendeva un
mandato di cattura del tutto folle emesso da un giudice italiano.
“A me chiesero di riceverlo a Palazzo Giustiniani, in qualità
di Presidente del Senato, e permettergli di riposarsi. Stiamo parlando, Le
ricordo, del 1984. Arafat partecipò al funerale e a tutta la cerimonia, alla
quale era presente anche il Vice Segretario Generale del Partito Comunista di
Mosca. Venne da me accompagnato dai Servizi Segreti italiani e dalle sue guardie
del corpo.
Contemporaneamente, una forza di polizia era partita alla sua
ricerca per ordine di un giudice. Lei crede [veramente] che non sapessero dove
si trovasse?”
Comunque sia, oggi Francesco Cossiga si identifica
orgogliosamente come amico prossimo dello Stato di Israele ed entusiasta
sostenitore degli Stati Uniti. Questo, forse, è il motivo per cui si permette
ora di dire cose del tutto in ortodosse riguardo alla condotta degli scaglioni
che contano.
E se a qualcuno potesse sembrare che quei giorni bui siano
spariti, il quadro che dipinge Cossiga è allarmante: l’Italia, egli crede, attua
oggi un accordo analogo con Hizbullah. Le forze di UNIFIL sarebbero invitate a
circolare liberamente nel sud del Libano, senza temere per la propria
incolumità, in cambio di un occhio chiuso e della possibilità di riarmarsi data
a Hizbullah. “L’Accordo Moro non mi fu mai esposto in maniera chiara, ne ho solo
ipotizzato l’esistenza. Nel caso di Hizbullah posso affermare con certezza che
esiste un accordo tra le parti”, dice Cossiga con certezza, “Se verranno ad
interrogarmi, deporrò davanti ai giudici che trattasi di segreti dello Stato, e
io non sono tenuto a rivelare le mie fonti”.
Cossiga ha dichiarato che intende sottoporre
un’interrogazione al Governo riguardo all’esistenza di un tale accordo segreto,
atto a proteggere il contingente italiano in Libano. Come noto, durante gli Anni
Ottanta, le forze americane e francesi in Libano hanno subito gravi perdite,
mentre nessun attentato è stato compiuto contro la forza italiana.
Il giudice Priore - di nuovo lui - ha osato addirittura
portare le ipotesi di Cossiga un passo in avanti. “È possibile”, ha dichiarato
ad un’agenzia stampa italiana, “che esista oggi persino un accordo tra l’Italia
e Al Qaida od un’altra organizzazione fondamentalista”.
La maggior parte degli italiani sono rimasti, come ho detto
prima, sorprendentemente indifferenti di fronte alla rivelazione. Ma
prevedibilmente, la comunità ebraica ne è rimasta scossa. Reagendo alle nuove
rivelazioni esposte su queste pagine, il Presidente della Comunità ebraica di
Roma, Riccardo Pacifici, fa appello al Presidente del Consiglio Silvio
Berlusconi di aprire un’indagine approfondita.
“È ovvio che non possiamo andare indietro nel tempo, e non si
può cancellare questa vergognosa storia dell’Italia”, ha detto a Yediot Aharonot,
“ma bisogna esporre gli irresponsabili che hanno offerto gli ebrei d’Italia in
sacrificio, trattandoli come stranieri, come immigrati di passaggio. Più di ogni
altra cosa, esigiamo risolutamente la piena sicurezza per gli ebrei d’Italia e
per le loro istituzioni”.
È molto dubbio se Berlusconi darà ascolto ed inizierà
l’intensa indagine che esige la comunità ebraica. È vero che il Presidente del
Consiglio italiano ha modificato l’atteggiamento del suo Paese nei confronti di
Israele, ma si possono ancora riconoscere incrinature nella comprensione che gli
ebrei d’Italia sono parte radicale della vita italiana. Più di una volta,
rivolgendosi agli ebrei, egli ha detto “il vostro governo” - intendendo il
Governo dello Stato d’Israele, e non quello italiano. La buona volontà forse
c’è, ma la strada è ancora lunga per assicurare che la storia non si ripeta.
Traduzione dell'intervista rilasciata al quotidiano Yediot
Aharonot (5 ottobre 2008, InformazioneCorretta.it)
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