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La Commissione bicamerale: «Mandato per approfondire le piste di ‘ndrangheta e camorra»
29/04/2015 - Il Sole24ore - Roberto Galullo  
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La Commissione bicamerale: «Mandato per approfondire le piste di ‘ndrangheta e camorra»

Il 24 marzo il presidente della Commissione bicamerale d’inchiesta sulla morte di Aldo Moro, Giuseppe Fioroni (Pd), nel trovarsi di fronte il capo della Procura di Tivoli, Luigi De Ficchy (che aveva istruito il processo Moro quinquies), è chiaro nel presentare l’audizione: l’area di interesse è il ruolo (eventuale) avuto da personaggi di matrice ’ndranghetista durante i giorni del sequestro di Moro e il flusso di informazioni proveniente da questi ambienti verso Benito Cazora, ex deputato della Democrazia Cristiana.

Agli atti della Commissione stragi è conservato un appunto attribuito a Cazora relativo a un appuntamento del 9 maggio 1978, giorno dell’uccisione di Aldo Moro, tra quest’ultimo e funzionari di polizia. Secondo altre fonti documentali, ricorda sempre Fioroni, Cazora avrebbe avuto contatti anche con il questore di Roma Emanuele De Francesco (deceduto nel 2011) e con Domenico Spinella ex prefetto in servizio al Viminale, ex capo della Digos.

La Commissione voleva dunque acquisire le informazioni che De Ficchy ebbe modo di assumere su tali circostanze, considerato anche che le Commissioni parlamentari non hanno mai ascoltato Benito Cazora (e non potranno più farlo essendo deceduto nel 1999).

IL “PENTITO” DI DESTRA

De Ficchy comincia con il ricordare che un «pentito di destra» (che per la cronaca si chiama Vincenzo Vinciguerra ma che non si sarebbe mai del tutto pentito, come raccontano fonti diverse) fece delle dichiarazioni de relato sulla conoscenza che aveva fatto in carcere con Rocco Varone, il quale gli raccontò in carcere che si era incontrato con Benito Cazora, che gli aveva chiesto di attivarsi per trovare la prigione dov’era ristretto Aldo Moro, pochi giorni dopo il sequestro, per la precisione il 16 marzo. Il 10 aprile 1997 Cazora, a Perugia, dinanzi alla Corte di assise dove si svolgeva il processo a carico dei presunti autori dell’omicidio di Mino Pecorelli, riferendosi all’intervento della ’ndrangheta calabrese nelle ricerche della prigione brigatista dov’era rinchiuso Aldo Moro nella primavera del 1978, affermò: «…tramite l’interessamento del segretario di Aldo Moro, Sereno Freato, riuscimmo a far trasferire dal carcere dell’Asinara a quello di Rebibbia un parente di Rocco (scoprimmo che era una persona che faceva di cognome Varone ed era il fratello di Rocco)…. Mi portarono sulla Cassia, all’altezza dell’incrocio con via Gradoli, e mi dissero: “Questa è la zona calda”. Riportai l’informazione al questore di Roma, il quale però mi telefonò riferendomi di aver fatto controllare “porta a porta” via Gradoli senza trovare traccia del covo delle Br».

I FRATELLI VARONE

Il fratello di Rocco Varone era Salvatore Varone che aveva incontrato più volte personaggi politici affermando: «…posso dare informazioni sul covo dove nascondono Aldo Moro perché i calabresi a Roma sono 400.000 e possono controllare il territorio».

Cazora venne interrogato da De Ficchy, perché Varone era morto e dunque in mano alla magistratura restavano le dichiarazioni generiche del pentito di destra su queste confidenze fatte in carcere da Varone, il quale si era presentato a Cazora, secondo quello che lui dichiarò poi, come “Rocco il calabrese”. Cazora aveva ricevuto una telefonata anonima da un calabrese residente a Roma, che lo aveva invitato a un incontro al fine di incontrare una persona che poteva fornire un contributo per il ritrovamento della prigione di Aldo Moro. A proposito di quella «zona calda» sulla Cassia, con la quale Varone avrebbe fatto intendere che in quella zona c’era probabilmente la prigione di Moro, De Ficchy dice ai commissari che via Gradoli (presunta prigione dello statista Dc) è proprio sulla Cassia, ma resta il punto interrogativo sull’effettiva sosta di Moro in via Gradoli. «A noi risulta solamente in via Montalcini – afferma infatti De Ficchy in Commissione – e non ci risulta chiaramente da altre parti». Cazora racconta di questi incontri, di cui riferisce al questore di Roma De Francesco, per cui queste notizie transitano alla questura di Roma, tanto che anche nell’immediatezza dell’uccisione di Moro girano per Roma e viene dunque attribuita, parola di De Ficchy, una certa credibilità a questa situazione.

LA BANDA DELLA MAGLIANA E qual era il canale attraverso il quale si arrivava a dare una certa credibilità? Sempre la Banda della Magliana, secondo il procuratore di Tivoli. «Ho fatto tutti i processi che hanno riguardato la Magliana – dirà infatti De Ficchy in audizione – e sono convinto tutt’oggi che la Magliana controllasse alcuni quartieri di Roma militarmente. Se la prigione di Moro è stata sempre in via Montalcini, la Magliana non poteva non sapere che Moro fosse lì ristretto. È possibile, quindi, che questa informazione sia passata anche ad ambienti calabresi vicini alla Magliana che, ovviamente, avevano interesse ad avere dei vantaggi dall’aiuto che avrebbero fornito alle Istituzioni». Il (presunto) pentito di destra racconta che Varone avrebbe chiesto a Cazora di poter essere più libero rispetto al soggiorno obbligato al quale era ristretto. Cazora non avrebbe fatto promesse ma ci sarebbe stata una continuazione di questa collaborazione, anche se poi non ha portato a niente di definito e di preciso.

I riscontri di quest’attività di Cazora vennero, in seguito, da una telefonata che era stata intercettata nel 1978, in cui Cazora parla con Sereno Freato, segretario di Moro.

A proposito della telefonata intercettata, Fioroni chiede se si facesse riferimento alla presenza anche di un calabrese e De Ficchy risponde così: «Questo è un altro grosso punto interrogativo. Io non so, francamente, quanto si possa dare credito alla presenza di Antonio Nirta (detto “due nasi”, per investigatori e inquirenti uomo di ‘ndrangheta, ndr) proprio a via Fani. Francamente, io ho sempre creduto a una certa ottica. Queste presenze raccontate, ma poco riscontrate, francamente mi hanno sempre lasciato un po’ indifferente. E’ difficile pensare a uno ’ndranghetista che si unisce alle Brigate Rosse. Io non la vedevo così bene, almeno all’epoca, per quanto poi le indagini abbiano talmente tanti aspetti, che effettivamente tutto può essere successo. Io sto sempre alle questioni su cui trovo riscontro, altrimenti è molto difficile, in un ambito di confidenti, collaboratori e pentiti, se non si trovano i riscontri… Sono parole al vento che, secondo me, hanno sempre bisogno, almeno da parte di un magistrato, che non fa né politica, né storia, di essere riscontrate. Occorre andare avanti su quello che viene riscontrato». Gli stessi concetti usati il 16 febbraio, sempre in audizione, dal Procuratore generale facente funzioni presso la Corte di appello di Roma, Antonio Marini e il 24 febbraio da Franco Ionta, procuratore della Repubblica presso il tribunale di Roma e già titolare dell’inchiesta su Gladio (si vedano link a fondo pagina).

DUBBI DA CHIARIRE

Di seguito De Ficchy non ricorda due circostanze fatte presenti da Fioroni: 1) che Cazora avesse dubbi che fossero state individuate tutte le utenze telefoniche da cui le Br chiamavano e 2) dell’incontro a Ponte Flaminio del 9 maggio 1978 tra Cazora e alcuni esponenti delle forze dell’ordine.

«Le dico questo perché, leggendo le carte – afferma Fioroni – appare che Cazora sostiene di aver avuto contatti con De Francesco in maniera quasi sporadica in relazione al 9 maggio, mentre Spinella fa un riferimento preciso, con un appunto del 1978, a incontri sistematici con il questore. Cazora era un altro di coloro che telefonarono alla parrocchia di Moro. Parlando con il parroco, gli parlò di un malavitoso calabrese, Rocco Scriva». Ma De Ficchy è fermo sul punto: «A me non disse niente su questo, presidente. Non lo posso escludere, ma non mi pare proprio che parlammo di questo. Io ero molto focalizzato su questa collaborazione di Rocco Varone e sulle attività che erano state fatte in proposito».

Alla fine dell’audizione, comunque, Fioroni sarà molto risoluto: «Credo che possiamo decidere, senza andare in Ufficio di Presidenza, di dare delega al dottor Donadio (Gianfranco Donadio, il pm consulente, ex procuratore della Direzione nazionale antimafia, ndr) di seguire anche, oltre alla vicenda di Nirta e di tutti gli altri elementi della ’ndrangheta, anche le piste, che a me colpiscono molto, di Selis e della banda della Magliana, di Cutolo e della mafia, in relazione a quanto ci ha riferito il dottor De Ficchy circa la mancata reperibilità di coloro che erano interessati per la ricerca di Moro».

La pista camorrista (e di Cosa nostra) la analizzerò meglio nell’articolo di domani al quale do appuntamento.

Roberto Galullo (29 aprile 2014, Il Sole24ore)

 

       

 

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