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 Riesplode il mistero sulla ‘ndrangheta in via Fani: Donadio 
in missione in CalabriaI racconti dei pm Marini e Ionta
 Torno a parlarvi del sequestro di Aldo Moro (trovato ucciso il 9 maggio 1978 
dopo 55 giorni di prigionia, nel portabagagli di un’auto, in pieno centro 
storico a Roma) in relazione alla presenza di soggetti “terzi” .  L’ho già fatto tante volte in questi anni e, nel recente passato, nell’agosto 
2013 e nel novembre 2014 (per avere un quadro quanto più ampio possibile, 
rimando in fondo all’articolo, dove potrete leggere i link che vi rimanderanno 
alle precedenti e indispensabili puntate).  Nel corso di questa legislatura c’è una Commissione bicamerale d’inchiesta 
(presidente Giuseppe Fioroni) che si prefigge di scavare, a distanza di una vita 
da quel 16 marzo 1978 nel quale lo statista venne rapito in Via Fani a Roma 
(sotto casa) e i suoi cinque uomini di scorta trucidati, nei misteri (se ci 
sono) dei quel rapimento.  Debbo essere sincero: più leggo gli atti della Commissione e più mi convinco 
che di misteri ce ne sono e ce ne saranno (di irrisolti) a lungo.  Prendete (ed è il motivo per il quale oggi torno a scriverne) le audizioni in 
Commissione, il 16 febbraio, del Procuratore generale facente funzioni presso la 
Corte di appello di Roma, Antonio Marini e della successiva audizione, il 24, 
del pm Franco Ionta.  Marini si è occupato per lungo tempo delle inchieste relative al sequestro e 
all’uccisione di Aldo Moro, essendo stato pubblico ministero nei processi 
Moro-ter, riguardante le azioni delle Brigate Rosse a Roma tra il 1977 e il 
1982, Moro-quater che riguarda alcuni aspetti del caso Moro non risolti da 
processi precedenti e alcuni episodi stralciati dal Moro-ter, e Moro-quinquies, 
che si è concluso con la condanna di Germano Maccari e Raimondo Etro.  Marini, molto onestamente e correttamente, vuole raccontare solo le cose di 
cui sa e che conosce direttamente. E tra le cose che racconta e sa, si aggancia 
indirettamente a quello che, a lungo, è stato ipotizzato sulla presenza della 
‘ndrangheta nel giorno del rapimento o comunque con un ruolo di primissimo 
piano.  Il primo a parlarne con il pm di Milano, Alberto Nobili, che per questo andò 
a trovarlo nel carcere di Bergamo, fu il pentito Saverio Morabito che riferì (de 
relato) della presenza o nel corso del rapimento o comunque come parte attiva di 
Antonio Nirta “due nasi”, vista la sua passione per la doppietta 
(http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2013/08/08/commissione-dinchiesta-sul-caso-moro2-il-boss-saverio-morabito-vuoto-il-sacco-con-pm-e-giudici-sul-ruolo-della-ndrang/).
 Il racconto del magistrato Marini parte proprio dalla voce, all’epoca diffusa 
e rivivificata nel corso dei vari processi, della presenza di elementi “spuri” 
rispetto alle Brigate Rosse (che rapirono e uccisero lo statista della Dc, 
fautore del compromesso storico con il Partito comunista italiano) e spiega il 
tentativo che operò di “stanare” gli uomini e le donne dure e pure delle Br 
sugli eventuali soggetti terzi.  Ecco il racconto che parte da pagina 14 del resoconto verbale della sua 
audizione: «…io ho approfittato del fatto che in quel momento si stesse parlando 
della presenza addirittura di un uomo della ’ndrangheta, un certo Antonio Nirta, 
in via Fani. Ci era giunta da Milano la dichiarazione di un certo Morabito, il 
quale aveva detto che in via Fani c’era un uomo della ’ndrangheta che aveva 
partecipato insieme con i brigatisti all’agguato. Naturalmente, è stata una 
notizia che ha fatto scalpore, anche all’interno della compagine brigatista, 
soprattutto all’interno di coloro che stavano in carcere. Io sono andato in 
tutte le carceri, tra cui Opera, e sono andato tre volte da Moretti, il quale mi 
ha sbeffeggiato, naturalmente. Ha detto che io ero un provocatore e mi ha 
chiesto come mi permettessi di andare a dire che avevano fatto l’operazione Moro 
insieme a uno della ’ndrangheta, a un certo Antonio Nirta. Sono andato a sentire 
la Balzerani e tutti coloro che avevano partecipato all’agguato di via Fani, 
eccetto naturalmente Casimirri, che ormai si era rifugiato all’estero ed eccetto 
Lojacono, che non ha mai voluto parlare e che stava in Svizzera. Li ho provocati 
e ho detto: “Voi dite così, ma perché non lo venite a dire in aula ? Perché non 
lo venite a dire davanti a una Corte d’assise composta da giudici popolari, che 
emettono le sentenze in nome del popolo italiano ? Perché non venite a dire che 
voi avete agito da soli, che tra voi non c’erano infiltrazioni, che voi siete 
“illibati” come dite ?” Ho detto questo alla Balzerani, alla Braghetti, allo 
stesso Moretti, a Bonisoli. Purtroppo, non abbiamo avuto l’adesione di tutti a 
questo mio “richiamo”, però abbiamo avuto quella di due persone importantissime, 
la Balzerani e la Braghetti. La Balzerani, per la prima volta, nel processo del 
Moro-quater è venuta in un’aula di giustizia e ha raccontato anche la dinamica 
dell’agguato di via Fani».  All’amo, insomma, “abboccano” due regine della strategia del terrore di 
quegli anni ma non abbocca Mario Moretti, vale a dire il “cervello” di 
quell’organizzazione terroristica, colui il quale pianificò il rapimento e la 
sua fine cruenta, colui il quale interrogò lo statista e lo uccise. Colui il 
quale, nell’87 ammise il fallimento della lotta armata ma mai e si sottolinea 
mai (ufficialmente) ha collaborato con lo Stato che, in cambio del suo silenzio, 
a fronte dei sei ergastoli, dal 1997 gli permette di vivere in regime di 
semilibertà (rientra in carcere la sera). Moretti, infatti, «sbeffeggia» per ben 
tre volte l’allora sostituto pm Marini. Ma cos’altro avrebbe potuto fare un duro 
e puro che ha sempre rifiutato (ufficialmente) il benché minimo rapporto con lo 
Stato, se non negare? Una negazione che in un’aula di un Tribunale non è mai 
giunta a sua voce. Il «richiamo», come definisce lo stesso Marini il tentativo 
di pungere nel vivo e colpire nell’orgoglio un brigatista del calibro di 
Moretti, non ha funzionato.  La tecnica della provocazione, il tentativo di saperne di più, di capire che 
tutto quel che c’è da capire, di avere delle confessioni anche inconfessabili su 
chi come e perché avesse ordito quella trama (solo?) terroristica, viene tentata 
da Marini anche con Germano Maccari, che non ammetterà mai di aver partecipato 
all’uccisione di Moro (è deceduto il 25 agosto 2001 nel carcere di Rebibbia dove 
stava scontando una pena di 26 anni).  Ecco come prosegue il racconto in audizione di Marini: «Io poi con Maccari 
dicevo: “Io l’ho scoperto il nome, ma adesso dammi la conferma, almeno. Io non 
te l’ho chiesto, l’ho scoperto. Dammi la conferma”. “Perché?” “Perché ci stanno 
attaccando da tutte le parti. Oltretutto, stanno dicendo che voi avevate degli 
infiltrati. Stanno dicendo che in via Fani c’era uno della ’ndrangheta e che in 
via Montalcini c’era un altro dei servizi segreti. Se voi non dite la verità, 
allora dovete accettare anche queste cose”. Questo li ha spinti, soprattutto le 
donne, la Balzerani, la Braghetti e la Faranda, più che gli uomini. Io mi 
ricordo la Balzerani. Era una vipera. La spinta fu più l’orgoglio ferito che la 
pena scontata. Qui abbiamo giocato sulla presunta presenza di Nirta. Che 
significa che ci abbiamo “giocato”, usiamo fra virgolette questa parola ? La 
presenza di Nirta sarebbe stato un fatto gravissimo. Se si fosse accertato 
quello che aveva detto Morabito al nostro collega Nobili a Milano, sarebbe 
stato… Noi, però, non l’abbiamo accertato. Abbiamo indagato, abbiamo forse 
approfittato di questa situazione per costringere i brigatisti a fare un passo 
avanti e a dire qualcosa in più di quello che avevano detto, ma non l’abbiamo 
mai accertato».  Alt: fermiamoci un attimo. Marini correttamente dice che le indagini sono 
state fatte ma pare di capire che nell’accertamento il peso maggiore le abbiano 
avuto le confessioni di due donne mentre Moretti e poi, vedremo, Morucci zitti e 
muti o quantomeno, il secondo, dalla favella inafferrabile. Ma chi è Morucci?
 Valerio Morucci, anch’egli attore del rapimento, nell’85, nel corso di un 
processo si dissocia dalla lotta armata e dal ’94 vive a Roma.  Ebbene Morucci parla di ‘ndrangheta, Morabito, Nirta & C? Chi riesce a 
scoprirlo è un mago. Giudicate voi dalle parole di Marini.    «Allo stesso modo, noi non abbiamo mai accertato che a bordo della moto 
Honda ci fossero due della ’ndrangheta o due dei servizi segreti – prosegue 
nell’audizione Marini al quale va riconosciuta una trasparenza e una coerenza di 
rango, da vero Servitore dello Stato –. Noi ritenevamo, in base a quello che era 
emerso negli anni – che ci faceva vedere come i brigatisti, cominciando da 
Morucci e Faranda e dagli altri, volessero salvare i loro compagni – che molto 
probabilmente a bordo di quella moto Honda ci fossero due loro compagni di cui 
non volevano fare i nomi. Questa è stata una diatriba veramente illimitata, 
perché dicevano: “Ma scusa, se io ti dico che c’erano due di noi e poi non ti 
faccio i nomi, non è la stessa cosa”. Così diceva Morucci. “No, non è la stessa 
cosa, perché tu non me l’hai detto, per esempio, che c’era uno di voi a fare il 
quarto uomo di via Montalcini. Perché non me l’hai detto ? Perché adesso devo 
credere che la moto Honda non c’è ? Allora dovevo credere che il quarto uomo di 
via Montalcini non c’era. Perché hai scritto al Presidente Cossiga che eravate 
in sette e non gli hai scritto che eravate in nove? Perché gli hai taciuto nel 
tuo memoriale – non in una dichiarazione di tensione durante un interrogatorio, 
ma proprio a tavolino – e gli hai escluso che ci fossero Casimirri e Lojacono? E 
adesso vuoi convincere me che i due a bordo della moto Honda non ci sono, dopo 
che c’è una sentenza passata in giudicato che afferma non soltanto che il fatto 
esiste?”. Mi riferivo alla presenza della moto Honda e anche al tentato omicidio 
nei confronti di Marini. I brigatisti, forse voi già lo sapete, sono stati 
condannati, oltre che per la strage di via Fani, anche per il tentato omicidio 
nei confronti di Alessandro Marini. Questa è stata una sentenza passata in 
giudicato. Io dicevo: “Il fatto è stato accertato. Noi, come pubblici ministeri, 
dobbiamo soltanto individuare chi c’era, gli autori del fatto, in questo caso 
chi c’era a bordo della moto Honda. Non puoi dire, quindi, che la moto Honda non 
c’è o che non fa parte della dinamica operativa delle Brigate Rosse, quando io 
ho tre testimoni che l’hanno vista e soprattutto ho un testimone”. Tanto per 
parlare, Morucci diceva: “Forse saranno passati i soliti due”. Poi arriviamo a 
Peppo e Peppa e a come è venuto fuori il discorso. “Saranno passati, ma non 
facevano parte certamente dell’organigramma dell’operazione”. E io rispondevo: 
“No, perché c’è un medico che la mattina passa in via Stresa e sta andando in 
ospedale, che vede due vestiti con la divisa di avieri vicino al bar, con 
accanto una moto Honda con a cavallo una persona”. La moto Honda, quindi, non 
interviene dopo, ad aiutare. Ecco perché è importante se si accerta, 
naturalmente, che ci fossero persone degli apparati dello Stato a bordo di 
quella moto, perché allora stava lì per fare l’attentato, non soltanto per 
coprire, o nel caso in cui si fossero verificate degli imprevisti. È lì la moto 
Honda. Questo è un fatto fondamentale, che è stato accertato. Non abbiamo alcuna 
remora nel negare che questo medico si sia sbagliato, tant’è vero che lui è 
ritornato a dire sempre… Morucci ha ricostruito. È incredibile. Se volete sapere 
come Morucci si è comportato, leggete il processo Moro-ter, come vengono svolti 
i suoi interrogatori e come risponde alle domande, come lui riesce a dare la 
risposta affermativa anche se apparentemente è negativa, con una tecnica tutta 
particolare. Morucci ha detto: “Chi erano?” perché noi ci stavamo avvicinando a 
due irregolari, come Casimirri e Lojacono. Morucci dice: “Questo medico ha 
visto; ma erano due soltanto”. “Sì, due soltanto”. “Io non ero sicuramente fra i 
due”. “Perché ?” “Perché io ero andato quel giorno a vedere il furgone e se la 
cassa stava a posto, perché la cassa l’aveva fatta Maccari”».  Un rompicapo sapere o capire ella raffinatissima tecnica di Morucci quel che 
sa, quel che non sa, quel che dice e perché lo dice. Un compito, capitolo, certo 
da magistrato e da investigatore ma, senza dubbio alcuno, anche da membro della 
Commissione parlamentare. Scopriremo se la Commissione incalzerà sui questo 
punto .  L’AUDIZIONE DI FRANCO IONTA  Intanto, già il 24 febbraio, con l’audizione di Franco Ionta, procuratore 
della Repubblica presso il tribunale di Roma, la Commissione ha cominciato a 
spingere l’acceleratore.  Ionta dirà: «…La mia sensazione, che partecipo alla Commissione, deriva dalla 
sedimentazione di tutto questo lavoro pluridecennale che ho fatto al riguardo 
sulle metodiche di funzionamento delle Brigate Rosse, su come facevano le 
inchieste e su come facevano gli attentati. Io ho maturato la convinzione che 
una presenza spuria rispetto a chi aveva organizzato l’agguato di via Fani sia 
proprio incompatibile con lo schema di funzionamento delle Brigate Rosse. La 
Commissione sicuramente – ce n’è traccia nelle vostre segnalazioni – ha avuto 
modo di incrociare anche la questione di Nirta, detto «Due Nasi», con 
riferimento ai due nasi della doppietta, perché utilizzava la doppietta, del 
colonnello Guglielmi che doveva andare a colazione da un tale che abitava da 
quelle parti e di altre presenze che ogni tanto aleggiavano su questa vicenda. 
Io dico questo: se c’è un riscontro nuovo, un’acquisizione nuova, ben venga, 
perché naturalmente tutto è perfettibile e quello che si è fatto nel corso degli 
anni può essere sempre migliorato sulla base di acquisizioni nuove. Pertanto, se 
la Commissione, sulla base anche dei rilievi che ho visto che sta svolgendo con 
nuove metodiche, può portare a delle conclusioni migliori, ben vengano. Quello 
che io posso dire è che, conoscendo il funzionamento dell’organizzazione Brigate 
Rosse, faccio un’enorme fatica, e dunque lo escluderei, a pensare che ci possa 
essere un estraneo presente sui luoghi dell’agguato di via Fani».  Ma il presidente Fioroni incalza: «Quindi per lei, è difficile pensare a un 
estraneo sui luoghi di via Fani, facendo riferimento ai due di Primavalle, Peppo 
e Peppa, al colonnello Guglielmi e Nirta. Magari su questo ci ritorniamo sopra. 
Per ciò che riguarda Nirta, esprimo un’opinione personale. Vorrei capire la 
motivazione per cui un collaboratore di giustizia che ha fatto arrestare tanti 
con le sue dichiarazioni ed è stato ritenuto attendibile dal dottor Nobile a 
Milano diviene inattendibile quando fa riferimento al coinvolgimento di Nirta 
nel caso Moro.   Perché dovrebbe dire una cosa che non c’entra niente su 
qualcosa che è avvenuto tanti anni prima? Questo mi sembra strano».  Ionta risponde così: «Comprendo l’obiezione. Io faccio questo tipo di 
osservazione: le Brigate Rosse, che credo di conoscere abbastanza bene, si 
muovono in un dato modo, assegnando un ruolo e una posizione, un tipo di 
armamento e una funzione specifica a tutte le persone che, ovviamente, tra loro 
devono essere assolutamente conosciute. La conseguenza logica di questo, secondo 
il funzionamento che io conosco delle Brigate Rosse, è che, alla presenza di un 
estraneo, ci sarebbe stata l’eliminazione dell’estraneo. Non è pensabile che 
potesse partecipare a un’operazione del genere, che era la più grossa operazione 
che le Brigate Rosse facevano dall’inizio della loro storia, una persona che non 
avesse un percorso politico, che non fosse un brigatista consolidato, che non 
fosse un brigatista accreditato dal vertice dell’organizzazione, talmente 
accreditato da partecipare… »  ARRIVA DONADIO.  La sensazione è che nei prossimi mesi il tasto sulla presenza eventuale di 
forze ed elementi terzi e spuri in Via Fani tornerà d’attualità. Il presidente 
della Commissione Fioroni ha infatti annunciato, il 18 febbraio, che il 2 
febbraio è pervenuta dal Consiglio superiore della magistratura l’autorizzazione 
alla collaborazione a tempo pieno con la Commissione del dottor Gianfranco 
Donadio, fino a pochi mesi fa nella Direzione nazionale antimafia. Il 3 febbraio 
il magistrato ha prestato giuramento e ha, quindi, formalmente assunto 
l’incarico.  Il 4 febbraio Donadio ha presentato una prima relazione concernente possibili 
adempimenti istruttori riguardanti la strage di via Fani (verosimilmente anche 
per questo il 22 febbraio la polizia scientifica ha effettuato nuovi rilievi con 
tecniche all’epoca impensabili in Via Fani, con l’auspicio di trovare novità 
rilevanti, espresso dal vicepresidente della Commissione Gero Grassi) e 
l’Ufficio di presidenza, integrato dai rappresentanti dei gruppi, nella riunione 
del 18 febbraio ha incaricato Donadio di effettuare due missioni, 
rispettivamente, a Trieste e a Reggio Calabria, per svolgere attività 
ricognitiva di documentazione e di risultanze di indagini. Roberto Galullo (4 marzo 2015, Il Sole24ore) 
       
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