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Brigate rosse, Fenzi “si confessa” nella chiesa di San Torpete
30/01/2014 - Secolo XIX - Bruno Viani  
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Brigate rosse, Fenzi “si confessa” nella chiesa di San Torpete

 

Genova - L’ex professore delle Br parla ai piedi di un altare, invitato da un parroco. «In Chiesa si può anche bestemmiare, è un luogo libero», dice don Paolo Farinella, parroco di San Torpete, una piccola chiesa nel cuore dei vicoli. E Enrico Fenzi, 76 anni («Sette scontati in galera, più tre agli arresti domiciliari») seduto accanto al prete parla liberamente. Di sé, di don Gallo che a suo dire faceva “santini” dei terroristi irriducibili «e per tre volte la sua Comunità mi ha impedito di parlare in pubblico», dice sollevando proteste. Del clima degli anni vissuti insieme alla colonna genovese delle Brigate rosse. Racconta verità inedite e senza prove: quella volta che, sostiene, un giudice gli disse che Alì Agca lo accusava di avergli fornito la pistola per sparare a papa Giovanni Paolo e i documenti falsi per fuggire. «Il lavoro dei servizi segreti è questo - scandisce - creare false piste. Più d’una, in modo da poter utilizzare al momento giusto quella più adatta. Se si fosse deciso di portare avanti la pista dell’Est, il mio coinvolgimento sarebbe stato utile, una costruzione perfettamente logica. Ma si cambiò strada».

Parla, soprattutto, della sua dissociazione che non è diventata “pentitismo” per i giudici. «perché ho scelto di raccontare ciò che gli inquirenti sapevano già e non ho invece confermato cose che avrebbero voluto che dicessi. Mi sono sinceramente dissociato, pentito da un punto di vista morale. Ma sono stato anche un ombrello, la pattumiera che doveva coprire lo sporco. Una piccola pedina mossa chissà da dove e da chi». Eccola, la verità parziale di uno dei protagonisti degli anni piombo che parla per la prima volta, apertamente, dopo una dichiarazione pubblica estemporanea a Palazzo Tursi in occasione della presentazione del libro che Andrea Casazza ha dedicato alla colonna genovese, “Gli imprendibili”.

La figura che Fenzi vuole raccontare a chi l’ascolta, mentre parla col tono dimesso di un vecchio studioso, è quella di un uomo che ha sbagliato e ammette di averlo fatto. Un padre la cui ultima figlia è stata battezzata dal fratello gesuita di Vittorio Bachelet, il giurista democristiano assassinato da un commando brigatista a Roma nel 1980. Uno che si sente responsabile nei confronti delle vittime e dei loro familiari, ma non vuole che lo Stato si dica innocente: «Ricostruire la storia di quegli anni è quasi impossibile, la verità non esiste», dice. Di più.

«In Germania si poteva dire che i terroristi della Raf erano criminali e che la Repubblica federale tedesca era pura come una colomba. Distinguere il bene e il male. Io però non sono sicuro che in Italia lo Stato sia altrettanto innocente». Sono invece vittime innocenti le persone ferite o uccise dalle Brigate Rosse o da altri gruppi terroristici. «E per questo lo Stato ha usato i feriti e i familiari degli ammazzati - continua - investendoli di un ruolo di supplenza morale, col pessimo risultato che la giustizia ha assunto i colori di una vendetta». Parole che qualcuno ascolterà con sgomento, riportate da un cronista.

Enrico Fenzi, per le cronache giudiziarie, nella sua vita brigatista ha preso parte a una sola azione di fuoco: la gambizzazione del dirigente Ansaldo Carlo Castellano nel 1977 («Mi coinvolsero per mettermi in una condizione di non ritorno», dice). E Castellano, che porta ancora nel fisico i segni di quell’agguato, oggi reagisce all’idea di un ex brigatista che parla in chiesa di uno Stato che “usa” le vittime del terrorismo. «È un’affermazione ingenerosa e assurda - dice a botta calda - meglio per ora non aggiungere di più perché le ferite sono aperte, il terrorismo è stato una cosa grave. Ma certo mi lascia perplesso che Fenzi sia stato accolto in una chiesa per dire certe cose».

Dal pubblico, un suo ex collega all’Università, Elio Gioanola, chiede a Fenzi come può parlare tranquillamente di ammazzare la gente «uno come te, un uomo pacifico». Uno studioso che ha appena pubblicato un’edizione del “De Vulgari eloquentia di Dante” ed è stato chiamato a parlare di Petrarca alla Sorbona. «Viviamo in un mondo dove normalmente si uccide», risponde lui, con lo sguardo basso e lo stesso atteggiamento mite, ai piedi dell’altare.

Bruno Viani (Il secolo XIX, 30 gennaio 2014)

 

       

 

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