Piazza Fontana, i ricordi di Licia: in troppi hanno mentito
I 40 anni di dolore della vedova Pinelli "Non smetterò mai di
cercare la verità"
Vidi Luigi Calabresi al processo a Lotta Continua: erano tutti contro di lui, mi
fece pena
Licia Pinelli ha, come dice lei con
un sorriso quasi da ragazzina, «ottantun´anni e tre quarti». Sta seduta in
cucina, quarto piano senza ascensore. Dritta, con le mani incrociate in grembo.
Immobile, a parte gli occhi vivaci e acuti. Una postura che ricorda i monaci
buddisti: ma è come fuoco dentro una corazza. «"Tu non piangi mai", mi hanno
detto. Ma se piango o non piango lo so solo io, il dolore - dice - non va fatto
pesare sugli altri».
Questo che finisce è un 2009 un po´
speciale. Per la prima volta, la cosiddetta "madre di tutte le stragi" non conta
diciassette vittime, ma ne conta una un più: "il Pino", Giuseppe Pinelli,
ferroviere anarchico, suo marito. Era entrato in questura per un interrogatorio
sulla bomba di piazza Fontana ed era uscito da una finestra dell´ufficio
politico, coordinato dall´allora commissario Luigi Calabresi. Sette mesi fa il
presidente Giorgio Napolitano ha invitato al Quirinale Licia Pinelli e Gemma
Calabresi, nel "giorno della memoria". E ha parlato di «rispetto e omaggio per
la figura di un innocente, Giuseppe Pinelli, che fu vittima due volte, prima di
pesantissimi e infondati sospetti, poi di un´improvvisa assurda fine».
Il Presidente ha detto che non voleva
rifare il processo, ma proporre un gesto politico. E anche lei forse si sarà
stufata di rifare ogni volta il processo...
«Beh, il processo per mio marito non
l´abbiamo mai ottenuto. Ci sono state solo istruttorie. E io non ho mai smesso
di cercare la verità».
Mai?
«Spero sempre che venga a galla. Se
non la vedrò io, la vedranno le mie figlie. E se non loro, altri che manterranno
il ricordo».
Non è facile, in alcune storie
intricate, avvicinarsi alla verità...
«Ci si può arrivare insistendo. Mi
sono mossa da subito dentro la legalità e dentro lo stato di diritto per
appurare la realtà dei fatti. Non raggiungere la verità è una sconfitta per lo
Stato, non solo per parenti».
Come arrivare a "sapere"?
«Durante i processi, sa che ho
pensato? Che alcuni interrogatori non dovrebbero farli il pubblico ministero e
gli avvocati. Dovremmo essere noi. I parenti. Sì, guardando in faccia le
persone. Delle bugie dei poliziotti sono sicura con ogni cellula del mio corpo,
del mio cuore, del mio cervello».
Perdoni l´insistenza, ma esistono
però alcuni elementi che anche quarant´anni dopo fanno impressione. Uno è che
Pinelli muore e il questore di Milano, Marcello Guida, che era stato comandante
del carcere fascista di Ventotene, sostiene che suo marito si è buttato dalla
finestra gridando "È la fine dell´anarchia". Una menzogna davvero inspiegabile,
oppure??
«Conoscevo Pino, eravamo legatissimi.
Quindi ero sicura che non aveva commesso nulla di cui veniva accusato. Parlava a
telefono da casa. Ogni volta che diceva la minima bugia lo scoprivo. Non potevo
mettere riparo alla sua morte, ma alla diffamazione sì. Querelai Guida. Gli
stava sporcando il nome, per gente come noi è inconcepibile. Poi querelai i
poliziotti e il carabiniere che stavano nella stanza dell´interrogatorio.
Cercavo la verità attraverso loro, perché hanno mentito. E perché mentire e
contraddirsi se non per nascondere qualcuno o qualche colpa più grave?».
Lei - secondo dettaglio strano per
chiunque conosca una questura - viene a sapere della tragedia un´ora e mezza
dopo, dai giornalisti e non dalla polizia: davvero è andata così?
«Quella notte vennero due, credo del
Corriere, "Sa, pare una disgrazia". Chiamai subito il commissario Calabresi,
sapendo che era lui ad averlo interrogato. Sono Licia Pinelli, dov´è mio marito?
Mi rispose Calabresi: "Al Fatebenefratelli". Non ci potevo credere. Perché non
mi ha avvisata? "Ma sa, signora, abbiamo molto da fare". Da fare? Non riesco
ancora oggi a pensare con neutralità a questa risposta. Ora però...».
Scusi lei, ultimissimo elemento.
Lello Valitutti. Erano rimasti in due, gli anarchici da interrogare. Chiamano
suo marito e Valitutti resta per ultimo in uno stanzone. Dirà poi che ha sentito
del trambusto, poi il rumore del corpo caduto. Ed è rimasto colpito dal
silenzio, dentro la stanza. Poco dopo è stato messo faccia al muro. E
rilasciato.
«Con Lello ci si sente sempre, io gli
credo. Non s´era distratto. Quando hanno fatto il sopralluogo, durante
un´istruttoria, c´era una macchina delle bibite davanti alla porta. "Come faceva
a vedere la stanza dell´interrogatorio se c´era ?sta cosa davanti?", gli hanno
chiesto. "Non c´era", ha risposto Lello e ha fatto vedere i segni sul pavimento.
La macchinetta era stata spostata. Ma dopo. Quella sera Valitutti poteva
vedere».
Gerardo D´Ambrosio non l´ha mai
interrogato...
«Me lo sono chiesta anch´io il
perché. D´Ambrosio era partito bene, aveva fatto ciò che altri non avevano
fatto. Ma che devo dire? Il magistrato Caizzi ha parlato di morte accidentale,
Amati di suicidio, D´Ambrosio di disgrazia plausibile, il "malore attivo". Luigi
Bianchi d´Espinosa, procuratore generale a Milano, mi sembrava attento,
scrupoloso. Poi Bianchi è morto... «.
L´ultimo fotogramma di suo marito?
«Lui che esce e io che lo inseguo per
portargli il cappotto, noi due persone di mezz´età che hanno due figlie, che
ridono e scherzano. Poi lui va in questura?».
Poi?
«Erano giorni bui, di cielo scuro.
Neve in strada, freddo. Se penso a quel periodo vedo di Milano solo il nero».
C´è un appello che gira in questi
giorni, per aprire, come lei chiede, i cassetti del Viminale. Ma ci crede
davvero ai segreti che vengono a galla?
«In America per gli anarchici Sacco e
Vanzetti è stato così. Pino non s´è ucciso, non l´avrebbe fatto. Innanzitutto
credeva nella vita, mi aveva appena detto che non condivideva il gesto di Jan
Palach, che si bruciò a Praga contro i carrarmati sovietici. Poi non l´avrebbe
fatto per l´amore che ci univa. E per l´amore per le bambine, alle quali,
durante l´interrogatorio, faceva dei disegni. Posso sperare che qualcuno
recuperi la coscienza. O che si trovi un documento. Quanto potevo fare, io ho
fatto, non ho smesso di chiedere».
Lo Stato le ha mai offerto un
risarcimento?
«Anzi! Volevano farmi pagare delle
spese. Poi però non sono mai venuti a chiedere».
Di Pietro Valpreda, il finto
"mostro", che pensa?
«Un simpatico casinista che hanno
messo in mezzo all´inizio, per dare la colpa agli anarchici. Le varie inchieste
le ho seguite sui giornali, la pista di destra direi che non ha dubbi, non più».
L´omicidio del commissario Calabresi
nel ?72 lei l´ha vissuto...
«Malissimo. A parte la morte di un
uomo, c´è stata tolta la possibilità di ragionare con una persona che c´era. E
che sapeva cos´era successo in quegli anni, e nelle ore in cui mio marito morì».
L´ha incontrato?
«L´ho visto una sola volta. nell´aula
del processo a Lotta continua. E Calabresi - che era parte lesa - mi fece pena.
Erano tutti contro di lui, mi sembrò "mollato" dai suoi capi, il capro
espiatorio degli sbagli della polizia».
L´anniversario le pesa?
«Sempre. Quest´anno poi, tanti
vogliono un ricordo. Ma io sono prosciugata dalle troppe parole, che, in fondo,
sono le stesse di quel ?69. Degli anni Settanta. E nel frattempo Pino, che era
l´uomo della mia vita, non è più stato qua, dove doveva essere».
Piero Colaprico (la Repubblica, 28 novembre 2009)
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