Caselli querela Massimo Coco, figlio del
Procuratore Generale di Genova assassinato l’8 giugno 1976 -
"Nessuna diffamazione, non ce l’avevo con lui"…
Trent'anni fa, ai tempi della lotta al terrorismo combattuta al prezzo di
attentati quasi quotidiani, una causa simile sarebbe apparsa impensabile: un
magistrato che querela una vittima del fuoco brigatista e ne ottiene il rinvio a
giudizio. Una storia antipatica per tutti e gonfia di paradossi, frutto di una
rincorsa della memoria che a volte porta con sé ricordi sbagliati e parole mal
dette o male interpretate, che a loro volta provocano guasti e irritazioni
difficili a frenare. Fino a intasare un tribunale con un processo di cui gli
stessi protagonisti vorrebbero fare a meno: imputato, parte offesa, avvocati e
giudici.
Sul banco degli accusati è finito Massimo Coco, figlio del procuratore
generale di Genova assassinato l'8 giugno 1976 da un commando delle Brigate
rosse, insieme agli uomini della scorta Giovanni Saponara e Antonio Deiana: fu
il primo omicidio pianificato dalle Br.
All'epoca Massimo aveva 16 anni, e dopo trenta ha accettato di rispondere
alle domande di Giovanni Fasanella e Antonella Grippo per il libro I silenzi
degli innocenti , raccolta di testimonianze dei familiari delle vittime di tanti
attentati terroristici, da piazza Fontana in poi. Riportando, tra l'altro, un
ricordo della madre secondo cui l'allora giudice istruttore Gian Carlo Caselli,
che indagava sull'omicidio del marito, andò a casa sua e riportò nel verbale
d'interrogatorio una frase da lei mai detta; e lamentando di non conoscere i
nomi degli assassini, perché «il processo è finito in farsa».
Lette quelle righe in un'anticipazione giornalistica, Caselli replicò di non
essere mai andato a casa della signora Coco; ne ricevette una risposta in cui il
figlio del magistrato confermava gli «strani accomodamenti» del verbale e
ribadiva che gli inquirenti dell'epoca «cercarono la verità, ma forse non
continuarono a cercare fino in fondo». Di qui la querela di Caselli, oggi
procuratore di Torino, nella quale si precisa che per «non coinvolgere in un
procedimento penale il figlio di una vittima del terrorismo» e «assolutamente
rispettoso» del suo dolore, aveva inutilmente tentato altre strade riparatorie.
Ora che un giudice ne ha ordinato il rinvio a giudizio, Massimo Coco esprime
tutta la propria amarezza: «Dopo trent'anni di silenzio ho parlato di tante cose
tra cui quella, non certo la più importante. E il 'processo finito in farsa' è
una metafora per dire che ancora non so chi ha sparato a mio padre, a parte i
nomi di un brigatista morto e di due o tre individuati come mandanti; non ce
l'ho col dottor Caselli né con la sua istruttoria».
Quanto al presunto verbale «accomodato» (è stato ritrovato in archivio: non
fu Caselli a interrogare la signora Coco, ma un altro magistrato) spiega che
l'aveva riferito solo perché «aveva molto colpito» sua madre. «Mi dispiace se
c'è stato un errore di persona e se qualcuno s'è offeso - continua il figlio del
procuratore ucciso - ma credo di essere sufficientemente parte in causa per
esprimere il rammarico di non aver avuto verità e giustizia sull'omicidio di mio
padre, perché questo era e resta il mio pensiero. Mai avrei immaginato di
ritrovarmi imputato per aver detto qualcosa che voleva mettere in luce questo
stato d'animo».
Qualcosa che s'è rivelata un'accusa di gravi scorrettezze attribuita a
Caselli (il quale rivendica di aver condotto «tutte le indagini necessarie per
individuare i responsabili» del delitto, compreso l'arresto, tra mille
polemiche, di un presunto brigatista uscito assolto) che per altri magistrati è
una diffamazione aggravata, come recita il capo d'imputazione. «È paradossale
che debba andare in causa con un giudice come Caselli - insiste Massimo Coco -,
e ora vorrei evitare che questa vicenda diventi un pretesto per il rilancio
delle solite polemiche contro la magistratura. Alimentate da me, il figlio di
Francesco Coco! Sarebbe davvero assurdo».
Nella querela Caselli precisa che il suo obiettivo è «ristabilire la verità»
e annuncia che «le somme che eventualmente venissero liquidate a titolo di
risarcimento del danno verrebbero integralmente devolute all'Associazione
vittime del terrorismo ». Di cui - altro paradosso - Massimo Coco fa parte, ed è
membro del Direttivo.
L'avvocato del procuratore di Torino, Carlo Smuraglia, spiega: «Siamo pronti
a ritirare la querela e fermare il processo a fronte di una reale rettifica che
possa riparare il danno innegabilmente subito dal dottor Caselli». Massimo Coco
auspica che una via d'uscita si possa trovare, «anche coi chiarimenti e le scuse
necessarie, ma non posso non ribadire di essere insoddisfatto per l'esito dei
processi.
E se dovrò andare a dirlo in tribunale lo farò, ma non l'avrei mai
immaginato...». Se non s'arriverà prima a una diversa soluzione, l'appuntamento
resta quello fissato dal giudice: processo a Bergamo, il 12 febbraio 2010.
Trentesimo anniversario dell'omicidio del vicepresidente del Csm Vittorio
Bachelet, un altro delitto firmato dalle Brigate rosse nel loro attacco alla
magistratura e allo Stato.
Giovanni Bianconi ("il Corriere della Sera" 10 novembre 2009)
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