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 Tobagi e l’incredibile vicenda di Renzo Magosso 
 Il caso non ha fatto ‘notizia’ ma riguarda la libertà di stampa e il futuro 
di una informazione non imbavagliata da norme ambigue. Il tutto intrecciato con 
alcuni segreti della Repubblica: un mix che non può passare inosservato.  Il fatto è il seguente: il giornalista Renzo Magosso si è beccato una 
condanna per diffamazione in primo grado da un tribunale di Monza per aver fatto 
un’intervista ad un ex sottoufficiale dei Carabinieri, Dario Covolo, nome in 
codice ‘Ciondolo’. Costui aveva sostenuto nella conversazione con Magosso, 
pubblicata poi su Gente del 17 giugno 2004 - allora diretto da Umberto Brindani 
- di aver presentato sei mesi prima dell’omicidio del giornalista del Corriere 
della Sera Walter Tobagi, un rapporto circostanziato per informare i suoi 
superiori, il generale Alessandro Ruffino, allora capitano, ed il defunto 
generale Umberto Bonaventura, anch’egli ai tempi capitano, del progetto di 
uccidere Tobagi ma loro avevano reagito invitando il loro sottoposto ad 
occuparsi di altro. Tobagi fu ammazzato il 28 maggio del 1980 nel luogo che 
aveva indicato Ciondolo le cui accuse sono effettivamente pesantissime. 
Tuttavia, Dario Covolo le ha ripetute davanti ai giudici di Monza, confermando 
l’esattezza del resoconto di Magosso. Eppure, niente da fare: per quei giudici 
Magosso avrebbe agito con superficialità, non verificando l’esattezza delle 
confidenze che aveva raccolto e non riferendo di “una diversa verità ufficiale”. 
Il suo scopo, secondo quei magistrati, era solo quello di firmare uno scoop: 
possibile che non siano valse a nulla le conferme del diretto interessato?  La condanna di Magosso ha il sapore preoccupante per chi fa il mestiere di 
giornalista e per chi vuole leggere notizie e non veline. Peraltro, anche la 
giurisprudenza in materia d’informazione è piuttosto chiara. Nel 2001 le sezioni 
unite penali della Cassazione hanno confermato la non punibilità del giornalista 
che esercita il suo diritto/dovere all’informazione riferendo affermazioni di 
rilevanza sociale. Come se nulla fosse: il giudice Ilaria Maupoil e, prima di 
lei, il pm Alessandro Pepè, hanno insistito sulla colpevolezza di Magosso. Una 
condanna che non suona proprio come un invito a fare attenzione, quando come una 
vera intimidazione per gli operatori dei media: attenti a non mettere il becco 
in faccende calde. Solo così si può leggere la sentenza di Monza. Perché il caso 
Tobagi è una di quelle storie italiane che resta avvolta dal mistero: perché non 
fu salvato? Fu solo scarsa accortezza o ebbe un ruolo la P2? Dopo la drammatica 
uccisione di quattro brigatisti, freddati nel covo di via Fracchia a Genova, 
faceva comodo una ripresa del terrorismo? Sono domande inquietanti, come tante 
altre che riguardano il nostro passato.  Nel suo libro-rivelazione "Le carte di Moro, perché Tobagi" – ed. Franco 
Angeli, 2003, scritta a quattro mani con il capitano Roberto Arlati, ex membro 
dell’antiterrorismo di Milano – Magosso affronta anche la vicenda 
dell’inquietante cancellazione delle informazioni fornite da "Ciondolo" sulla 
morte di Tobagi e delle pesantissime accuse di Bettino Craxi nei confronti dei 
Carabinieri, colpevoli, secondo lui, di aver taciuto "una nota informativa che 
annunciava l'organizzazione dell'assassinio del giornalista del Corriere della 
Sera”. Fu l’allora ministro dell’Interno, Oscar Luigi Scalfaro a riferire in 
Parlamento il 19 dicembre del 1983 l’aspetto più inquietante di tutta la storia: 
Scalfaro diede notizia dell’esistenza della nota informativa di Ciondolo presso 
gli atti del reparto operativo del Gruppo dei Carabinieri di Milano nella quale 
Dario Covolo riferiva il 13 dicembre del 1979 del progetto di uccidere Tobagi 
esattamente nel luogo in cui fu poi ucciso qualche mese dopo. Non solo: Scalfaro 
aggiunse che... “L’attività dell’Arma dei carabinieri in tutte le vicende 
riferite [quelle relative all’informativa-Ciondolo, NdA] è attività di polizia 
giudiziaria che implica, come tale, il dovere di riferire in via esclusiva 
all’autorità giudiziaria dalla quale dipende”. Un atto di accusa gravissimo: 
soprattutto perché non è rimasta traccia dell’informativa resa nota da Scalfaro 
e fatta sparire probabilmente secondo un modulo nel quale era esperto, ad 
esempio, l’Anello, il servizio segreto clandestino specializzato nel fare 
pulizia di carte e persone troppo ‘esplicite’. (Il libro di Magosso e Arlati è 
divenuto assai noto per il racconto di una giornata particolare, durante la 
quale furono ritrovate le carte di Aldo Moro in Via Monte Nevoso: l'ex ufficiale 
dell'antiterrorismo Arlati - si è messo a vendere lavatrici per vivere dopo il 
congedo - racconta che dai documenti scoperti furono sottratte molte pagine. 
Arlati consegnò tutto al capitano Bonaventura, che pretese il ‘tesoro’ senza 
accettare contestazioni perché, disse, dovevano essere portate in visione al 
generale Dalla Chiesa ma, quando lo riportò indietro, dice Arlati a Magosso, il 
pacco era “assottigliato al tatto”).  Tutte queste pesanti eredità del passato sono tornate in aula il 14 ottobre, 
nel Tribunale di Monza, dove ci si augura che non sia scambiata la verità con la 
condanna ad un giornalista. Speriamo anche che il ministro della Giustizia, 
passato il Lodo, risponda con sollecitudine al deputato del Pd Paolo Corsini, ex 
capogruppo dell’Ulivo nella Commissione parlamentare sulle Stragi, che ha 
presentato una dettagliata interrogazione parlamentare sul caso Tobagi-Magosso, 
riferendo anche nuove rivelazioni che confermano la scomoda verità 
sull’assassinio del giornalista del Corsera.  Aggiornamento e approfondimenti:  Magosso, peraltro, ha riferito in aula una circostanza inedita e clamorosa: 
venti giorni dopo il delitto, nel giugno 1980, il generale Dalla Chiesa incontrò 
l’allora direttore del Corriere Franco di Bella e gli disse chiaramente che a 
uccidere Tobagi era stato Marco Barbone, figlio di un alto dirigente 
dell’Editoriale. Di Bella chiese a Magosso, che lavorava al quotidiano L’Occhio, 
e che seguiva le indagini sul terrorismo, di accertare quanto ci fosse di vero. 
Magosso si rivolse all’allora capitano Bonaventura che confermò la circostanza, 
aggiungendo: «Abbiamo la certezza, la notizia arriva da Varese». Va chiarito che 
Rocco Ricciardi, l’informatore citato da Dario Covolo, abitava proprio nel 
varesotto. Ebbene, il 25 settembre, a poche ore dall’arresto di Barbone, Magosso 
scrisse sull’Occhio, il tabloid della Rizzoli diretto da Maurizio Costanzo, che 
era stato arrestato il killer di Tobagi e fece esplicito riferimento a Varese. 
Solo il 10 ottobre, «in maniera inaspettata e clamorosa», come riferiscono gli 
atti processuali, Barbone confessò di aver ucciso Tobagi. Magosso dunque non si 
era sognato nulla. E questa sembra proprio la riprova che nella vicenda ci sia 
ancora moltissimo da chiarire.  Barbone venne prontamente scarcerato, grazie alla collaborazione con i 
magistrati, che portò all’arresto di decine di suoi ex compagni. La sua ex 
fidanzata non venne neppure inquisita, nonostante avesse partecipato al progetto 
di sequestrare lo stesso Tobagi. Ora il processo contro il giornalista Magosso 
rischia di trasformarsi, al di là della volontà dei giudici, nella 
identificazione di un capro espiatorio che sia di monito per chi volesse 
insistere nel non rassegnarsi a una verità di comodo. L’Ordine dei giornalisti e 
la Federazione della stampa, il ministro della Giustizia, le forze politiche e i 
tanti sedicenti garantisti, di destra e di sinistra, non hanno nulla da dire?
   Stefania Limiti (Articolo21.info 19 ottobre 2009)    
       
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