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Data: 10/06/2009
Intervista a: Luigi Maria Perotti

Il 10 giugno 1981, le Brigate Rosse di Giovanni Senzani rapirono, a San Benedetto del Tronto, Roberto Peci un piccolo passato come aspirante brigatista assieme al fratello Patrizio che, invece, non solo fece il "grande salto" diventando capo della colonna torinese delle BR ma, nel 1980, il suo pentimento portò a oltre 70 arresti ed un colpo decisivo sia dal punto di vista organizzativo che di conoscenza del fenomeno che da 10 anni attraversava l'Italia.
Sono passati tanti anni senza che la storia di Roberto Peci vedesse qualcuno disposto a raccontarla. Dopo un libro uscito nel 2005 ad opera del giornalista Giorgio Guidelli "Operazione Peci", arriva un documentario a firma di Luigi Maria Perotti, giovane regista marchigiano che ha ripercorso la storia dei due fratelli di San Benedetto dei quali ancora in molti nella cittadina marchigiana preferiscono dimenticarne l'esistenza.
Perotti, con coraggio, si è avventurato in un ginepraio di carte, riuscendo a coinvolgere, nel suo progetto di ricostruzione, anche la sorella Ida Peci e la figlia di Roberto che non ha mai potuto vedere il padre in quanto al momento dell'uccisione la mamma Gabriella era incinta.
“L’infame e suo fratello” è un film documentario di 92 minuti (co - produzione internazionale Rai (Italia) – NDR (Germania), è stato distribuito in Germania, Svizzera ed Italia ed è stato presentato al Festival di Roma (sezione Extra d’essai), a Documentary in Europe (Bardonecchia), nella rassegna 70/80 organizzata dal Museo del Cinema di Torino e nella rassegna per i documentari d’autore SUNDOC, organizzata dalla Cinemateca di Copenaghen.


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L’Infame e suo fratello. Un film ben fatto che racconta, per la prima volta, la storia dei fratelli Peci a partire dalle origini a San Benedetto del Tronto. Lo vedremo in Italia?

Il film è stato presentato al Festival del Cinema di Roma, nella sezione “extra d’essai” – Cinema del Reale e in alcune rassegne. La versione ridotta è andata in onda all’interno del programma “La Storia siamo noi di Giovanni Minoli” e su History Channel.

 

 

 

Come le è venuta l’idea è perché ha pensato di raccontare proprio la storia dei Peci?

Io sono nato a San Benedetto del Tronto, proprio come Patrizio e Roberto e abitavo a qualche centinaio di metri da casa loro. Ma questo è solo uno dei motivi. Nel 1981 avevo sei anni, troppo pochi per capire cosa stesse accadendo. Per anni tornando da scuola mi capitava di passare davanti casa di Ida Peci e vedere la camionetta dei carabinieri che mitra alla mano pattugliavano la zona.

Poi, come quasi tutti a San Benedetto, ho dimenticato. Fino a quando, nell’era del terrorismo mediatico i video dei terroristi islamici hanno cominciato ad invadere l’etere di ogni angolo del pianeta.

Mi venne in mente che questa cosa era accaduta proprio dietro casa mia tanti tanti prima. E così ho iniziato a lavorarci

 

 

 

Quali sono le principali difficoltà incontrate nel realizzare il film?

Le persone dimenticano. Penso sia normale e per certi versi anche un bene.

La mente umana elabora quello che ha vissuto e a distanza di un quarto di secolo ricorda solo quello che l’aveva colpita. Spesso nelle interviste emergevano dati contrastanti. All’inizio pensavo a chissà cosa ci fosse dietro quelle imprecisioni che mi sembravano dette per coprire chissà quale altra verità, poi ho capito che non era così.

 

 

Come ha accolto la famiglia Peci questa sua idea? E’ stato difficile riportare Ida a quei giorni?

Ida ha fatto un salto nel passato. E’ stato doloroso per lei, ma nonostante tutto sentiva il dovere di farlo per Roberto. Non le andava giù che suo fratello, un lavoratore, un proletario, un uomo che in tutta la sua vita non aveva mai fatto male una mosca, venisse messo al muro e ucciso da traditore, da persone che predicavano una rivoluzione del popolo, ma attuavano vendette trasversali in stile mafioso contro esponenti del popolo stesso.

 

 

Dei Peci, si sa, non è disponibile molto materiale. Persino dei 7 comunicati delle Br nei 55 giorni del rapimento sono presenti solo alcuni stralci tra le carte processuali. Come ha risolto il problema delle fonti?

Ho usato gli atti dei vari processi, soprattutto quello relativo a Senzani e company che si è svolto presso il tribunale di Macerata. Particolarmente importante è stato il memoriale di Roberto Buzzatti, il carceriere di Roberto, divenuto poi pentito e testimone chiave di quel processo.

Un film documentario ha bisogno soprattutto di testimonianze ed avrei voluto intervistare le persone coinvolte, ma nessuno dei brigatisti del “Fronte delle Carceri” di Senzani ha voluto partecipare. Alcuni, dopo avermi dato la massima disponibilità, si sono ritirati all’ultimo minuto. Hanno una nuova vita, sono circondati da persone che poco sanno del loro passato e molto serenamente hanno ammesso di non avere la forza per rimettere tutto in discussione.

Altri hanno avuto un approccio completamente diverso.

Ricordo ancora la telefonata con Stefano Petrella, uno degli autori materiali dell’omicidio. Mi ha detto, molto cordialmente a dire la verità, che non era disposto ad analisi speculative di stampo giornalistico o documentaristico. Parlerà di Brigate Rosse solamente il giorno in cui il Parlamento deciderà di affrontare il tema, in maniera politica.

 

 

In occasione della riedizione di “Io, l’infame”, si è animata una polemica tra il Maresciallo Incandela e Patrizio Peci relativa alle reali motivazioni che avrebbero spinto l’ex brigatista a collaborare con la giustizia. All’accusa di Incandela che i veri motivi che portarono Peci al pentimento furono molto più dipendenti dal richiamo della “gola” che “dell’anima”, Peci ha replicato accusando a sua volta l’ex capo delle guardie carcerarie di Cuneo di essere un “boia” senza scrupoli, e di non avere alcun merito del suo pentimento. Che idea se ne è fatta lei?

Se dopo tutto quello che è successo si trovano dopo 25 anni a litigare per un paio di quaglie, forse si sono persi qualche passaggio.

 

 

La ripubblicazione di Io, l’infame è stata una nuova occasione per far riemergere la polemica sul presunto (almeno secondo qualcuno) doppio arresto di Patrizio Peci. Quale è la sua opinione su questa storia?

A mio avviso, porre l’accento su questo aspetto è abbastanza sterile.

Lo Stato era in guerra con i terroristi e mi sembra plausibile che gli uomini dello stato abbiano provato ad entrare in un’associazione segreta di cui sapevano poco o niente, infiltrando qualcuno al loro interno. Qualcosa di simile era già accaduto con Frate Mitra per l’arresto del primo nucleo e potrebbe essere accaduto ancora, quando il generale Dalla Chiesa ha assunto il comando del Nucleo Speciale Antiterrorismo. Detto questo non ci troverei nulla di strano, ma non ho trovato nessuna prova del doppio arresto di Patrizio e non credo che lui, da brigatista, abbia mai lavorato per conto dei Carabinieri.

Non ci sono prove. E di illazioni su questi anni ce ne sono pure troppe.

 

Come hanno vissuto i familiari di Peci in tutti questi anni?

Certe cose non si dimenticano molto facilmente.

 

Durante il sequestro di Roberto Peci, i brigatisti chiesero alla famiglia di dichiarare pubblicamente che le confessioni del prigioniero corrispondevano al vero. Il loro obiettivo era che in cambio della liberazione di Roberto, avrebbero probabilmente portato alle dimissioni di due “pericolosi” nemici come il giudice Caselli ed il Generale Dalla Chiesa. La RAI si rifiutò di ospitare la sorella e la moglie di Roberto, ed il loro appello fu raccolto solo da Radio Radicale. Purtroppo, non servì a nulla. C’era una via d’uscita a quella vicenda?

Nel film Ida Peci ha voluto leggere la lettera che le ha inviato Roberto Buzzatti, uno dei carcerieri di suo fratello. Buzzatti le ha scritto che Senzani era disposto a salvare Roberto Peci solo nel caso in cui le istituzioni avessero ammesso il doppio arresto. Considerando che quelle stesse istituzioni non permisero nemmeno la messa in onda di quel video dell’orrore, non credo.

 

Il momento più toccante del film è quando Roberta Peci, figlia di Roberto nata dopo la morte del padre, si lascia andare ad una riflessione: “Se mio zio non si fosse pentito, mio padre non sarebbe stato ucciso”. Un’amara considerazione, non le pare?

Sicuramente. Dal punto di vista di una ragazza cresciuta senza il padre, gli affari di Stato diventano irrilevanti.

 

 

Secondo lei la storia di Roberto e Patrizio Peci presenta ancora dei lati oscuri? Quali?

A mio avviso, più che la storia dei Peci è la figura di Giovanni Senzani a presentare delle zone d’ombra. Quello che subito dopo l’arresto i giornali battezzarono professor Bazooka, ha un ruolo tutto da chiarire in questa fase degli anni di piombo. Ora ha scontato la sua pena ed è tornato ad essere un uomo libero, ma non ha voluto incontrare Ida. Nell’unica dichiarazione rilasciata dice di essere rammaricato di non aver i soldi per ripagare le vittime, ma non spiega le ragioni dei suoi contatti con i servizi segreti e la camorra.

 

 

Nel film, Ida Peci torna a Roma per parlare con Sergio Zavoli, all’epoca Presidente della RAI, e chiedere una spiegazione per il gesto che, 27 anni fa, costò la vita al fratello. Zavoli non la riceve e si affida ad un comunicato nel quale ribadendo che, se si fosse comportato diversamente, si sarebbe creato un precedente che avrebbe spinto le Br ad altre iniziative del genere. Non era evidente che il caso Roberto Peci era “particolare” e che non si trattava di un rapimento qualsiasi del fratello di un pentito?

Zavoli ha scambiato quattro chiacchere con Ida in un corridoio del Senato, ma non ha voluto le telecamere. Sinceramente non so cosa si siano detti.