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Intervista a Franco Piperno: il caso Moro
Di Manlio (del 03/01/2009 @ 22:33:10, in Interviste, linkato 8843 volte)
La seconda parte dell'intervista all'ex leader di Potere Operaio Franco Piperno tutta dedicata al caso Moro e alle condizioni per la chiusura  politica e storica degli anni di piombo.
Parla delle trattative, della geometrica potenza, del significato politico del rapimento di Moro. E lo fa con il suo consueto tono a volte provocatorio a volte sorpreso nel constatare quanto le cose semplici possano, facilmente, diventare complicate e controverse.
Ha la piena visione dei fatti, Piperno. Per averne vissuti in parte gli eventi e per aver conosciuto molto bene chi, quegli stessi eventi, li ha determinati e ne ha pagato le conseguenze.
Una chiacchierata che a prima vista può sembrare non aggiunga nulla al già nutrito dibattito ma che, invece, offre un paio di spunti sui quali forse non tutto è stato detto


A ridosso dell’anniversario dell’agguato di via Fani, lei ha definito i brigatisti “delle ottime persone anche se hanno ucciso” perché c’è una morale grazie alla quale “ci sono persone che vanno a bombardare una città e sono considerate degli eroi e persone che sparano su un bersaglio determinato che sono considerate dei criminali. Nel secondo caso solo perché sconfitti”. Naturalmente l’opinione ha scatenato reazioni da molte parti rilanciando l’etichetta del “cattivo maestro”. Lei si sente un “cattivo maestro”? Chi sarebbero, al contrario, i “buoni maestri”?

Io non mi sento un maestro di nessuno. Ho fatto ciò che nella mia generazione è molto più frequente di quello che si crede. Ho partecipato a quello in cui capitavo. Avevo solo 24 anni e quindi non ho avuto un ruolo come invece, certamente, altri intellettuali come Mario Tronti o Toni Negri hanno avuto.
Quanto alla moralità dei brigatisti, mi sembra evidente, basterebbe un dato statistico di che cosa è accaduto nelle loro vite rispetto a ‘comportamenti devianti’. Voglio dire che nonostante tutti coloro che hanno partecipato a quegli anni siano stati condannati anche per omicidi e attualmente sono parzialmente liberi, non è più accaduto che avvenisse da parte loro la più piccola violazione della legge o delle consuetudini né in Italia né altrove (penso alla Petrella a Parigi). Potrei addirittura citare il caso di uno di loro che trovò un portafoglio su un bus di Roma e si recò in Questura per restituirlo e lì fu riconosciuto ed arrestato. Potrei citare quelli che a Parigi lavorano all’istituto Pasteur con delle condanne in Italia di oltre 30 anni e sono ricercatori molto stimati. Dico questo non perché essere ricercatori debba preservare dalla severità della legge, ma per dire che si è trattato di un periodo propriamente eccezionale in cui c’è stato uno scontro sociale che per alcuni aspetti, almeno a mio giudizio, ha rasentato la ‘guerra civile’. Quello che è successo in quegli anni va collocato, appunto, quanto meno in un clima da ‘guerra civile’, ed in un contesto simile è possibile che arrivino ad uccidere anche persone straordinariamente appassionate che in realtà sacrificano la loro stessa vita e il loro stesso talento.
La stupidità italiana di non riconoscere quel clima, fa si che esistano ancora oggi politici che si fanno vanto che la loro posizione di allora, e cioè il ridurre la lotta armata a fenomeno criminale, era giusta. Quando è evidente che è una bugia e questa bugia impedisce all’intero Paese di conoscere la sua storia.

Ci sono le condizioni, oggi, affinché sia possibile arrivare ad una “chiusura condivisa” di quegli anni per una riappacificazione sociale? Cosa lo impedisce e quale sarebbe, secondo lei, la soluzione?
Questo io l’ho detto con molta onestà al Senatore Pellegrino, quando presiedeva la Commissione Stragi. Su questo terreno la prima condizione è che si vari una legge che riconosca che c’è stato uno scontro civile in quegli anni e che non si trattava né di banditi né di profittatori. Solo un provvedimento di amnistia per quegli anni (direi almeno dal ’68 al ’77) può permettere la ricostruzione della verità. Ed è una verità di cui il Paese ha bisogno. Perché è chiaro, e succede anche a me, che per ricostruire cos’è accaduto, occorre che non ci siano conseguenze giudiziarie nelle dichiarazioni che si fanno. Altrimenti io per primo mi rifiuto di ricordare. Sarebbe oltremodo vile che dopo 30 anni delle persone venissero arrestate perché hanno dato alloggio ad un latitante o curato dei feriti.
Da questo punto di vista bisognerebbe, una volta tanto, imparare da un paese come il Sudafrica che sulla base di un riconoscimento di una tragedia civile, come è stata la loro soprattutto nelle ultime due decadi, hanno istituito una commissione fondata sull’amnistia generale. E’ chiaro che questa amnistia dovrebbe riguardare anche i giovani di allora di estrema destra. E‘ una cosa, dal mio punto di vista grave, ma inevitabile ma si devono necessariamente considerare anche quei giovani che sono stati maneggiati dai Servizi Segreti. E’ necessario un provvedimento di questo genere, che riconosca l’eccezionalità di quegli anni come eccezionali furono anche le misure punitive che furono utilizzate in dose eccessiva, come del resto hanno riconosciuto gli stessi promulgatori di quelle leggi.
Io penso che questo servirebbe anche ad impedire che una generazione più giovane sia come obnubilata da un’idea di vendetta e di continuazione. E’ un rischio che corrono tutti i paesi dove ci sono stati fenomeni di lotta armata sconfitti non con un allargamento ma con un restringimento delle libertà, e poi con la manipolazione e la calunnia. Se si vuole evitare che questo filone alimenti la rabbia e che ci siano giovani generosi, anche se sprovveduti, che prendono le pistole in mano, il migliore antidoto è che i protagonisti di questa generazione tragica ma certamente molto motivata siano liberi nelle città italiane, perché la loro stessa presenza permette di ridimensionare quegli anni ed è in qualche modo garanzia che episodi disperati, colpi di coda tipici di una società che non ha riconosciuto né risolto i suoi problemi, non si ripetano. Se una società non è in grado di riflettere sul suo recente passato, quel passato è destinato a ritornare.

Due sono le etichette celebri che riguardano l’affaire Moro. La prima riguarda le “operazioni di parata” con le quali il procuratore Pascalino definì le indagini di polizia che si incentrarono sugli indiscriminati ed inutili posti di blocco invece che su operazioni di “intelligence”. Erano davvero impreparate le forze dell’ordine di fronte ad un evento letteralmente “straordinario” o vi fu dolo?
Il dolo presupporrebbe un disegno preventivo, ed io trovo ridicole queste teorie dietrologico-cospirative. Le trovavo ridicole allora e a maggior ragione le trovo ridicole a distanza di 30 anni. Sono cresciuto incontrando queste storie di colpi di Stato quando il partito in cui ero, il PCI, stava li ad agitarle come si agita il rosso davanti al toro. Una tale sciocchezza… La verità è che la società italiana è incapace di un disegno autoritario serio e per mettere in piedi una restaurazione autoritaria bisogna avere una certa capacità. E il ceto politico italiano è completamente incapace. Ora non ci poniamo neanche il problema, ma negli anni ’70 un colpo di Stato era totalmente inattuale, perché i nostri Generali non erano in grado di fare un colpo di Stato. Il colpo di Stato è una cosa seria. Che ci sia qualcuno che abbia mosso le fila di tutto lo scontro sociale, almeno nei suoi aspetti radicali e armati, è talmente ridicolo conoscendo il nostro Paese…
La cosa vera è che le istituzioni italiane, i partiti, non si erano neanche accorte di cosa gli stava succedendo sotto i piedi ed in fondo alcuni di questi che hanno preso le armi erano figli di Ministri, di uomini di partito e quindi era qualcosa che avevano in casa e non aver capito che il loro figlio, finita la cena usciva per fare un agguato, testimonia della separazione abissale che esisteva fra il livello istituzionale e ciò che accadeva tra i giovani in quegli anni.

L’altra etichetta celebre fu da lei stesso attribuita alla precisione con la quale le BR condussero l’agguato di via Fani definendola “geometrica potenza”. L’espressione ha dato luogo a diverse interpretazioni più o meno dietrologiche perché c’è anche chi ha inteso nelle sue parole l’allusione all’intervento di forze militari esterne alle BR. Da dove proviene e quale è il significato preciso di quella “geometrica potenza”?
C’è un elemento propriamente spettacolare in tutti i tirannicidi e in tutti gli agguati. Il fatto di avere limitato i morti al numero strettamente necessario, di non aver per esempio colpito il fioraio che stava lì all’angolo al quale la notte prima erano state tagliate le gomme… Questa efficienza propriamente geometrica perchè è fatta di misura nelle azioni e nelle loro conseguenze, che aveva un aspetto bello e terribile come accade quando in mezzo c’è la morte.

Quale era all’epoca il suo giudizio politico sull’operazione Moro? E, se era negativo, lei o altri militanti dell’area dell’Autonomia tentaste di “contrastare” il progetto brigatista? Con quali risultati?
E’ lo stesso di quello attuale. Il mio giudizio era pubblico perché furono pubblicati da diversi giornali i documenti con le nostre prese di posizione di allora. Se è evidente che c’era un’opera di disintossicazione nel dire che i brigatisti erano dei delinquenti da parte delle BR c’è stato un formidabile errore politico nello spostare lo scontro sul terreno militare su cui era evidente che era impossibile vincere. Non c’è bisogno del tempo per capirlo, era evidente anche allora. Non aveva alcuna consistenza la possibilità di vincere proprio portando lo scontro sul livello militare. E lì Cossiga è stato abile perché il Ministro dell’Interno di allora puntava a spingere sullo scontro. E questo, a mio parere, anche se non ci fossero state le BR, come dimostra il caso di Giorgiana Masi,. Come un grande provocatore. Ovviamente lo faceva con un senso dello Stato tutto sardo e piemontese di uccidere i nemici prima che diventino grandi…
C’è stata un’obiettiva convergenza ma non nel senso che le BR fossero d’accordo con Cossiga, il che è ridicolo, ma nel senso che l’errore delle BR ha facilitato la strategia di Cossiga. Io penso, ad oggi, che se non ci fossero state le BR magari avrebbe usato… Comunione e Liberazione. Ovviamente è una battuta. Ma resta il fatto che il Ministro era talmente deciso in questa sua strategia che indubbiamente era intelligente, anche se assai costosa dal punto di vista della sofferenza.

All’epoca del caso Moro lei e Pace cercaste, con l’intervento dei socialisti, di evitare l’uccisione di Moro attraverso una soluzione umanitaria. Claudio Signorile, in un’intervista del 2001 a Claudio Sabelli Fioretti, ha fatto una considerazione molto precisa: «Ti dico una cosa che susciterà anche qualche polemica. Conoscendo Piperno penso che lui fosse convinto di poter governare le cose. Franco è molto ambizioso e autoreferente. Credeva di poter gestire le contraddizioni all’interno delle Br orientandole verso uno sbocco politico, la scarcerazione di Moro. Piperno non faceva un’operazione umanitaria bensì politica all’interno dell’area dell’Autonomia…». “Gestire le contraddizioni all’interno delle Br”? In quale maniera?
C’era un vero dibattito politico, per quanto sembri strano, e certo un dibattito politico più leale di quello che avveniva a colpi di coltello dietro la schiena nella DC o nel PCI. Conoscevo alcuni brigatisti da prima della loro scelta di praticare la lotta armata. Moretti non lo conoscevo e non l’ho incontrato durante il rapimento Moro. Poichè non sono uno sciocco e capivo, per quanto impreparati fossero e per quanto mi fidassi della lealtà dell’On. Signorile, che mi sarei prestato ad essere un facile bersaglio, per prudenza mi sono ben guardato dall’incontrarli. Quindi si è trattato di dibattiti e documenti scritti, la maggior parte dei quali furono sequestrati. Alcuni dei brigatisti venivano da Potere Operaio ed alcuni erano miei amici ed io ero convinto che un ragionamento lucido li avrebbe aiutati nelle decisioni. Peraltro penso che sia andata così perché c’era all’interno delle BR la linea che voleva rimandare, se non altro, l’esecuzione della condanna. Questa linea c’è stata e che sappia io si trattava in gran parte di compagni che provenivano da Potere Operaio. Quindi l’idea pubblica, cioè quello di dire le cose pubblicamente, era quella giusta. La gente poteva ragionare, decidere e caso mai non accettare. Noi abbiamo adottato in quelle settimane questa strategia ma non ce l’abbiamo fatta e anche se per alcuni versi ho avuto molti guai personali, per altri sono contento di averci tentato.

Se, come sostiene Signorile, Fanfani avesse dichiarato “Dobbiamo prendere in seria considerazione le ragioni dell’atto umanitario” le Br avrebbero davvero ritenuto quella dichiarazione un passo sufficiente per non uccidere Moro?
Sono sicuro, sono sicuro. Anche se è probabile, come ha detto poco tempo fa l’On. Signorile, che Fanfani avesse già comunicato che lui non poteva farla e l’avrebbe fatta fare a Bartolomei che era un esponente autorevole in quanto braccio destro di Fanfani. La storiella che ci sarebbe stata una dichiarazione il giorno dopo a livello di Direzione della DC naturalmente può essere stata una decisione autonoma dei democristiani. Ma l’accordo informale che aveva mediato Signorile era che ci sarebbe stato entro domenica 7 maggio, in uno dei comizi, un chiaro intervento di un dirigente della DC. La dichiarazione di Bartolomei fu una specie di scilinguagnolo. Qualcuno che aveva seguito le cose poteva comprendere che c’era un accenno di apertura alla trattativa, ma era una dichiarazione talmente ingarbugliata che non servì a convincere Moretti e gli altri a non uccidere Moro. Fanfani lo sapeva che questa era l’ultima chance che veniva data.

E’ possibile che le cose siano andate a monte proprio perché qualcuno, venuto a conoscenza degli accordi dell’8 sera tra Signorile e Fanfani, costrinse i brigatisti ad accelerare l’esecuzione del prigioniero?
Mi pare un’ipotesi un po’ rocambolesca. Per quello che so io era chiaro già dall’inizio di maggio che questa era l’unica possibilità, era stato detto più volte. Mutare in una situazione talmente tesa le cose, cioè accordarsi personalmente, era senza significato. Una telefonata tra Signorile e Fanfani sarebbe stata totalmente ininfluente proprio perché si era deciso di giocare tutto in una dimensione pubblica. Questo anche se nessuno l’avesse registrata. Mi sembra una tipica spiegazione ad hoc italiana, miserevole anche quando è fatta in buona fede. L’idea che qualcuno abbia controllato le telefonate e abbia dato ordini ai brigatisti… I brigatisti si muovevano semplicemente sulla base della sicurezza dei loro rapporti e di quello schema organizzativo abbastanza impenetrabile che erano le BR. Certamente non avevano infiltrati o informatori nei Servizi Segreti. Mi sembra un modo di sfuggire alle proprie responsabilità.

Perché, secondo lei, a tanti anni di distanza nessuno vuole ancora fare il nome del padrone di casa che ospitò l’incontro tra Moretti, lei e Pace nel suo attico alle spalle di piazza Cavour poco dopo l’assassinio di Aldo Moro?
Semplicemente perché non è morto. Come ho già detto uno può parlare di queste cose e sforzare la sua memoria magari prendendo un po’ di fosforo, sempre ammesso che io localizzi perfettamente l’appartamento, solo se il diretto interessato e coloro che hanno organizzato l’incontro non avessero conseguenze di nessun genere.

Dalla prigione di Poissy, Carlos ha recentemente raccontato una vicenda che aveva già avuto modo di accennare in due interviste del 2000. L’8 maggio del ’78 un gruppo di agenti del SISMI che Carlos definisce “patriottici anti-NATO” aveva preparato un blitz per liberare alcuni brigatisti in carcere e trasportarli in aereo a Beirut dove il col. Giovannone e alcuni membri dell’FPLP erano pronti a condurli in un Paese che li avrebbe potuti ospitare. Ma la sortita fallì a causa della soffiata che un dirigente dell’OLP che informò la stazione della NATO a Beirut. Cosa ne pensa? Ritiene che la fazione morotea interna ai servizi fosse così forte da poter pensare di attuare un’iniziativa così “azzardata”?
Non sono al corrente delle dichiarazioni di Carlos e, se devo dire la verità, non sono uno specialista di queste cose per le quali spesso provo una noia profonda.
Quello che ha detto mi pare del tutto irrilevante. Quello che è successo in Italia ha talmente tante spiegazioni nel clima italiano che fosse anche passato da Roma in via Fani, Carlos, non è lì che si deve trovare la spiegazione di quello che è successo.
Si tratta proprio di cambiare piano. Dopo di che si può esaminare tutto, anche Carlos. Ma prima occorre riposizionare le cose sul giusto piano.

E quale è il piano giusto?
In Italia c’è stata una rivolta sociale ai limiti dell’insurrezione e dentro questo movimento ci sono state anche organizzazioni armate, cosa peraltro tipica nella storia, che commettendo un catastrofico errore politico anche dal loro punto di vista, hanno spostato lo scontro sul terreno della lotta armata e quindi della risposta militare. A quel punto la cosa era abbastanza risucchiata in questo attrattore della violenza militare che si poteva solo perdere. Le cose sono andate così, anche se naturalmente si può sempre continuare a dire che non c’è chiarezza perché ci sono dettagli che non tornano. In realtà ancora oggi non si sa se il pugnale che ammazzò Cesare era stato fabbricato da un artigiano di Pompei o da uno di Sovra… In Italia ci sono tanti misteri ma la cosa più misteriosa è l’attività della stampa italiana, oltre che dei nostri politici, impegnata a crearne degli altri, anche quando non ci sono. Per alcuni aspetti anche il caso Calabresi soffre di questa sindrome.