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Il linciaggio di Calabresi secondo Pansa
Pubblichiamo un capitolo di "Il revisionista", di Giampaolo Pansa (Rizzoli,
474 pagine, 21 euro) in libreria da mercoledì 20 maggio.
La sera di lunedì 15 dicembre 1969, dopo aver trasmesso il mio articolo a
Torino, stavo a casa di un collega, Corrado Stajano. Dovevamo mettere a punto il
progetto di un libro che poi sarebbe uscito da Guanda nel maggio 1970: Le bombe
di Milano. Era passata da poco la mezzanotte quando un'ansia insolita mi spinse
a telefonare all'ufficio della Stampa, in piazza Cavour.
Rispose Gino Mazzoldi, il capo della redazione. Era molto turbato e mi disse:
«Un anarchico è caduto da una finestra della questura. L'ha visto Aldo Palumbo,
il cronista dell'Unità. Pare l'abbiano portato all'ospedale Fatebenefratelli. Mi
sono segnato il nome: Pino Pinelli. Vive con la famiglia in via Preneste».
Corremmo a chiamare la zia di Stajano, che abitava nella casa vicina: Camilla
Cederna, una delle star dell'Espresso. Lei se n'era già andata a dormire e la
tirammo giù dal letto. Mise un cappotto sulla camicia da notte e corse con noi
all'ospedale per capire che cosa fosse successo. Pinelli era già morto, ma stava
ancora sulla barella. Una coperta di lana marrone lo nascondeva quasi per
intero. Chiedemmo di poterlo vedere e un medico ci rispose che era vietato.
Allora ci precipitammo all'indirizzo di via Preneste. Case popolari
d'anteguerra, un luogo povero, l'intonaco dei muri scrostato come per una
lebbra. Suonammo il campanello e la porta si aprì di poco, appena uno spiraglio.
Intravidi per la prima volta Licia Pinelli, la moglie di Pino. Era una donna
giovane, dal bel viso, l'espressione dolce e forte. Indossava una vestaglietta e
ci scrutò senza dir nulla.
Le domandammo di lasciarci entrare in casa, ma lei si rifiutò. Poi ci disse
poche parole, senza un tremito né un pianto. Più di un mese dopo, quando la
intervistai, mi avrebbe spiegato: «Io non piango in pubblico. I miei sentimenti
sono soltanto miei».
Non potevo saperlo, ma quella visita mi portò dentro il cuore dei misteri di
Milano. Il mistero si presentava con due volti. Uno era dell'anarchico Pinelli,
morto cadendo dal quarto piano in un'aiuola della questura: qualche cespuglio
stento e un po' di neve sporca, la sua tomba.
L'altro era del commissario di polizia Luigi Calabresi, il funzionario
mandato a fermarlo la sera della strage di piazza Fontana. Anche Calabresi era
destinato a morire, dopo una campagna di odio senza precedenti in Italia. Quella
campagna ebbe una bandiera del disonore: il manifesto contro di lui, firmato da
ottocento eccellenze della cultura, dell'università, del sindacato, della
politica, del cinema e del giornalismo.
Avrei dovuto sottoscriverlo anch'io il manifesto contro il commissario
Calabresi, definito torturatore e assassino dell'anarchico Pinelli. Ero
incalzato da colleghi che mi chiedevano la firma. E tra costoro ce n'erano
parecchi che non sapevano quasi nulla della strage del 12 dicembre e di quel che
era accaduto dopo.
Questi zelanti cercatori di firme si erano sempre occupati d'altro, di
politica internazionale, di cultura, di sport. Ma avevano letto e leggevano i
giornali giusti: quelli di sinistra e soltanto quelli. E ritenevano di conoscere
tutto dell'attentato e della fine di Pinelli.
Le loro certezze erano tre. Prima certezza: la strage alla Banca
dell'Agricoltura era stata compiuta dai fascisti per distruggere quel poco di
democrazia che ancora resisteva in Italia. Seconda certezza: d'accordo con i
neri, la polizia voleva addossare la colpa del massacro agli anarchici. Terza
certezza: nell'ambito di questo complotto, Calabresi aveva ucciso Pinelli con un
colpo di karate al collo e poi l'aveva scaraventato dalla finestra. Per far
pensare a un suicidio e avvalorare la pista anarchica.
Quei colleghi mi mettevano sotto gli occhi il racconto del delitto pubblicato
da Vie Nuove, il settimanale del Pci. Era una descrizione minuziosa di quanto
era avvenuto nella stanza dell'Ufficio politico della questura la sera del 15
dicembre: Pinelli morente per il colpo di karate sotto la nuca, lo smarrimento
rabbioso dei cinque poliziotti che lo circondano, la decisione di scaraventarlo
dalla finestra... Un vero pezzo di bravura. Peccato che fosse falso, dall'inizio
alla fine. Eppure terminava con queste parole: «A voler essere franchi, e senza
dire niente di nuovo, ma solo a cucire assieme le mezze notizie, Giuseppe
Pinelli è morto così».
In realtà, Pinelli non aveva mai ricevuto nessun colpo di karate. A
stabilirlo con certezza fu l'autopsia. Ma i giornali di sinistra seguitarono a
scrivere che quel colpo mortale c'era stato. E di lì partì una campagna
mostruosa di disinformazione, di bugie costruite sul nulla, di falsità spacciate
per verità assolute. Una follia collettiva, destinata a sfociare in un
assassinio.
Quali erano questi giornali bugiardi? Me li ricordo bene. E li rammenta con
precisione anche Gemma Capra, la vedova del commissario Calabresi. Nel libro
dedicato al marito, la signora disse con schiettezza: la campagna non fu il
giornale di Lotta Continua a iniziarla, bensì il quotidiano del Psi Avanti!, il
quotidiano del Pci l'Unità e il suo settimanale Vie Nuove. A queste testate devo
aggiungere L'Espresso, il ferro di lancia della campagna di stampa contro
Calabresi, soprattutto grazie alla penna di Camilla Cederna, esperta di costume
e scrittrice brillante.
Quella campagna sfociò in una grande raccolta di firme contro Calabresi. Ne
parlerò più avanti, ma voglio mettere nero su bianco quel che ho sempre pensato:
il manifesto che la proponeva e i tantissimi vip di sinistra che lo firmarono mi
sono rimasti nella memoria come l'episodio più degradante dei mesi che seguirono
la strage di piazza Fontana.
Senza rendersene conto, e di certo senza volerlo, con le loro firme quei
personaggi diedero un avallo al successivo assassinio di Calabresi. Sarebbe
ingiusto dire che ne chiesero la condanna a morte. Ma di certo si trovarono a
far da coro ai killer che l'avrebbero accoppato.
Mi rifiutai sempre di firmare quel testo. Per due ragioni. La meno importante
è che di solito non aderisco ad appelli, a petizioni pubbliche, a dichiarazioni
collettive. Non mi va di ritrovarmi al fianco di persone che non conosco. E poi
il mio nome voglio spenderlo in calce ai miei scritti, articoli o libri che
siano. Da quando ho iniziato a lavorare nei giornali, ho firmato migliaia di
testi. Buoni o cattivi non lo so, ma tutti farina del mio sacco.
Il secondo motivo, ben più pesante, era che mi ripugnava la descrizione di
Calabresi: «il commissario torturatore» e «il responsabile della fine di Pinelli».
Se ripenso al me stesso di quel tempo, rammento che non avevo certezze
granitiche. Tuttavia ritenevo che nelle stanze della questura di Milano non si
torturasse nessuno. E che non si usasse gettare dalle finestre i fermati.
Nessun poliziotto poteva essere così stupido da commettere due delitti nel
proprio ufficio, correndo il rischio di essere scoperto un minuto dopo. Però non
conoscevo quel che era accaduto la sera del 15 dicembre in via Fatebenefratelli.
Questo mi obbligava a essere cauto. E a non sposare nessuna tesi. Meno che mai
quella affermata dal manifesto che mi chiedevano di sottoscrivere.
Le insistenze per avere la mia firma furono molte. Anche perché ero l'inviato
della Stampa a Milano e sin dal primo giorno avevo scritto di piazza Fontana e
poi di quanto era avvenuto dopo. Avevo seguito tutta la vicenda legata
all'arresto di Pietro Valpreda, avevo intervistato la signora Pinelli e prima di
lei il tassista Cornelio Rolandi. Quest'ultimo seguitò a giurarmi di aver
portato Valpreda verso piazza Fontana, attorno all'ora della strage e con una
borsa in mano.
In quegli anni, tra la fine del 1969 e il 1972, tirava un'aria pessima a
Milano. Un'aria che puzzava di faziosità spietata, di furibondo partito preso,
di certezze proclamate con il sangue agli occhi, di dubbi rifiutati con
disprezzo. E se non ti accodavi alla maggioranza dei giornalisti che aggrediva
Calabresi, qualche prezzo eri costretto a pagarlo.
Le accuse erano sempre le stesse: ti schieri con i fascisti, cerchi i favori
della polizia, fai del giornalismo prezzolato, non ti riconosciamo più... Ma ero
giovane, avevo il sostegno della mia testata, di Ronchey, di Casalegno, di
Giovannini, ed ero certo di fare il mio lavoro in modo corretto. Di tutto il
resto non m'importava nulla.
A rendere ostinato il mio rifuto, esisteva poi una serie di fatti che adesso
rammenterò.
La tempesta che avrebbe annientato Calabresi cominciò subito, a pochi giorni
dalla morte di Pinelli. E iniziò con una grandinata di bugie. Dopo l'inesistente
colpo di karate, si scrisse che il commissario era un agente della Cia ed era
stato addestrato negli Stati Uniti. Ma il commissario non era mai andato in
America. E neppure poteva essere l'uomo di fiducia di un generale americano
sospettato di golpismo, un'altra accusa fantastica.
Quindi entrarono in scena i grossi calibri di Lotta Continua, il gruppo
leader della campagna di linciaggio. Calabresi aveva querelato il loro giornale,
che gli rispose con una violenza mai vista prima. Lotta Continua se ne sbatteva
del processo. E spiegò che il proletariato avrebbe emesso il proprio verdetto e
lo avrebbe eseguito in piazza: «Sappiamo che l'eliminazione di un poliziotto non
libererà gli sfruttati. Ma è questa, sicuramente, una tappa fondamentale
dell'assalto dei proletari contro lo Stato assassino».
Davanti a quella promessa di morte, Calabresi si scoprì inerme. Dopo la sua
querela, ben quarantaquattro redazioni di riviste politiche e culturali, e tra
loro alcune cattoliche, sottoscrissero un documento di solidarietà a Lotta
Continua. E i pochi disposti a difendere il commissario si trovarono anch'essi
sotto la tempesta. Per mia fortuna, La Stampa di Ronchey non si accodò mai a
questa corrida nauseante. Anche se a Torino, dentro la redazione, erano in
parecchi a pensarla come i lottacontinua.
C'è un libro che rievoca nei dettagli quel che accadde in quel tempo nei
giornali italiani: "L'eskimo in redazione". L'ha scritto un collega coraggioso e
ben documentato: Michele Brambilla, oggi vicedirettore del Giornale. Ha avuto
tre edizioni: la prima nel 1991 per l'Ares di Milano, la seconda con Bompiani
nel 1993 e la terza per Mondadori nel 1998. Ed è servito anche a me per
precisare questi ricordi.
Brambilla rammenta un'altra tappa del linciaggio di Calabresi. Il 3 luglio
1970, il giudice istruttore Antonio Amati, su conforme richiesta del pubblico
ministero Giovanni Caizzi, concluse l'inchiesta sulla morte di Pinelli
affermando che non esistevano gli estremi per promuovere un'azione penale nei
confronti di qualcuno. E questo scatenò contro i due magistrati milanesi la
stampa di sinistra.
L'Espresso pubblicò una dichiarazione firmata dal padre della psicanalisi
italiana, Cesare Musatti, e da altri cattedratici. Dicevano che la sentenza di
Amati aveva ucciso la fiducia nella giustizia. E ribadivano che Pinelli era
stato assassinato. Non c'erano prove per affermarlo, ma che cosa importava ai
firmatari dell'appello?
A proposito di Lotta Continua e del fascino che esercitava anche su ambienti
che avrebbero dovuto restare lontani dalle sue follie, Brambilla rievoca quel
che accadde a Torino nell'ottobre 1971. La procura della Repubblica aveva
denunciato per istigazione a delinquere dei militanti di Lotta Continua.
Insorsero in loro difesa cinquanta vip, disposti persino a controfirmare
l'impegno di quegli attivisti a iniziare una lotta armata.
Infatti le ultime righe della lettera aperta dicevano: «Quando essi si
impegnano a "combattere un giorno con le armi in pugno contro lo Stato fino alla
liberazione dai padroni e dallo sfruttamento", ci impegniamo con loro». I nomi
dei firmatari stanno nel libro di Brambilla. Mi sono domandato se dovevo
trascriverne qualcuno. Poi mi sono risposto di no.
Molti di costoro stanno ancora in campo. E forse si saranno vergognati di
aver avallato quella voglia di terrorismo che, a partire dall'anno successivo,
cominciò ad angosciare l'Italia. Ma tra un istante qualche nome lo farò.
Infatti la parata firmaiola più spettacolare, di ben ottocento eccellenti, fu
quella che dilagò sulle pagine dell'Espresso, per tre settimane, a partire dal
13 giugno 1971. Era il documento che avrei dovuto firmare anch'io, contro
Calabresi «commissario torturatore» e «responsabile della fine di Pinelli».
Nella parata sfilavano tanti vip della cultura di sinistra. Dai filosofi ai
registi, dai pittori agli editori, dagli storici agli scienziati, dagli
architetti agli scrittori, dai politici ai sindacalisti, sino a un buon numero
di giornalisti.
Anche in questo caso i nomi li troverete nel libro di Brambilla. E oggi anche
in calce all'ultimo lavoro di Adriano Sofri, "La notte che Pinelli", pubblicato
da Sellerio nel gennaio 2009. Qualche firmaiolo stavolta lo cito: Norberto
Bobbio, Federico Fellini, Bernardo Bertolucci, Pier Paolo Pasolini, Vito Laterza,
Giulio Einaudi, Inge Feltrinelli, Gae Aulenti, Paolo Portoghesi, Alberto
Moravia, Toni Negri, Umberto Terracini, Giorgio Amendola, Paolo Spriano, Lucio
Villari, Margherita Hack, Dario Fo, Giorgio Benvenuto, Pierre Carniti, Ugo
Gregoretti, Paolo e Vittorio Taviani, Eugenio Scalfari, Giorgio Bocca, Furio
Colombo, Carlo Rognoni, Morando Morandini, Nello Ajello, Enzo Golino, Giuseppe
Turani.
Ho riletto quell'elenco sterminato reagendo in due modi. Il primo è lo
stupore per le tante intelligenze che gettavano alle ortiche la loro sapienza. E
si accodavano a una barbara caccia all'uomo.
Il secondo è la cattiveria divertita. Perché tra gli ottocento ho ritrovato
non pochi dei maestroni autoritari che, in questi ultimi anni, mi hanno dato
burbanzose piattonate in testa per i libri revisionisti. Penso a Scalfari e al
suo aristocratico fastidio per i miei lavori. Penso a Bocca e alle ingiurie che
mi ha riservato. Penso a Furio Colombo quando dirigeva l'Unità. Penso a Lucio
Villari, ma di lui racconterò in seguito.
E mi sono detto: forse dovrebbero revisionare il loro passato. E pentirsi del
sostegno offerto alle nefandezze di quegli anni. Tra gli ottocento c'è chi lo ha
fatto e in pubblico. Ma sono stati pochi, davvero pochi.
Nel frattempo, Calabresi e la sua famiglia stavano percorrendo una via crucis
orrenda. Manifesti su tutti i muri di Milano e di molte città italiane:
Calabresi wanted, ricercato, con l'indicazione della somma che toccherà in
premio a chi lo cattura. Promesse di morte urlate nei cortei: Calabresi sarai
suicidato. Insulti: il commissario Finestra, il commissario Cavalcioni. Vignette
carogna: il poliziotto che insegna alla figlia come tagliare la testa alla
bambola anarchica con una piccola ghigliottina.
Una bufera di lettere anonime, spedite all'indirizzo di casa. Telefonate
orribili. Centinaia di articoli per indicarlo al disprezzo e alla sacrosanta
vendetta. Il processo intentato contro Lotta Continua che diventa una mattanza
per il querelante, in un clima da Colosseo: tigri nell'arena giudiziaria e il
morituro che non può difendersi. Quando Calabresi fu promosso commissario capo,
Milano venne tappezzata di nuovi manifesti che lo mostravano con le mani
grondanti sangue. Lo slogan gridava: «Così lo Stato assassino premia i suoi
sicari».
Odio allo stato puro. Quello di cui ci lamentiamo oggi è un dispetto da asilo
infantile. Calabresi fu obbligato a fare la cavia di una tecnica distruttiva
tipica dei poteri autoritari. Lotta Continua e i maestroni che la
fiancheggiavano si riempivano la bocca di parole come democrazia, rispetto
dell'uomo, giustizia. Ma si comportavano come i nazisti e i comunisti sovietici.
Con prepotenza isterica, sparavano menzogne con la stessa violenza che le
Brigate Rosse avrebbero poi imitato sparando pallottole.
Prima che dai proiettili del suo killer, Calabresi venne accoppato giorno
dopo giorno da una parte della stampa, da migliaia di manifesti, da centinaia di
comizi, da molti spettacoli teatrali. Era una tempesta di fango che non
proveniva soltanto da Lotta Continua, ma da una cerchia molto più vasta.
Con sgomento, nelle parate firmaiole ritrovavo anche insegnanti che erano
stati i miei. Intellettuali di cui mi fidavo. Scrittori che amavo. Direttori di
giornali per i quali avrei poi lavorato.
In seguito, il terrorismo generato dalla sinistra rivoluzionaria non ha
dovuto inventarsi nulla. Ha soltanto reso più rapido e più nefando questo metodo
di linciaggio. I volantini diffusi dalle Brigate Rosse dopo ogni delitto
mettevano in pratica il metodo usato contro Calabresi: cancellare la figura e la
storia della vittima, per offrire al disprezzo pubblico un fantoccio sconcio.
Il commissario aveva una famiglia salda che non si lasciò travolgere. E una
giovane moglie che sarà il suo scudo più forte. Ma continuava a pensare ai
sottufficiali che erano con lui la notte della morte di Pinelli. E qualche
settimana prima di essere ucciso mi dirà: «La loro vita, i sacrifici delle loro
mogli può immaginarseli... Ringraziando Dio, ho trovato in me stesso, nei miei
principi, nell'educazione che ho ricevuto, la forza di superare questa prova».
E ancora: «Da due anni sto sotto questa tempesta. Lei non può immaginare che
cosa ho passato e che cosa sto passando. Se non fossi cristiano, se non credessi
in Dio, non so come potrei resistere. Non posso più fare un passo. È bastato che
mi vedessero uscire dall'obitorio dove era stato portato il corpo di Feltrinelli
per sostenere che avevo già cominciato a trafficare attorno al cadavere
dell'editore, con i candelotti di dinamite».
Stavamo parlando nell'ufficio di Antonino Allegra, il capo della sezione
politica della questura milanese. Chiesi a Calabresi se avesse paura. Rispose:
«Paura no perché ho la coscienza tranquilla. Però è terribile lo stesso. Potrei
farmi trasferire, ma da Milano non voglio andarmene. No, non ho paura. Ogni
mattina esco di casa tranquillo. Vado al lavoro sulla mia Cinquecento, senza
pistola e senza protezioni. Perché dovrei proteggermi? Sono un commissario di
polizia».
Quel giorno ebbi la sensazione di avere di fronte un uomo braccato da chi
vuole annientarlo. Una preda che sente stringersi attorno a sé la trappola
preparata per dargli la morte.
Allegra ascoltava Calabresi in silenzio. Poco prima avevamo discusso dei
piccoli nuclei di terroristi rossi che, mese dopo mese, prendevano forza e
diventavano più aggressivi. Allegra sospirò: «Speriamo che non comincino a
sparare sui poliziotti».
Il 17 maggio 1972, all'età di trentaquattro anni, il commissario senza
pistola venne assassinato. Lotta Continua aveva eseguito la sentenza emessa
all'inizio del 1970. Saranno stati felici i tanti firmatari del verdetto? Non lo
so e non m'interessa saperlo.
Quello che so è che non ho difeso Calabresi come avrei dovuto. E provo
vergogna di me stesso.
Giampaolo Pansa (Il Riformista, 17 maggio 2009)
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