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Il Brigatismo di ritorno
16/04/2007 - Il Corriere della Sera - Alberto Ronchey
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Nuovi terroristi, un fenomeno solo italiano
IL BRIGATISMO DI RITORNO

Quel messaggio propagato tramite un sito Internet, rivolto ai neobrigatisti da un loro presunto ideologo in carcere, come ha potuto raggiungere la rete? Si tratta di quattro pagine datate aprile 2007 che incitano i seguaci a persistere nella cospirazione, uscite da una cella d’isolamento del penitenziario di Monza. Spuntano sul web anche messaggi d’altri arrestati a febbraio.

È in corso un’inchiesta, forse avremo risposte o forse no. Sta di fatto che in Italia il brigatismo, dopo quattro generazioni, può disporre ancora di proseliti e complici. Negli anni 70, fenomeni simili erano insorti anche all’interno di altre democrazie. Poi erano scomparsi. Nella Bundesrepublik , da tempo, s’è dissolto il terrorismo della Rote Armee Fraktio n. In Italia, tuttora, la sedizione che uccide ritorna con episodi ricorrenti. Eppure, nei motivi pubblicizzati della «lotta armata» si ripetono manifeste contraddizioni.

Dall’inizio delle loro sfide, negli anni 70, i brigatisti si dichiararono in guerra con uno Stato repressivo nel quale tuttavia non esisteva la pena di morte, ma con particolare tenacia infliggevano quella pena e hanno continuato a infliggerla per lunghi anni ai rappresentanti o collaboratori di quello stesso Stato. Nel 1978 non esitarono a «giustiziare» Aldo Moro, nell’85 Ezio Tarantelli, nel ’99 Massimo D’Antona, nel 2002 Marco Biagi. Ora, mentre il 12 febbraio si sventavano altri previsti attentati con gli arresti seguiti all’indagine della Procura di Milano, venivano anche scoperti arsenali clandestini: Kalashnikov, Uzi, perfino una mitraglietta Skorpion come quella che uccise Moro. Il pm Ilda Boccassini ripete: «Abbiamo salvato vite umane».

Altra patente contraddizione. Come quelli delle origini, i neobrigatisti presumono che non ci sia differenza tra un ordinamento di democrazia definito liberale, una dittatura sudamericana e un autoritarismo di impronta fascista, perché sarebbero tutte in qualche modo strutture oppressive malgrado variabili apparenze o definizioni. Eppure, quando vengono arrestati, spesso reclamano per sé proprio quelle sostanziali garanzie che distinguono lo Stato di diritto e di democrazia liberale svalutato nelle loro premesse. Si dichiarano persino «prigionieri politici», ma vogliono ignorare che storicamente il terrorismo rivoluzionario fu solo e sempre l’extrema ratio contro spietate tirannie straniere o nazionali.

E ancora, i brigatisti accusano il sistema dell’informazione d’essere assolutamente manipolato. Eppure, tendono a usarlo con ogni possibile sensazionalismo a scopi di reclutamento. Come quando operano nelle maggiori aree sociali di conflittualità e turbolenze, indirizzate a qualsiasi contestazione, per favorire la deflagrazione dell’evento da prima pagina. L’intento è usare i media per divulgare la loro esasperata interpretazione ideologica dei rapporti sociali, persino sperando di provocare quel fenomeno che Trotskij definiva «il corto circuito della dittatura», presupposto d’ogni strategia rivoluzionaria.

Ma in Italia, dal ’45 in poi, anche in drammatiche circostanze come la sfida degli «anni di piombo», non abbiamo visto mai nemmeno l’ombra d’una dittatura. Rimane da spiegare perché, mentre il terrorismo di baschi o irlandesi motivato da particolari condizioni storiche tende a esaurirsi, noi soli tra gli europei dobbiamo temere un terrorismo endogeno-ideologico insieme a quello esogeno-islamico.