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Nel 1980 i Carabinieri potevano salvare Walter Tobagi.
27/09/2008 - L'Opinione delle Libertà - Dimitri Buffa
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Nel 1980 i Carabinieri potevano salvare Walter Tobagi.
Nuove testimonianze nel processo d’appello ai giornalisti Renzo Magosso e Umberto Brindani

Un processo per diffamazione intentato al giornalista Renzo Magosso e al settimanale “Gente” diretto da Umberto Brindani riapre il caso dell’omicidio di Walter Tobagi e delle avvisaglie di quell’attentato che erano note agli inquienti dell’epoca svariati mesi prima di quel terribile 28 maggio del 1980.La storia del terrorista confidente dei carabinieri di Milano, Rocco Ricciardi, personaggio a cavallo tra le Br e Prima Linea, era già nota da tempo ed era stata anche oggetto di memorabili sedute nella indimenticabile Commissione Stragi presieduta da Giovanni Pellegrino. In particolare di Ricciardi e di alcuni retroscena delle indagini sugli assassini di Tobagi aveva parlato il generale Nicolò Bozzo, uno degli uomini di punta della squadra di Carlo Alberto Dalla Chiesa. Ed erano state parole dure riservate ai suoi superiori della caserma Pastrengo di Milano, che, secondo quanto ha sempre ribadito lo stesso Bozzo, ancora nel 2007 alla presentazione del “libro bianco sul caso Tobagi”, guardavano male il potere e le indagini di Dalla Chiesa sul terrorismo rosso e le ostacolavano burocraticamente in mille maniere. Per esempio facendo “mobbing” ai suoi collaboratori. Come lo stesso Bozzo. All’epoca peraltro buona parte dell’Arma aveva ai propri vertici elementi che nel marzo 1981 apparvero negli elenchi della famigerata Loggia P2 di Licio Gelli.

Fatto sta che queste cose rievocate prima in un libro di Magosso e poi in un servizio su “Gente” alla fine hanno portato a una serie di querele per diffamazione. E a una prima condanna in primo grado al tribunale di Monza. Pochi giorni fa però, nel processo d’appello a Milano contro Magosso e Brindani, ecco un colpo di scena che è poi stato oggetto anche di una interrogazione parlamentare del deputato radicale Elisabetta Zamparutti: i querelati citano come teste a loro favore proprio il generale Bozzo il quale si presenta in aula e dice che “l’Arma lo aveva costretto ad aggiustare la propria deposizione sulle indagini successive all’omicidio Tobagi”. Ma Bozzo stavolta non si limita alle parole e porta in aula anche un documento riservato di cui era ancora in possesso dopo 28 e passa anni che dimostrerebbe proprio tutte le sue dichiarazioni. Il documento in questione era stato preparato dai superiori dell’epoca di Bozzo e in esso inequivocabilmente gli si chiedeva di dare una versione “concordata” sul pentimento di Barbone. Che non sarebbe stato colto da pentimento spontaneo 4 mesi dopo il delitto, come è passato alla storia giudiziaria d’Italia, ma pedinato insieme alla sua compagna dell’epoca Caterina Rosenzweig fin da poco dopo l’omicidio. “In particolare – si legge in quelle carte - si raccomandava a Bozzo di rispondere, se interrogato al riguardo, che Barbone aveva confessato spontaneamente senza che su di lui vi fossero prove di alcun genere circa l’omicidio Tobagi.”

“Ma nello stesso documento – scrivono i Radicali nell’interpellanza - si attesta una verità diversa, dato che vi si afferma che in data 5 giugno 1980, cioè una settimana dopo l’omicidio, iniziano i pedinamenti del Barbone e a tale data risale anche la prima relazione di servizio”. “Si tratta di una smentita clamorosa della verità ufficiale, per come sinora conosciuta”, affermano i giornalisti querelati. “In particolare – secondo l’interpellanza Zamparutti - viene smentita la posizione della Procura milanese, la quale ha sempre affermato che la confessione e collaborazione di Barbone era da ritenersi eccezionale, inaspettata e spontanea (tanto da avergli guadagnato eccezionali benefici giudiziari ed evitato pesanti condanne), essendo ufficialmente avvenuta solo dopo ben 4 mesi dalla data di inizio dei pedinamenti e controlli a suo carico quale sospetto per l’omicidio Tobagi”. Barbone quindi fu probabilmente indotto a collaborare sottobanco prima del pentimento. E il prezzo del pentimento, oltre alla libertà, potrebbe avere compreso l’esclusione del nome della Rosenzweig dagli arresti successivi. Una storia abbastanza simile a quella avvenuta con Leonardo Marino nel caso Calabresi prima delle accuse a Sofri. E peraltro una prassi di polizia giudiziaria sempre costante nelle indagini di terrorismo, probabilmente anche prima del pentimento di Patrizio Peci: si individuava grazie agli informatori il “soggetto debole”, lo si avvicinava, gli si faceva un’offerta che non poteva rifiutare e poi si portava a termine la messinscena del “pentimento”.

Nella interpellanza viene richiamata la testimonianza di un sottufficiale dell’Arma dei carabinieri, Dario Covolo, detto “Ciondolo”, all’epoca incaricato di tenere i rapporti con un il suddetto informatore nei gruppi armati della sinistra, Rocco Ricciardi. “Sulla base delle confidenze del terrorista – scrivono i deputati radicali - Covolo avvisò i suoi superiori di un progetto di attentato contro Tobagi sei mesi prima dell’attentato, senza che venissero però presi adeguati provvedimenti per salvargli la vita”. Quindi nessuno avvisò Tobagi. Perché? La versione di Bozzo è che all’epoca i suoi superiori facevano “cose strane”, che poi lui rilegge ex post sulla base dell’appartenenza di alcuni di loro alla P2. Sergio Segio, ex capo militare di Prima Linea e adesso persona inserita nel volontariato nel gruppo “Libera” di Don Ciotti, ha una teoria più chiara: “ci hanno usati per ammazzare la gente che a loro non piaceva, ci hanno strumentalizzati e poi ci hanno arrestati quando faceva loro comodo, anche se potevano farlo molti anni prima”. E Segio queste “confessioni” le ha fatte, guarda caso, durante la presentazione del libro bianco su Tobagi a Milano nel 2007, presente proprio il generale dei carabinieri a riposo Nicolò Bozzo.

Dimitri Buffa (L'Opinione delle Libertà, 27 settembre 2008