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Brigate Rosse, ci vorrebbe una riconciliazione ``sudafricana``
Mancanza di memoria condivisa, pericolosità delle leggi speciali. In libreria "Terroristi italiani" di Luigi Manconi

02/09/2008 - Liberazione - Giuseppe Di Lello
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Brigate Rosse, ci vorrebbe una riconciliazione ``sudafricana``
Mancanza di memoria condivisa, pericolosità delle leggi speciali. In libreria "Terroristi italiani" di Luigi Manconi

 

 

Con il suo libro sul terrorismo delle Brigate rosse, Terroristi Italiani - Le Brigate Rosse e la guerra totale

1970 - 2008 (Rizzoli, pp.360, euro 18,50) Luigi Manconi ci riporta su questioni che ci assillano con la loro attualità, date anche le ultime "imprese", dagli efferati omicidi di Massimo D'Antona e Marco Biagi, agli sporadici proclami di sedicenti Avanguardie di resistenza antimperialista (che vedono addirittura nel "popolo dell'Islam" un nuovo proletariato internazionale e un nuovo fronte di lotta) fino ad alcuni arresti del settembre del 2007.

Molte le questioni: perché terrorismo italiano e perché in Italia, quale continuità tra le vecchie e le nuove Br, cosa si è fatto per contrastarlo, quali prezzi ha pagato lo stato di diritto, se e come sia possibile chiudere definitivamente una fase storica lacerante che sembra non passare mai e per la quale tutti continuano a pagare un intuibile altissimo prezzo, a partire dai familiari delle vittime .

Terroristi "italiani" innanzitutto, per sgombrare il campo dalle dietrologie del coinvolgimento dei "servizi" di altri Paesi che potrebbero aver svolto un ruolo di depistaggio o impedimento di possibili differenti soluzioni (caso Moro), ma che nulla hanno avuto a che fare né con la nascita, né con una sorta di eterodirezione delle strategie della lotta armata.

Il "perché in Italia" trova le sue ragioni e le sue radici in un complesso di cause quali, innanzitutto, il "blocco del sistema" e la sua impermeabilità rispetto alle domande collettive con le conseguenti frustrazioni sociali in presenza di bisogni insoddisfatti. Ed, ancora, quella particolare "chiusura" del sistema politico-normativo, specie dopo la strage di Piazza fontana alla quale lo Stato non seppe né volle rispondere con gli strumenti di un diritto uguale per tutti come prescritto dalla Costituzione, ma anzi imboccò la strada delle leggi emergenziali, destinate a limitare e irrigidire gli spazi di espressione del dissenso radicale e della lotta politica antisistema. Da ciò, la "fine dell'innocenza" di quella generazione e la risposta di una assolutizzazione della lotta contro l'ingiustizia e la legittimazione morale e religiosa della "violenza giusta", che trovava terreno fertile anche in un elevato tasso di ideologizzazione, in una tendenza alla politicizzazione di tutte le sfere e le articolazioni della vita associata, nonché nell'epica della Resistenza e del comunismo, nella perpetuazione del Sessantotto e nell'influenza delle culture e dei movimenti sociali.

La evidente - ovviamente per le Br - impossibilità della via democratica per sbloccare il sistema e superare così i guasti sociali consequenziali, mi sembra la chiave di volta per una convincente interpretazione delle "ragioni" della lotta armata, così come il suo fallimento è da ricercare nella prevedibile tenuta del sistema stesso. Una risposta a questo dramma collettivo la trovo nella citazione di Umberto Saba nell'epigrafe del libro. Il poeta, nel 1945, chiedendosi come mai l'Italia non avesse avuto mai una sola vera rivoluzione da Roma a oggi, individuava negli italiani l'unico popolo che aveva alla base della loro storia un fratricidio e non un parricidio (Romolo e Remo, Ferruccio e Maramaldo, Mussolini e i socialisti, Badoglio e Graziani), concludendo come solo col parricidio (uccisione del vecchio) si potesse iniziare una rivoluzione. Le Br, invece, nella loro folle ed irrealizzabile strategia di uccisione del "vecchio" (il sistema di potere nella sua continuità storica), riuscirono ad essere solo fratricide scaricando, tra l'altro, la loro furia omicidiaria su soggetti votati più al servizio della democrazia che a quello dell'odiato sistema imperialista delle multinazionali.

Un altro tema del libro assolutamente condivisibile, è la continuità nella ricerca, da parte delle Br, di un collegamento con la fabbrica e gli operai. Pur nella individuazione di vari "nemici" - di volta in volta obbiettivi delle varie "campagne" - (nella prima fase la fabbrica, lo Stato, la repressione, il carcere, il cuore dello Stato, l'imperialismo e, nella seconda fase, il riformismo specificamente giuslavorista, con il ferimento di Gino Giugni e Antonio Da Empoli e gli omicidi Delcogliano, Tarantelli, Conti, Ruffilli, D'Antona e Biagi, nonché lo sventato attentato a Pietro Ichino) al centro della riflessione delle Br c'è la condizione operaia, una vocazione operista armata che è rimasta sempre dominante e che «nasce nelle fabbriche negli ani '70 per riemergere oggi nel contesto della precarizzazione del lavoro e dello sgretolamento di quella coscienza di classe che univa, invece, 30 anni fa, uomini e donne in battaglie comuni forse oggi impensabili».

La condizione operaia, precarizzata e frantumata, porterebbe oggi le nuove Br a tentare una ulteriore scorciatoia, ricollegandosi idealmente, come si è detto, al nuovo "proletariato internazionale", il popolo dell'Islam: credo che la folle idea preconizzante una rivolta popolare e di massa come conseguenza della lotta armata, si perpetui nella previsione di una palingenesi determinata da una rivoluzione islamica tesa, tra l'altro, alla affermazione di un modello di società che, dove si è realizzato, ai "comunisti" ha sempre riservato il carcere o il plotone d'esecuzione.

Un lungo periodo segnato dalla violenza non poteva non avere conseguenze negative, ovvie sia per i protagonisti che per le istituzioni. Non c è dubbio che la lotta armata, oltre a coinvolgere i militanti a tempo pieno, aveva "contaminato" molti altri che, come ricorda autocriticamente l'autore, avevano vissuto in quella fase il "sogno di una cosa" e conosciuto, specie dopo la palese impunità delle stragi, "una educazione non democratica" come unica via possibile alla democrazia. Non da meno si era comportato lo Stato e Manconi analizza le contraddizioni delle strategie di contrasto al terrorismo adottate sin dagli anni '70. Strategie riemerse purtroppo oggi con la normalizzazione di normative di eccezione e deroghe significative a diritti e libertà altrove dichiarati come inviolabili: un cliché ben sperimentato che dovrebbe convincerci della pericolosità, oltre che della inutilità, di leggi che servono solo a far arretrare permanentemente, e non eccezionalmente, il sistema delle garanzie.

Ma questa prevalenza della ragion di Stato sui principi dello Stato di diritto non ha soltanto determinato torsioni nel sistema democratico del nostro Paese che, come detto, riemergono oggi di fronte ad emergenze divenute permanenti. Di più, ha impedito l'elaborazione del lutto collettivo e la ricomposizione della frattura sociale prodotta dalla lotta armata di quegli anni, una frattura che trova motivi di contesa politica, come è capitato l'anno scorso, persino sulla scelta del giorno da dedicare alla memoria delle vittime delle stragi: e ciò forse perché, secondo Manconi, su quei lutti collettivi non è mai stata fatta luce fino in fondo.

Il non aver fatto i conti con quell'esperienza è una delle cause principali del clima di scontro che si riaccende periodicamente ogni qual volta si torna a parlare della ricerca di una via di uscita dagli anni di piombo: una soluzione che non si può pensare di trovare senza la ricostruzione di una memoria storica comune e di una verità condivisa e che non può venirci dai soli processi giudiziari.

Il pensiero corre allora all'unica, riuscita esperienza della Commissione per la verità e la riconciliazione istituita in Sudafrica nel 1995 che, come ricorda Manconi, ha permesso di chiudere il dramma dell'apartheid ascoltando le vittime o i loro parenti: un bisogno d'ascolto che qui, in Italia, è fortemente sentito da questi ultimi e che potrebbe davvero aiutarci a percorrere il cammino che porta alla riconciliazione come ben dimostra il bel libro di Mario Calabresi Spingendo la notte più in là .

La Commissione sudafricana ha dimostrato che esiste un'altra giustizia che ha la forma e la forza della ricostruzione collettiva del passato e che questa, a volte, è la sola forma di pacificazione possibile. Anche qui da noi, pur mancando le gigantesche figure morali e politiche di un Nelson Mandela o di un Desmond Tutu, si dovrebbe riflettere su questa giustizia altra, che si fonda non sulla pena e sulla vendetta, ma sull'esigenza umana, politica e sociale, di una condivisa ricostruzione della verità e della memoria. Questo è il messaggio di Luigi Manconi che, con il suo libro, dà un rilevante contributo ad una tale ricostruzione.

Giuseppe Di Lello - Liberazione - 02/09/2008