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Salvare vite non è una resa. Lettera di Piero Fassino al Corriere
Il caso Mastrogiacomo e il caso Moro: analogie e differenze. La linea della fermezza allora, quella della trattativa oggi

02/04/2007 - Corriere della Sera - Piero Fassino
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Caro Direttore,

una mia riflessione sul rapimento di Aldo Moro ha suscitato il commento di Sergio Romano, con le cui considerazioni (ieri sul Corriere) vorrei interloquire. Premettendo che le mie parole non avevano nulla di strumentale: non è per giustificare la trattativa per la liberazione di Daniele Mastrogiacomo che mi sono chiesto se sia stato giusto arrivare al supremo sacrificio della vita di Aldo Moro.

Ho vissuto la terribile stagione del terrorismo a Torino che, per il suo valore simbolico di città Fiat e città operaia, fu assunta dalle Br come uno degli epicentri della loro offensiva. Il rapimento di Aldo Moro fu l’apice di quella lugubre stagione. E, superando iniziali reticenze e incertezze, la reazione democratica non poté che essere dura e intransigente. Ne fui partecipe e non mi sottraggo certo oggi alla responsabilità di aver condiviso la linea della fermezza. Ma ciò non mi impedisce, a trent’anni di distanza, di chiedermi se l’intransigenza di una giusta linea politica richiedesse obbligatoriamente l’accettazione del sacrificio di una vita. Si dice: «Se per Moro si fosse trattato, lo Stato avrebbe dato un segnale di resa ai terroristi».

Allora, nel vivo di uno scontro durissimo, condivisi questa impostazione. Oggi sono meno sicuro. Non sta scritto, infatti, che una trattativa per salvare una vita umana debba necessariamente comportare la resa alle ragioni di chi a quella vita attenta. Non credo affatto che se avessimo ottenuto la liberazione di Moro, la nostra lotta al terrorismo sarebbe diventata poi meno intransigente. Né credo che sarebbe aumentato il consenso verso i terroristi. E, insieme alla vita di un uomo, avremmo forse anche salvato la Repubblica da una lacerazione politica e istituzionale che negli anni successivi avrebbe prodotto conseguenze dirompenti. In guerra — e quella con il terrorismo era una vera guerra — lo scambio di prigionieri è procedura contemplata e a cui si ricorre senza che nessuno dei contendenti rinunci alle proprie ragioni e riduca la propria determinazione nel conflitto. D’altra parte vorrà pure dir qualcosa che, dopo l’epilogo tragico della vicenda Moro, per tutti i rapimenti successivi — dal giudice D’Urso all’assessore Cirillo — si sia adottata una linea assai più flessibile, puntando alla liberazione con il ricorso a trattative o a intermediazioni.

E in anni più recenti ogni volta che un giornalista, un cooperante di Ong, un tecnico professionale sono stati rapiti in Cecenia, in Somalia, in Iraq, in Afghanistan, in Nigeria, si è scelto sempre di privilegiare l’obiettivo umanitario e di salvare una vita. E lo si è fatto senza mutare le scelte politiche o gli impegni militari a cui l’Italia era tenuta. La liberazione delle due Simone, cosicché come di Giuliana Sgrena, non hanno mutato l’impegno dell’Italia in Iraq. Così come la liberazione di Mastrogiacomo non ha ridotto le nostre responsabilità verso l’Afghanistan: duemila soldati italiani erano lì prima del rapimento e duemila soldati italiani sono lì anche oggi, ad assolvere con determinazione il mandato loro affidato da Onu e Nato. D’altra parte, a conferma che una linea umanitaria non è così priva di senso, è significativo che durante i rapimenti — quando la vittima è nelle mani dei suoi carnefici—nessuno osa contestare la ricerca di contatti e l’avvio di trattative con i rapitori. Il punto non è, dunque, se trattare o no, ma come salvare una vita senza che questa scelta alteri o stravolga la coerenza di una linea politica e gli impegni per la stabilità, la sicurezza e la pace che il nostro Paese è chiamato ad assolvere.

Piero Fassino