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Violenza, errori e memoria. Cosa sono stati gli anni ‘70
23/10/2009 - La Repubblica - Simonetta Fiori
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Violenza, errori e memoria. Cosa sono stati gli anni ‘70
"Le ragioni di un decennio" di Giovanni De Luna, storico e ex militante di Lotta Continua
"Lo Stato riconosca il proprio coinvolgimento nelle stragi terroristiche", è l’invito dell’autore esteso a tutti i protagonisti di quella stagione

Anni Settanta, il passato che non passa. Un decennio irrisolto, schiacciato inesorabilmente nella sua declinazione plumbea, ancora oggi invocato a sproposito come un fantasma molesto. A questa iconografia granitica, alimentata prima dal silenzio più tardi dall’«epica brigatista» e ancora da «un’ipertrofia della memoria» che travolge la conoscenza storica, tenta di porre rimedio il volume di Giovanni De Luna, Le ragioni di un decennio. 1969-1979. Militanza, violenza, sconfitta, memoria (Feltrinelli, pagg. 254, euro 17, con le fotografie di Dario Lanzardo). Già il titolo, a ricalco di un celebre libro di Paolo Spriano, rivela la natura insolita dell’impianto, né solo saggio storico né autobiografia. Oltre che studioso contemporaneista, De Luna è anche un ex militante di Lotta Continua, che oggi decide di misurarsi senza indulgenza con quell’evo così complicato, con la deriva violenta ma anche con le modalità più innovative dell’impegno politico. Allo sguardo del testimone s’affianca così la lente dello storico, fino a produrre un’analisi disincantata del decennio. Il risultato è una fotografia lucida di un’occasione perduta, ferma nel ritrarre le potenziali energie che affluivano dal movimento ma anche i gravi errori di Lotta Continua e ferma nel denunciare le zone grigie di uno Stato che ancora evita di fare i conti con le sue ambiguità.

Perché il decennio dei Settanta è una storia che non passa? Il libro prende spunto dai morti dimenticati, espulsi dalla memoria pubblica. Militanti di sinistra che non erano del Pci o del Psi, non terroristi né poliziotti né vittime del terrorismo. I nomi sono quelli di Tonino Miccichè, Francesco Lo Russo, l’anarchico Franco Serantini e molti altri ancora, tutti «dediti con passione e generosità alla causa degli ultimi»: tutte vittime innocenti di una mano che è rimasta impunita. Così come non è mai stato trovato un colpevole in chiave giudiziaria per nessuna delle stragi riconducibili alla strategia della tensione: undici carneficine, centocinquanta morti, seicentocinquantadue feriti rimasti senza giustizia. Quel che ne ricava lo studioso è che «lo Stato ha rinunziato a fare luce ogni volta che si sospettava un coinvolgimento dei suoi apparati». Un grado di coinvolgimento su cui si potrà pronunciare soltanto lo storico del futuro, essendo stato finora impedito l’accesso alle carte e agli archivi. Se il passato dunque non passa - è una delle tesi del libro - è anche perché l’opinione pubblica non ha mai potuto penetrare «il cuore nero della storia repubblicana» simboleggiato dai morti rimasti senza giustizia.

Fu proprio il «dilatarsi patologico» della sfera dell’invisibile a creare un disagio diffuso verso le istituzioni democratiche. Una sfiducia estesa in larghi strati della collettività, tra studenti, giornalisti e intellettuali. Più che alla teoria del doppio Stato e della doppia lealtà, lo studioso preferisce richiamarsi a Norberto Bobbio, il quale teorizzava l’esistenza in tutte le democrazie di una dose fisiologica di arcana imperi, ma anche la necessità di contenere il più possibile la «simulazione» e «l’inganno» insite nella segretezza. Gli esordi di quel decennio furono invece segnati da una «pesante opacità», che finì per rendere «indecifrabili» e «inquietanti» le istituzioni dello Stato democratico. Era fondato questo senso diffuso di ostilità? Non peccava di ingenuità e di enfasi allarmistica? Lo storico - forte del senno di poi - non lo esclude. Però non può neppure trascurare i segnali sinistri che allora scuotevano le coscienze.

L’ansia di verità - in formazioni politiche come Lotta Continua - si coniugò con quella che lo studioso definisce una «rigidezza dottrinale ossessiva», con «giudizi politici superficiali» («il fanfascismo» o la «fascistizzazione dello Stato»), con «impazienze esistenziali», con la sostanziale incapacità di comprendere cosa stava avvenendo nelle pieghe più profonde della società italiana («la forza pervasiva dei mercati», «l’universalizzazione delle tecniche informatiche», «la marcata omologazione dei consumi e degli stili di vita», «il nuovo ruolo delle grandi banche e delle società multinazionali»). «Nessuno di questi scenari fu nemmeno intuito», scrive De Luna. «Rinchiusi nel Novecento, Lotta Continua e gli altri movimenti nati dal Sessantotto vi lessero solo ed esclusivamente una sorta di resa della democrazia e si consegnarono interamente al passato, affacciandosi con una sorta di impotente subalternità all’esplosione di violenza che nella seconda metà degli anni Settanta insanguinò la lotta politica».

Tra «concorrenza» alle Brigate Rosse e «netta alternativa» oscillò quella formazione, evocata fin dal primo congresso di Rimini (aprile 1972) nelle sue tonalità cupe ed aggressive. Riaffiorano i titoli del quotidiano, che festeggiano l’assassinio di Oberdan Sallustro, il dirigente della Fiat Concord ammazzato dai guerriglieri argentini. È questo il contesto in cui matura «la martellante campagna di stampa contro Luigi Calabresi, che fa da sfondo al delitto del commissario». Da «un compagno non può averlo fatto» si passa rapidamente «a un compagno può averlo fatto e, se lo ha fatto, ha fatto bene». Poi il pendolo prese ad oscillare in direzione opposta, ma «la virata fu troppo brusca, troppo poco elaborata, troppo verticistica perché Lotta Continua fosse in grado di interpretare con efficacia il suo nuovo ruolo di avversario dichiarato del terrorismo nascente». Il resto è storia nota.

Il passato può passare - è la conclusione di De Luna - soltanto se ciascuno oggi è disposto ad assumersene la responsabilità, sul modello della commissione sudafricana su Verità e Riconciliazione. «Lo Stato riconosca il proprio coinvolgimento nelle stragi terroristiche», è l’invito dello storico, ma l’esortazione andrebbe estesa a tutti i protagonisti di quella stagione. «Imparare a perdonare», scrive Hannah Arendt, «vuol dire fare in modo che la vita vada avanti». Ma per perdonare occorre che vi sia chi si assuma la responsabilità di quelle derive. E perché il passato possa passare è anche necessario che sulla troppa memoria prevalga la storia, la reale conoscenza d’una stagione di sconfitte, rispetto alla quale Le ragioni di un decennio può essere considerato un prezioso contributo.

Simonetta Fiori (la Repubblica, venerdì 23 ottobre 2009)