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Il linciaggio di Calabresi secondo Pansa
17/05/2009 - Il Riformista - Giampaolo Pansa
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Il linciaggio di Calabresi secondo Pansa

Pubblichiamo un capitolo di "Il revisionista", di Giampaolo Pansa (Rizzoli, 474 pagine, 21 euro) in libreria da mercoledì 20 maggio.

La sera di lunedì 15 dicembre 1969, dopo aver trasmesso il mio articolo a Torino, stavo a casa di un collega, Corrado Stajano. Dovevamo mettere a punto il progetto di un libro che poi sarebbe uscito da Guanda nel maggio 1970: Le bombe di Milano. Era passata da poco la mezzanotte quando un'ansia insolita mi spinse a telefonare all'ufficio della Stampa, in piazza Cavour.

Rispose Gino Mazzoldi, il capo della redazione. Era molto turbato e mi disse: «Un anarchico è caduto da una finestra della questura. L'ha visto Aldo Palumbo, il cronista dell'Unità. Pare l'abbiano portato all'ospedale Fatebenefratelli. Mi sono segnato il nome: Pino Pinelli. Vive con la famiglia in via Preneste».

Corremmo a chiamare la zia di Stajano, che abitava nella casa vicina: Camilla Cederna, una delle star dell'Espresso. Lei se n'era già andata a dormire e la tirammo giù dal letto. Mise un cappotto sulla camicia da notte e corse con noi all'ospedale per capire che cosa fosse successo. Pinelli era già morto, ma stava ancora sulla barella. Una coperta di lana marrone lo nascondeva quasi per intero. Chiedemmo di poterlo vedere e un medico ci rispose che era vietato.

Allora ci precipitammo all'indirizzo di via Preneste. Case popolari d'anteguerra, un luogo povero, l'intonaco dei muri scrostato come per una lebbra. Suonammo il campanello e la porta si aprì di poco, appena uno spiraglio. Intravidi per la prima volta Licia Pinelli, la moglie di Pino. Era una donna giovane, dal bel viso, l'espressione dolce e forte. Indossava una vestaglietta e ci scrutò senza dir nulla.

Le domandammo di lasciarci entrare in casa, ma lei si rifiutò. Poi ci disse poche parole, senza un tremito né un pianto. Più di un mese dopo, quando la intervistai, mi avrebbe spiegato: «Io non piango in pubblico. I miei sentimenti sono soltanto miei».

Non potevo saperlo, ma quella visita mi portò dentro il cuore dei misteri di Milano. Il mistero si presentava con due volti. Uno era dell'anarchico Pinelli, morto cadendo dal quarto piano in un'aiuola della questura: qualche cespuglio stento e un po' di neve sporca, la sua tomba.

L'altro era del commissario di polizia Luigi Calabresi, il funzionario mandato a fermarlo la sera della strage di piazza Fontana. Anche Calabresi era destinato a morire, dopo una campagna di odio senza precedenti in Italia. Quella campagna ebbe una bandiera del disonore: il manifesto contro di lui, firmato da ottocento eccellenze della cultura, dell'università, del sindacato, della politica, del cinema e del giornalismo.

Avrei dovuto sottoscriverlo anch'io il manifesto contro il commissario Calabresi, definito torturatore e assassino dell'anarchico Pinelli. Ero incalzato da colleghi che mi chiedevano la firma. E tra costoro ce n'erano parecchi che non sapevano quasi nulla della strage del 12 dicembre e di quel che era accaduto dopo.

Questi zelanti cercatori di firme si erano sempre occupati d'altro, di politica internazionale, di cultura, di sport. Ma avevano letto e leggevano i giornali giusti: quelli di sinistra e soltanto quelli. E ritenevano di conoscere tutto dell'attentato e della fine di Pinelli.

Le loro certezze erano tre. Prima certezza: la strage alla Banca dell'Agricoltura era stata compiuta dai fascisti per distruggere quel poco di democrazia che ancora resisteva in Italia. Seconda certezza: d'accordo con i neri, la polizia voleva addossare la colpa del massacro agli anarchici. Terza certezza: nell'ambito di questo complotto, Calabresi aveva ucciso Pinelli con un colpo di karate al collo e poi l'aveva scaraventato dalla finestra. Per far pensare a un suicidio e avvalorare la pista anarchica.

Quei colleghi mi mettevano sotto gli occhi il racconto del delitto pubblicato da Vie Nuove, il settimanale del Pci. Era una descrizione minuziosa di quanto era avvenuto nella stanza dell'Ufficio politico della questura la sera del 15 dicembre: Pinelli morente per il colpo di karate sotto la nuca, lo smarrimento rabbioso dei cinque poliziotti che lo circondano, la decisione di scaraventarlo dalla finestra... Un vero pezzo di bravura. Peccato che fosse falso, dall'inizio alla fine. Eppure terminava con queste parole: «A voler essere franchi, e senza dire niente di nuovo, ma solo a cucire assieme le mezze notizie, Giuseppe Pinelli è morto così».

In realtà, Pinelli non aveva mai ricevuto nessun colpo di karate. A stabilirlo con certezza fu l'autopsia. Ma i giornali di sinistra seguitarono a scrivere che quel colpo mortale c'era stato. E di lì partì una campagna mostruosa di disinformazione, di bugie costruite sul nulla, di falsità spacciate per verità assolute. Una follia collettiva, destinata a sfociare in un assassinio.

Quali erano questi giornali bugiardi? Me li ricordo bene. E li rammenta con precisione anche Gemma Capra, la vedova del commissario Calabresi. Nel libro dedicato al marito, la signora disse con schiettezza: la campagna non fu il giornale di Lotta Continua a iniziarla, bensì il quotidiano del Psi Avanti!, il quotidiano del Pci l'Unità e il suo settimanale Vie Nuove. A queste testate devo aggiungere L'Espresso, il ferro di lancia della campagna di stampa contro Calabresi, soprattutto grazie alla penna di Camilla Cederna, esperta di costume e scrittrice brillante.

Quella campagna sfociò in una grande raccolta di firme contro Calabresi. Ne parlerò più avanti, ma voglio mettere nero su bianco quel che ho sempre pensato: il manifesto che la proponeva e i tantissimi vip di sinistra che lo firmarono mi sono rimasti nella memoria come l'episodio più degradante dei mesi che seguirono la strage di piazza Fontana.

Senza rendersene conto, e di certo senza volerlo, con le loro firme quei personaggi diedero un avallo al successivo assassinio di Calabresi. Sarebbe ingiusto dire che ne chiesero la condanna a morte. Ma di certo si trovarono a far da coro ai killer che l'avrebbero accoppato.

Mi rifiutai sempre di firmare quel testo. Per due ragioni. La meno importante è che di solito non aderisco ad appelli, a petizioni pubbliche, a dichiarazioni collettive. Non mi va di ritrovarmi al fianco di persone che non conosco. E poi il mio nome voglio spenderlo in calce ai miei scritti, articoli o libri che siano. Da quando ho iniziato a lavorare nei giornali, ho firmato migliaia di testi. Buoni o cattivi non lo so, ma tutti farina del mio sacco.

Il secondo motivo, ben più pesante, era che mi ripugnava la descrizione di Calabresi: «il commissario torturatore» e «il responsabile della fine di Pinelli». Se ripenso al me stesso di quel tempo, rammento che non avevo certezze granitiche. Tuttavia ritenevo che nelle stanze della questura di Milano non si torturasse nessuno. E che non si usasse gettare dalle finestre i fermati.

Nessun poliziotto poteva essere così stupido da commettere due delitti nel proprio ufficio, correndo il rischio di essere scoperto un minuto dopo. Però non conoscevo quel che era accaduto la sera del 15 dicembre in via Fatebenefratelli. Questo mi obbligava a essere cauto. E a non sposare nessuna tesi. Meno che mai quella affermata dal manifesto che mi chiedevano di sottoscrivere.

Le insistenze per avere la mia firma furono molte. Anche perché ero l'inviato della Stampa a Milano e sin dal primo giorno avevo scritto di piazza Fontana e poi di quanto era avvenuto dopo. Avevo seguito tutta la vicenda legata all'arresto di Pietro Valpreda, avevo intervistato la signora Pinelli e prima di lei il tassista Cornelio Rolandi. Quest'ultimo seguitò a giurarmi di aver portato Valpreda verso piazza Fontana, attorno all'ora della strage e con una borsa in mano.

In quegli anni, tra la fine del 1969 e il 1972, tirava un'aria pessima a Milano. Un'aria che puzzava di faziosità spietata, di furibondo partito preso, di certezze proclamate con il sangue agli occhi, di dubbi rifiutati con disprezzo. E se non ti accodavi alla maggioranza dei giornalisti che aggrediva Calabresi, qualche prezzo eri costretto a pagarlo.

Le accuse erano sempre le stesse: ti schieri con i fascisti, cerchi i favori della polizia, fai del giornalismo prezzolato, non ti riconosciamo più... Ma ero giovane, avevo il sostegno della mia testata, di Ronchey, di Casalegno, di Giovannini, ed ero certo di fare il mio lavoro in modo corretto. Di tutto il resto non m'importava nulla.

A rendere ostinato il mio rifuto, esisteva poi una serie di fatti che adesso rammenterò.

La tempesta che avrebbe annientato Calabresi cominciò subito, a pochi giorni dalla morte di Pinelli. E iniziò con una grandinata di bugie. Dopo l'inesistente colpo di karate, si scrisse che il commissario era un agente della Cia ed era stato addestrato negli Stati Uniti. Ma il commissario non era mai andato in America. E neppure poteva essere l'uomo di fiducia di un generale americano sospettato di golpismo, un'altra accusa fantastica.

Quindi entrarono in scena i grossi calibri di Lotta Continua, il gruppo leader della campagna di linciaggio. Calabresi aveva querelato il loro giornale, che gli rispose con una violenza mai vista prima. Lotta Continua se ne sbatteva del processo. E spiegò che il proletariato avrebbe emesso il proprio verdetto e lo avrebbe eseguito in piazza: «Sappiamo che l'eliminazione di un poliziotto non libererà gli sfruttati. Ma è questa, sicuramente, una tappa fondamentale dell'assalto dei proletari contro lo Stato assassino».

Davanti a quella promessa di morte, Calabresi si scoprì inerme. Dopo la sua querela, ben quarantaquattro redazioni di riviste politiche e culturali, e tra loro alcune cattoliche, sottoscrissero un documento di solidarietà a Lotta Continua. E i pochi disposti a difendere il commissario si trovarono anch'essi sotto la tempesta. Per mia fortuna, La Stampa di Ronchey non si accodò mai a questa corrida nauseante. Anche se a Torino, dentro la redazione, erano in parecchi a pensarla come i lottacontinua.

C'è un libro che rievoca nei dettagli quel che accadde in quel tempo nei giornali italiani: "L'eskimo in redazione". L'ha scritto un collega coraggioso e ben documentato: Michele Brambilla, oggi vicedirettore del Giornale. Ha avuto tre edizioni: la prima nel 1991 per l'Ares di Milano, la seconda con Bompiani nel 1993 e la terza per Mondadori nel 1998. Ed è servito anche a me per precisare questi ricordi.

Brambilla rammenta un'altra tappa del linciaggio di Calabresi. Il 3 luglio 1970, il giudice istruttore Antonio Amati, su conforme richiesta del pubblico ministero Giovanni Caizzi, concluse l'inchiesta sulla morte di Pinelli affermando che non esistevano gli estremi per promuovere un'azione penale nei confronti di qualcuno. E questo scatenò contro i due magistrati milanesi la stampa di sinistra.

L'Espresso pubblicò una dichiarazione firmata dal padre della psicanalisi italiana, Cesare Musatti, e da altri cattedratici. Dicevano che la sentenza di Amati aveva ucciso la fiducia nella giustizia. E ribadivano che Pinelli era stato assassinato. Non c'erano prove per affermarlo, ma che cosa importava ai firmatari dell'appello?

A proposito di Lotta Continua e del fascino che esercitava anche su ambienti che avrebbero dovuto restare lontani dalle sue follie, Brambilla rievoca quel che accadde a Torino nell'ottobre 1971. La procura della Repubblica aveva denunciato per istigazione a delinquere dei militanti di Lotta Continua. Insorsero in loro difesa cinquanta vip, disposti persino a controfirmare l'impegno di quegli attivisti a iniziare una lotta armata.

Infatti le ultime righe della lettera aperta dicevano: «Quando essi si impegnano a "combattere un giorno con le armi in pugno contro lo Stato fino alla liberazione dai padroni e dallo sfruttamento", ci impegniamo con loro». I nomi dei firmatari stanno nel libro di Brambilla. Mi sono domandato se dovevo trascriverne qualcuno. Poi mi sono risposto di no.

Molti di costoro stanno ancora in campo. E forse si saranno vergognati di aver avallato quella voglia di terrorismo che, a partire dall'anno successivo, cominciò ad angosciare l'Italia. Ma tra un istante qualche nome lo farò.

Infatti la parata firmaiola più spettacolare, di ben ottocento eccellenti, fu quella che dilagò sulle pagine dell'Espresso, per tre settimane, a partire dal 13 giugno 1971. Era il documento che avrei dovuto firmare anch'io, contro Calabresi «commissario torturatore» e «responsabile della fine di Pinelli». Nella parata sfilavano tanti vip della cultura di sinistra. Dai filosofi ai registi, dai pittori agli editori, dagli storici agli scienziati, dagli architetti agli scrittori, dai politici ai sindacalisti, sino a un buon numero di giornalisti.

Anche in questo caso i nomi li troverete nel libro di Brambilla. E oggi anche in calce all'ultimo lavoro di Adriano Sofri, "La notte che Pinelli", pubblicato da Sellerio nel gennaio 2009. Qualche firmaiolo stavolta lo cito: Norberto Bobbio, Federico Fellini, Bernardo Bertolucci, Pier Paolo Pasolini, Vito Laterza, Giulio Einaudi, Inge Feltrinelli, Gae Aulenti, Paolo Portoghesi, Alberto Moravia, Toni Negri, Umberto Terracini, Giorgio Amendola, Paolo Spriano, Lucio Villari, Margherita Hack, Dario Fo, Giorgio Benvenuto, Pierre Carniti, Ugo Gregoretti, Paolo e Vittorio Taviani, Eugenio Scalfari, Giorgio Bocca, Furio Colombo, Carlo Rognoni, Morando Morandini, Nello Ajello, Enzo Golino, Giuseppe Turani.

Ho riletto quell'elenco sterminato reagendo in due modi. Il primo è lo stupore per le tante intelligenze che gettavano alle ortiche la loro sapienza. E si accodavano a una barbara caccia all'uomo.

Il secondo è la cattiveria divertita. Perché tra gli ottocento ho ritrovato non pochi dei maestroni autoritari che, in questi ultimi anni, mi hanno dato burbanzose piattonate in testa per i libri revisionisti. Penso a Scalfari e al suo aristocratico fastidio per i miei lavori. Penso a Bocca e alle ingiurie che mi ha riservato. Penso a Furio Colombo quando dirigeva l'Unità. Penso a Lucio Villari, ma di lui racconterò in seguito.

E mi sono detto: forse dovrebbero revisionare il loro passato. E pentirsi del sostegno offerto alle nefandezze di quegli anni. Tra gli ottocento c'è chi lo ha fatto e in pubblico. Ma sono stati pochi, davvero pochi.

Nel frattempo, Calabresi e la sua famiglia stavano percorrendo una via crucis orrenda. Manifesti su tutti i muri di Milano e di molte città italiane: Calabresi wanted, ricercato, con l'indicazione della somma che toccherà in premio a chi lo cattura. Promesse di morte urlate nei cortei: Calabresi sarai suicidato. Insulti: il commissario Finestra, il commissario Cavalcioni. Vignette carogna: il poliziotto che insegna alla figlia come tagliare la testa alla bambola anarchica con una piccola ghigliottina.

Una bufera di lettere anonime, spedite all'indirizzo di casa. Telefonate orribili. Centinaia di articoli per indicarlo al disprezzo e alla sacrosanta vendetta. Il processo intentato contro Lotta Continua che diventa una mattanza per il querelante, in un clima da Colosseo: tigri nell'arena giudiziaria e il morituro che non può difendersi. Quando Calabresi fu promosso commissario capo, Milano venne tappezzata di nuovi manifesti che lo mostravano con le mani grondanti sangue. Lo slogan gridava: «Così lo Stato assassino premia i suoi sicari».

Odio allo stato puro. Quello di cui ci lamentiamo oggi è un dispetto da asilo infantile. Calabresi fu obbligato a fare la cavia di una tecnica distruttiva tipica dei poteri autoritari. Lotta Continua e i maestroni che la fiancheggiavano si riempivano la bocca di parole come democrazia, rispetto dell'uomo, giustizia. Ma si comportavano come i nazisti e i comunisti sovietici. Con prepotenza isterica, sparavano menzogne con la stessa violenza che le Brigate Rosse avrebbero poi imitato sparando pallottole.

Prima che dai proiettili del suo killer, Calabresi venne accoppato giorno dopo giorno da una parte della stampa, da migliaia di manifesti, da centinaia di comizi, da molti spettacoli teatrali. Era una tempesta di fango che non proveniva soltanto da Lotta Continua, ma da una cerchia molto più vasta.

Con sgomento, nelle parate firmaiole ritrovavo anche insegnanti che erano stati i miei. Intellettuali di cui mi fidavo. Scrittori che amavo. Direttori di giornali per i quali avrei poi lavorato.

In seguito, il terrorismo generato dalla sinistra rivoluzionaria non ha dovuto inventarsi nulla. Ha soltanto reso più rapido e più nefando questo metodo di linciaggio. I volantini diffusi dalle Brigate Rosse dopo ogni delitto mettevano in pratica il metodo usato contro Calabresi: cancellare la figura e la storia della vittima, per offrire al disprezzo pubblico un fantoccio sconcio.

Il commissario aveva una famiglia salda che non si lasciò travolgere. E una giovane moglie che sarà il suo scudo più forte. Ma continuava a pensare ai sottufficiali che erano con lui la notte della morte di Pinelli. E qualche settimana prima di essere ucciso mi dirà: «La loro vita, i sacrifici delle loro mogli può immaginarseli... Ringraziando Dio, ho trovato in me stesso, nei miei principi, nell'educazione che ho ricevuto, la forza di superare questa prova».

E ancora: «Da due anni sto sotto questa tempesta. Lei non può immaginare che cosa ho passato e che cosa sto passando. Se non fossi cristiano, se non credessi in Dio, non so come potrei resistere. Non posso più fare un passo. È bastato che mi vedessero uscire dall'obitorio dove era stato portato il corpo di Feltrinelli per sostenere che avevo già cominciato a trafficare attorno al cadavere dell'editore, con i candelotti di dinamite».

Stavamo parlando nell'ufficio di Antonino Allegra, il capo della sezione politica della questura milanese. Chiesi a Calabresi se avesse paura. Rispose: «Paura no perché ho la coscienza tranquilla. Però è terribile lo stesso. Potrei farmi trasferire, ma da Milano non voglio andarmene. No, non ho paura. Ogni mattina esco di casa tranquillo. Vado al lavoro sulla mia Cinquecento, senza pistola e senza protezioni. Perché dovrei proteggermi? Sono un commissario di polizia».

Quel giorno ebbi la sensazione di avere di fronte un uomo braccato da chi vuole annientarlo. Una preda che sente stringersi attorno a sé la trappola preparata per dargli la morte.

Allegra ascoltava Calabresi in silenzio. Poco prima avevamo discusso dei piccoli nuclei di terroristi rossi che, mese dopo mese, prendevano forza e diventavano più aggressivi. Allegra sospirò: «Speriamo che non comincino a sparare sui poliziotti».

Il 17 maggio 1972, all'età di trentaquattro anni, il commissario senza pistola venne assassinato. Lotta Continua aveva eseguito la sentenza emessa all'inizio del 1970. Saranno stati felici i tanti firmatari del verdetto? Non lo so e non m'interessa saperlo.

Quello che so è che non ho difeso Calabresi come avrei dovuto. E provo vergogna di me stesso.

Giampaolo Pansa (Il Riformista, 17 maggio 2009)