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Andreotti apre l´archivio segreto. Carte e misteri
11/01/2009 - Repubblica - Filippo Ceccarelli
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Andreotti apre l´archivio segreto. Carte e misteri
Da Garibaldi al Caf, un secolo di storia. Da sempre il senatore conserva tutto di tutti: presto sarà pubblico

«Eh, dovrei guardare nel mio archivio...» mormorava spesso Giulio Andreotti, ospite fisso (e di solito assai deludente) nelle commissioni parlamentari d´inchiesta degli anni Ottanta: Sindona, P2, Moro, terrorismo e altre amenità del potere, «eh – ripeteva a labbra strette – dovrei controllare fra le mie carte...».

Così un giorno – pare di ricordare nel corso di un drammatico confronto con l´avvocato di Sindona – il presidente, il vecchio De Martino, si prese un attimo di libertà e chiese ad Andreotti del suo famoso, minaccioso, onnicomprensivo, favoleggiato, insomma del suo mitologico archivio, oggi finalmente visibile in foto.

E allora il Divo, che in realtà non aspettava altro, con trattenuta e sapiente gigioneria lasciò chiaramente intendere ai commissari della Sindona che sì, certo, figurarsi, c´era talmente tutto lì dentro, che l´Archivio di Stato, nientemeno, tramite il suo direttore generale, glielo aveva già chiesto diversi anni fa; non solo, ma questa anticipata prenotazione, per scaramanzia, l´aveva assai seccato: «Perciò gli ho detto che questi desideri, per ora, è bene che se li tengano per loro». E a questo punto parve ad alcuni di cogliere nel suo sguardo il più inconfondibile bagliore di vanità.

Ovvio che la pièce contribuì ad alimentare nell´ambiente e un po´ anche fuori il mito dell´archivio andreottiano. Invisibile entità che si collocava tra il divertente e l´intimidatorio, l´armadio dei misteri, la santabarbara della Repubblica, il sancta sanctorum dell´arcana imperii. Vero è che da quell´ineffabile giacimento zampillavano ogni tanto pezzi e pezzetti di storia patria, in genere secondo criteri abbastanza oscuri e motivazioni appena più decifrabili: una volta un documento che attestava come quel mangiapreti di Garibaldi avesse battezzato un figliolo; un´altra volta la foto di un assegno che dimostrava come sull´affare Giuffrè si fosse inutilmente montata da un ministro del Psdi una macchinazione contro Andreotti; una volta venne fuori un ciclo di intercettazioni telefoniche di ministri e gerarchi fascisti, su cui il fortunato possessore costruì un discreto romanzo, Operazione via Appia (Rizzoli, 1998): un altro spezzone di spionaggio telefonico era finito anni prima in un singolare volume, L´orecchio del regime (Mursia, 1973), con ancora più singolare prefazione di certo Giulio Romanotti. Un´altra volta, infine, era bastata un´allusione, qualcosa tipo «stavo giusto riguardandomi certi documenti sul caso Montesi...», per far correre un brivido su diverse schiene democristiane, in primis su quella breve, ma possente dell´eterno rivale, Amintore Fanfani, che sull´affare della povera Wilma, annegata a Torvaianica, aveva costruito la successione a De Gasperi.

Insomma Andreotti non solo conservava tutto di tutti, ma come ogni acuto e malizioso documentalista conosceva e nel caso applicava anche la suprema verità cartacea: che con il passare del tempo il materiale d´archivio cambia età e natura, libera simboli e irradia costellazioni di senso, acquista energia e luminosità, non di rado offrendo all´immaginario la più spiccata e minatoria malevolenza. Non per caso, ignaro di coltivare in tal modo la sua stessa leggenda nera, raccontava il suo sogno, archetipo d´insana curiosità: entrare in possesso delle carte segrete di un cardinale, «però morto da poco - specificava con la sua arietta indifferente - e soprattutto all´improvviso».

Nell´inverno del 1991, fase terminale del Caf (consolato a tre con Craxi e Forlani), Piero Chiambretti, che faceva Il Postino per Rai3, riuscì a penetrare la cripta dei documenti andreottiani appena traslocati dal pianoterra del palazzo Macchi di Cellere, davanti Montecitorio, in certi locali in prestito del costruttore Bocchi, a via Borgognona. Nel blitz la mini troupe riuscì pure a filmare i due anziani archivisti, assai andreottianamente reclutati nella categoria dei pensionati (quando uno dei due morì ci furono seri problemi di rinvenimento carte). In vista della messa in onda, successe il finimondo: da Palazzo Chigi, dove per la settima volta risiedeva il Divo, tempestarono l´ufficio legale di viale Mazzini; e Chiambretti fu anche convocato in caserma, dove un colonnello dei carabinieri gli notificò paternamente che «il presidente sarebbe stato molto contento di avere la cassetta del girato come regalo di Natale». Fatto sta che da allora nessun profano potè vedere l´inesplorato e inviolabile monstrum che il suo creatore continua ad alimentare.

Eccolo dunque adesso, a tre giorni dal novantesimo genetliaco andreottiano, in un servizio fotografico dell´Ansa, dopo il terzo trasferimento dei 3.500 faldoni all´Istituto Sturzo, nel caveau del cinquecentesco palazzo Baldassini alle Coppelle. Massimo Franco, autore della fortunata e recentemente ampliata biografia Andreotti (Mondadori) ricorda che il vignettista Giannelli identifica l´archivio con la bisaccia e Beppe Grillo con la scatola nera. Il giornalista dell´Ansa Paolo Cucchiarelli, grande esperto di trame della recente storia, ha valutato l´estensione dei documenti 600 metri lineari. Marco Damilano, dell´Espresso, che per primo nel 2007 ha potuto fare un breve giro turistico in quel deposito, ha scoperto che vi si trova l´impensabile, compresa una tavoletta di cioccolato, per giunta smozzicata, proveniente da un hotel della Costa Azzurra.

Le poche, preziose immagini in visione restituiscono il bric-à-brac della gloriosa, ma grigiastra estetica documentaria: logore cartelline, ritagli ingialliti, schede bisunte, nastrini penzolanti, foto scolorite, fogli d´incerta geometria retrospettiva, e poi ancora scarabocchi, graffi, cancellature, abbreviazioni, volonterosi tentativi classificatori, eroici sforzi di riclassificazione. E tuttavia, una volta esposto alla luce, tanto più nell´epoca della sua riproducibilità digitale, il Moloch andreottiano perde l´antico vigore del mistero e un po´ forse anche lo splendore della menzogna proiettata fuori e dentro il tempo. Troppo gravido di promesse: «Quando potremo dire tutta la verità, non la ricorderemo più» (Longanesi).

Filippo Ceccarelli (la Repubblica, domenica, 11 gennaio 2009)