|
Anniversario sprecato
Il Moro che conta non viene ricordato
Giovanni, il figlio di Aldo Moro, nel
suo ultimo libro sugli anni '70, scrive della necessità di rintracciare una
sintassi nuova per raccontare gli anni che fecero da sfondo al rapimento e
all'uccisione del padre.
Pino Pisicchio
E forse proprio di una sintassi abbiamo
bisogno, di una struttura comune del linguaggio che riconnetta parole e immagini
all'interno di una trama in cui possiamo riconoscerci tutti. A cominciare dal
giudizio sul nostro passato recente. Trent'anni dopo la morte di Moro il ricordo
di quei giorni rischia di restare un'orma nella nostra mente (uso ancora
espressioni di Giovanni) senza essere però ancora memoria, e vale a dire
capacità di collocare il ricordo all'interno di un'esperienza e di farne
identità.
Il rischio che si corre nelle scadenze
anniversarie, specie quelle epocali, è quello di illanguidire nel rito delle
celebrazioni il vero senso di una storia umana e politica. In libreria c'è
un'alluvione di saggistica che ripropone il "caso Moro" dal lato delle trame,
ennesimo tributo al vezzo para-giallistico dell'"affaire", e quasi nulla sul
pensiero di Moro e sul suo contributo all'avanzamento della democrazia nel
nostro paese. Eppure questo trentennale si intreccia con un'altra ricorrenza che
ha anche molto da dire a proposito di quella sintassi della memoria da
ricomporre: i quattro decenni che ci separano dal '68, l'anno in cui prese corpo
e anima la questione giovanile, forse la prima moderna esperienza di
globalizzazione di pensieri e tendenze. Moro aveva avuto il merito di capire che
il '68 aveva segnato una frattura irreparabile tra l'Italia dell'emancipazione
dai bisogni primari, quella sopravvissuta alla guerra, e l'Italia alfabetizzata
e connessa al mondo attraverso l'inedita pervasività dei media, la nuova Italia
che vedeva proprio nelle nuove generazioni i protagonisti di una stagione tutta
da scrivere.
Del tutto inadeguata veniva giudicata la
politica rispetto all'irrompere dei giovani sulla scena pubblica: Moro aveva
messo in guardia i vecchi attori della politica italiana di fronte al '68,
invitando a comprendere e a portare nelle istituzioni la fresca energia
giovanile. L'ironia di una storia che spesso ricorre a strane eterogenesi dei
fini, volle che ad ucciderlo, dieci anni dopo, fossero proprio i cascami di quel
'68 che altri, non lui, non avevano compreso, quei giovani che le istituzioni
democratiche non erano riusciti a includere, quei figli del proletariato che,
come qualche anno prima avrebbe dichiarato, poetando, Pasolini, avevano le
stesse facce dei poliziotti contro i quali si scagliavano brandendo le utopie
violente di un tempo di piombo.
Rileggere Moro, l'Uomo che credette nella
pedagogia democratica dell'agire politico, rileggerlo oggi, in mezzo a una
politica volgare, spettacolarizzata, che nega con le sue leggi elettorali la
scelta democratica da parte della gente, significa fare un'opera difficile e
controcorrente. Un'opera necessaria, però, che giova alla democrazia.
Il Tempo, 10 marzo 2008
|