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Il prete che sussurrava ai boss
16/07/2012 - Il Foglio - Claudio Cerasa
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Il prete che sussurrava ai boss

L'uomo che sussurrava ai mafiosi ha settant'anni, gli occhi piccoli, i capelli brizzolati, la pelle liscia, la faccia rotonda, lo sguardo fisso, un sorriso inciso sul volto da due sottili rughe che gli incorniciano le labbra e un ricordo nitido di quello che successe la mattina del 30 maggio 1993 di fronte al presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro: "Pensi a un nome lei, caro monsignore".

L'uomo che sussurrava ai mafiosi ha un passato nelle parrocchie di Siena, una lunga esperienza nelle carceri toscane, un tosto addestramento alle scuole diplomatiche e una storia da raccontare su quello che Papa Montini gli mostrò a Castel Gandolfo tre giorni prima che Aldo Moro venisse ucciso dalle Brigate Rosse: "Guardi cosa c'è lì sul tavolo, caro monsignore".

L'uomo che sussurrava ai mafiosi, e che a volte sussurrava anche ai brigatisti, ai terroristi, ai camorristi, agli assassini e ai semplici criminali, ha una biografia che si intreccia con i fatti di alcuni fra i più indecifrabili misteri d'Italia e contiene diversi elementi che danno un senso a molte delle scene recitate nella famosa commedia intitolata "Le trattative stato-mafia". L'uomo che sussurrava ai mafiosi si chiama Fabio Fabbri, è stato per vent'anni il braccio destro del più famoso cappellano d'Italia (don Curioni), ha lavorato a fianco di due Papi (Montini e Wojtyla), di tre presidenti della Repubblica (Leone, Pertini, Scalfaro), di due ministri della Giustizia (Martelli e Conso), di due ministri dell'Interno (Scotti e Mancino), e tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Novanta è diventato il simbolo di quella naturale zona grigia maturata nei secoli tra il mondo delle istituzioni e il mondo della criminalità organizzata.

Insomma, sì: parliamo dell'intrigante e oscuro universo dei cappellani delle carceri, e di tutti quei preti che nottegiorno vivono le prigioni provando a trattare, ad ascoltare, a mediare, a incoraggiare, a rincuorare, a stimolare, ad assistere, e magari anche a convertire, e non necessariamente dal punto di vista religioso, tutte quelle persone che da dentro gli istituti penitenziari cercano di rimettersi in sintonia con il mondo reale, e tentano di far arrivare, per quanto possibile, la propria voce anche al di là delle sbarre. L'uomo che sussurrava ai mafiosi lo incontriamo a Roma, nelle stesse ore in cui magistrati, giornalisti, editorialisti, avvocati, direttori e fondatori di giornali si massacrano sui quotidiani attorno alle appendici varie di quel mostro giuridico chiamato "trattativa stato-mafia". Don Fabbri ha letto tutto quello che c'era da leggere sulle accuse a Nicola Mancino, sulle insinuazioni lanciate contro Giorgio Napolitano, sulle critiche a Oscar Luigi Scalfaro, sulle teorie di Antonino Ingroia; ma, come gli capita ogni volta che i suoi occhi si ritrovano a contatto con tutte le storie legate alla morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e alla fine della stagione delle stragi, con il pensiero, don Fabbri, non riesce a non andare ancora a quella mattina del 1993: quando all'improvviso Oscar Luigi Scalfaro convocò al Colle la coppia dei cappellani più famosa d'Italia: don Fabbri e don Curioni. I giorni erano piuttosto caldi, diciamo, e al centro delle attenzioni vi era il dossier relativo all'applicazione del carcere duro per i mafiosi (la famosa estensione del 41 bis, modificato e irrigidito dal governo l'8 giugno del 1992, sedici giorni dopo la strage di Capaci).

Tre mesi prima della convocazione di Curioni e Fabbri, all'inizio di febbraio, in alcune carceri italiane si era infatti cominciato a diffondere un certo clima di rivolta contro il 41 bis: a Napoli, per esempio, al reparto Venezia, settore riservato ai detenuti più pericolosi del carcere di Poggioreale, alcuni camorristi, per protestare, avevano ucciso un sovrintendente della polizia penitenziara; e in quelle stesse ore, mentre il governo come reazione all'omicidio decideva di estendere l'applicazione del 41 bis a tutto l'intero penitenziario, i familiari di alcuni boss mafiosi stavano preparando una lettera indirizzata al presidente della Repubblica (arrivò il 17 febbraio) in cui si chiedeva a Scalfaro, in quanto "rappresentante e garante delle più elementari forme di civiltà", di prendere posizione contro il 41 bis e di togliere di mezzo "gli squadristi al servizio del dittatore Nicolò Amato". Nicolò Amato, ai tempi, era il numero uno del Dap (il dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, "organo di coordinamento dell'ordine e della sicurezza delle carceri", che all'epoca aveva persino la possibilità di firmare autonomamente i decreti delegati sul 41 bis), e la ragione per cui Scalfaro convocò Curioni e Fabbri era legata proprio al nome di questo apparentemente anonimo burocrate statale.

"Scalfaro - racconta oggi Fabbri, nipote dell'ex vescovo ausiliare di Firenze Giovanni Bianchi, ex viceparroco della chiesa Santo Spirito di Siena, ex cappellano del carcere della sua città, e con un passato nella scuola dei diplomatici della Santa Sede - ci chiamò, ci fece salire nella sua stanza privata, ci fece accomodare, ci guardò negli occhi, ci rivelò tutta la sua preoccupazione rispetto alla situazione delle carceri e poi, alla fine della nostra discussione, ci disse chiaramente che era arrivato il momento di sostituire il direttore generale del Dap, e di pensare noi stessi a un possibile sostituto per quel ruolo importante. Scalfaro ci confidò che con Amato non aveva un buon rapporto, ci raccontò che il numero uno del Dap si comportava in modo altezzoso e ci fece capire che a suo avviso non poteva più essere egli la persona giusta a cui affidare in quel momento il coordinamento delle carceri italiane. Noi fummo presi alla sprovvista, e, mentre pensavamo a cosa rispondere, Scalfaro ci disse che non gli occorreva subito un nome, ma che una risposta sarebbe stata apprezzata il giorno dopo quando l'allora ministro della Giustizia Giovanni Conso, così ci disse Scalfaro, ci avrebbe ricevuto per parlare proprio della questione". E così andò. "Il giorno dopo - continua don Fabbri - arrivammo al secondo piano di Via Arenula, entrammo nell'ufficio di Conso e mentre il ministro ci chiese se avevamo qualche nome da suggerire per rimpiazzare Amato a me venne un lampo: guardai Curioni e gli sussurrai a voce forse più alta del dovuto il nome di Adalberto Capriotti. Capriotti all'epoca era un magistrato di Trento, un buon cattolico, uno serio ma non rigido, e un personaggio attento e vicino al mondo dei cappellani. Curioni stava per rispondermi con un cenno di intesa; ma, poco prima che Curioni potesse dirmi qualcosa, Conso si alzò in piedi, si avvicinò a una vecchia cassettiera di legno, prese un librone molto grande, cominciò a sfogliarlo, e iniziò a leggere le caratteristiche di Capriotti, la sua età, la sua storia e la sua posizione, e dopo pochi minuti disse di sì: ‘D'accordo, per me può andare'. E in effetti così andò nuovamente: quattro giorni dopo, il 4 giugno, Amato fu cacciato dal Dap e Scalfaro e Conso nominarono come capo del dipartimento proprio lui: il nostro Capriotti".

La scelta improvvisa di Capriotti e la destituzione dal vertice del Dap di Nicolò Amato coincise con una svolta radicale nell'approccio scelto dallo stato e dalle istituzioni con il mondo delle carceri e indirettamente con il mondo della criminalità organizzata. Capriotti, che, come detto da Fabbri, era "uno assai attento e vicino al mondo dei cappellani", condivideva le preoccupazioni espresse nei mesi precedenti sulle condizioni delle carceri dai 235 cappellani rappresentati nel consiglio pastorale italiano proprio da don Fabbri e don Curioni. E proprio come i due cappellani, Capriotti era "indignato" per l'applicazione così severa e inumana del 41 bis, e durante la sua esperienza alla guida del Dap non fece mai mistero delle sue opinioni sul tema del carcere duro: al punto che, senza nessun sotterfugio ma in modo trasparente, nei mesi successivi iniziò a coordinare una campagna martellante rivolta al governo per rivedere radicalmente le norme sul 41 bis. Una campagna che ebbe il suo primo atto pubblico in una nota scritta - proprio dal Dap - il 26 giugno 1993, in cui Capriotti, invocando "un segnale di distensione" e richiedendo una "diminuzione del 10 per cento dei decreti 41 bis, una riconferma dei decreti per i boss prossimi alla scadenza annuale e un dimezzamento della durata del 41 bis da un anno a sei mesi", delineò, anche qui in modo trasparente, quella che era diventata una nuova e più complessa strategia giudiziaria. Una strategia che nei mesi si manifestò attraverso un'altra serie di episodi di cui Capriotti fu sempre protagonista. E proprio su questa scia, il 29 luglio arriva una seconda nota del Dap, che sulla falsariga di quella precedente indica - questa volta in modo più esplicito - come "la delicata situazione generale imponga da una parte di soddisfare le esigenze di sicurezza e di contrasto alla criminalità organizzata e dall'altra di non inasprire inutilmente il clima all'interno degli istituti di pena".

Il 7 agosto, poi, è il segretario del Comitato esecutivo per i servizi di informazione e sicurezza, Giuseppe Tavormina, a inviare a Nicola Mancino (allora ministro dell'Interno) un documento in cui mette in chiaro come la strategia del carcere duro avrebbe contribuito ad aggravare la tensione nel paese, e non a stemperarla: "Il nesso tra gli attentati mafiosi e il 41 bis - scrive nell'appunto Tavormina, riferendosi agli attentati del 27 e del 28 luglio alla chiesa di San Giorgio al Velabro, alla basilica di San Giovanni, a Roma, e al Padiglione di arte contemporanea di n via Palestro a Milano - è una possibile matrice dell'ondata stragista". Passano i giorni, passano i mesi, ci si avvicina alla fine dell'anno, il Dap e i cappellani continuano, alla luce del sole, la loro battaglia per la revisione del carcere duro, e nel giro di tre giorni, a cavallo tra il 29 ottobre e il primo novembre, succede quello che fino a pochi mesi prima nessuno avrebbe mai immaginato potesse succedere: il Dap invia una richiesta scritta al ministro Giovanni Conso (e per conoscenza anche al procuratore capo di Palermo, Gian Carlo Caselli, e al presidente dell'Antimafia, Luciano Violante) per chiedere "il rinnovo del regime speciale solo nei confronti di quei soggetti che nell'ambito della criminalità organizzata rivestono posizioni di particolare rilievo e lasciare decadere il provvedimento nei confronti di quei detenuti di minore spessore criminale".

Questa volta la richiesta va a buon fine, finalmente i cappellani possono esultare e tre giorni dopo quella richiesta succede che il ministro Conso (chissà se davvero in "perfetta solitudine" come ha raccontato qualche mese fa ai magistrati) lascia clamorosamente decadere i primi 140 decreti sul 41 bis (i successivi 567 decadranno più avanti, nel gennaio 1994). Eccola qui, secondo il capo dei cappellani, la vera storia sul 41 bis. Altro che estorsione. Altro che ricatto. Altro che cedimento. Altro che inginocchiamento dello stato. "Vedete - continua Don Fabbri - io non credo che si possa parlare di chissà quale trattativa, e anzi credo che la storia sul 41 bis vada letta sotto una lente di ingrandimento diversa rispetto a quella che è stata impugnata da alcuni pubblici ministeri. Le cose andarono in modo semplice: noi cappellani avevamo avvertito le istituzioni che un irrigidimento delle misure di sicurezza non avrebbe portato alcun tipo di beneficio, e che anzi avrebbe contribuito a peggiorare e a rendere ancora più disumano il già disumano regime carcerario. Scalfaro, evidentemente, si mostrò sensibile alle nostre osservazioni e sfruttò la nostra esperienza per portare avanti non un gesto distensivo nei confronti della mafia ma semplicemente un atto di buon senso". Scalfaro, dunque. L'ex presidente della Repubblica - che conosceva Curioni dagli anni in cui il monsignore lavorava come cappellano al carcere di San Vittore e in cui Scalfaro lavorava come magistrato alla Corte d'Assise di Novara - dimostrò anche in altre occasioni di avere una certa predisposizione a prestare attenzione a quel canale naturale di mediazione con il mondo della criminalità che era l'universo dei cappellani.

E prima del rapporto con Fabbri e Curioni, Scalfaro innescò altre simil-trattative anche negli anni in cui prestò servizio come ministro dell'Interno (1983-1987): quando cioè, per esempio, non fece mistero di considerare "una sua persona di fiducia" un personaggio divenuto famoso negli anni del terrorismo rosso come suor Teresilla. Suor Teresilla, forse qualcuno lo ricorderà, negli anni Ottanta si affermò come uno dei canali di comunicazione, e di trattativa appunto, tra il mondo delle istituzioni e il mondo delle Brigate rosse. Suor Teresilla, all'epoca, pur essendo criticata da alcuni magistrati che vedevano in lei il simbolo di una pericolosa contiguità tra lo stato e le Br, fu sempre molto rispettata, e anche quando negli anni Novanta divenne a tutti gli effetti "referente dei terroristi rossi" (fu a lei che il brigatista Valerio Morucci, protagonista del rapimento di Moro, consegnò il suo memoriale, nel 1990, affinché lo facesse avere al presidente della Repubblica Francesco Cossiga) a nessuno passò mai per la testa di attaccarla in quanto "simbolo di un cedimento dello stato" nei confronti del terrorismo rosso. Anzi, quando anni dopo Teresilla venne travolta e uccisa da un pirata della strada (2005), anche giornali solitamente schierati contro ogni forma possibile ed esistente di trattativa decisero di descrivere Teresilla non come una spregiudicata mediatrice tra lo stato e le Br ma come (scrisse Repubblica) "una donna avventurosa che si è fatta strumento in carne e ossa di riscatto e riconciliazione maneggiando segreti di stato e domande di grazia". "Francamente - dice don Fabbri, oggi relegato dalla chiesa nella sua piccola parrocchietta senese - io credo che l'accezione dolosa che i pm danno alla parola ‘trattativa' derivi dal fatto che alcune persone si sono messe in testa di riscrivere a loro piacimento la storia d'Italia non per trovare e scoprire la ‘verità' ma per dimostrare più che altro le proprie teorie o le proprie personali visioni del mondo".

Don Fabbri oggi è dunque prudente nel maneggiare la parola "trattativa" rispetto agli infuocati anni Novanta, e sul tema in questione segue la stessa linea adottata dal generale Mario Mori: non ci fu alcuna trattativa segreta tra la stato e la mafia ma vi furono semplicemente dei contatti trasparenti e alla luce del sole di alcuni rappresentanti delle istituzioni con alcuni "rappresentanti della criminalità" (per esempio Mori con Vito Ciancimino nel 1992, quando il generale cercò di portare l'ex sindaco mafioso di Palermo sulla strada del pentimento) e di alcuni "rappresentanti della criminalità" con alcuni esponenti delle istituzioni (per esempio i carcerati mafiosi con il mondo dei cappellani, del Dap e indirettamente dunque con le stesse istituzioni).

Riavvolgendo però il nastro e tornando agli anni in cui per la prima volta venne testata la solidità della rete diplomatica costruita dai cappellani, Fabbri ammette che effettivamente in un'occasione del tutto particolare lo stato e la chiesa fecero insieme affidamento proprio su di loro (alla coppia Fabbri-Curioni) per provare a impostare quella che oggi lo stesso cappellano senese non ha difficoltà a definire la "grande trattativa". Il nastro va dunque riavvolto al 1978 e ai giorni immediatamente successivi al rapimento di Aldo Moro. Ai tempi, Curioni e Fabbri si erano da poco insediati al coordinamento dei cappellani delle carceri e appena due anni dopo l'ingresso formale al terzo piano di Via Giulia (doveva aveva sede l'ufficio dei due cappellani) a un certo punto squillò il telefono e dall'altra parte della cornetta Curioni si ritrovò lo storico braccio destro di Paolo VI: don Pasquale Macchi, segretario di stato. Siamo a fine marzo: Aldo Moro è stato rapito da pochi giorni dalle Br e la Chiesa decise di organizzarsi per dare il suo contributo a una possibile trattativa. Lo fece su due fronti: da un lato con l'attività singola del famoso don Antonello Mennini (il prete che si dice avrebbe persino ricevuto dai brigatisti il via libera a confessare Moro prima di essere ucciso) e dall'altro con la coppia Fabbri-Curioni. "Accadde tutto all'improvviso - ricorda Fabbri - Don Macchi telefonò a Curioni, gli disse che il Santo Padre voleva intervenire, gli spiegò che Montini era convinto che la malavita con cui noi cappellani eravamo venuti a contatto potesse sapere qualcosa di importante e ci chiese così, direttamente, di cercare un canale per arrivare a Moro. In un primo momento, ci limitammo ad attivare i nostri contatti, e ci spostammo a lungo nel carcere di San Vittore, dove Curioni aveva delle ottime fonti; e proprio le fonti di Curioni ci diedero la possibilità di mettere per primi le mani sulle famose foto di Moro, quella con il lenzuolo rosso con la stella a cinque punte dietro la schiena di Moro e quella con una copia della Repubblica in mano datata 19 marzo 1978. Dopo di che, pochi giorni prima che l'ex presidente del Consiglio venisse ucciso, ci fu una piccola svolta: ci rendemmo conto che forse una soluzione era possibile, e che era possibile liberare Moro: fu in quel momento che don Macchi parlò con Curioni e ci convocò direttamente a Castel Gandolfo, a casa del Santo Padre".

E lì Fabbri vide qualcosa di clamoroso che non aveva mai raccontato prima d'ora. "Era il pomeriggio del 6 maggio 1978 e a un certo punto, quando arrivammo da Montini, il Papa ci accompagnò nel suo studio privato, ci fece avvicinare a una gigantesca consolle coperta da un lenzuolo azzurro, e poi, lo ricordo perfettamente, con un rapido gesto della mano sollevò il lenzuolo e ci mostrò, ben disposte sulla consolle, una serie infinita di mazzette di dollari messe una accanto all'altra. ‘Sono dieci milioni di dollari', ci disse Montini, e ci spiegò che quelli erano soldi che la chiesa aveva messo a disposizione per pagare il riscatto di Moro. Non fu sufficiente, però: qualcosa che non abbiamo mai capito successe nei giorni successivi e quei soldi purtroppo non arrivarono mai a chi dovevano arrivare".

Trattative, trattative, trattative.

Ché in fondo il senso della storia di don Fabbri (e di riflesso di don Curioni, morto nel 1996) questo è: un modo diverso di leggere gli "anni delle trattative", un modo diverso di raccontare quello che alcuni magistrati definiscono "il patto delle istituzioni con le cosche" e un modo diverso di esplicitare un piccolo dubbio che alcuni giorni fa è saltato persino all'occhio del solitamente rigidissimo procuratore capo della procura di Palermo: quel Francesco Messineo che lo scorso 14 giugno non ha messo la propria firma in calce all'atto di notifica della conclusione delle indagini "sulla trattativa stato-mafia" (atto firmato da Nino Di Matteo e Antonio Ingroia) motivando indirettamente la sua scelta qualche giorno prima durante un'audizione di fronte all'Antimafia, quando Messineo, ignorato da quasi tutti i giornali, a proposito delle "volontà trattativiste delle istituzioni" scelse più o meno le stesse parole utilizzate da don Fabbri in questa chiacchierata. "Se per trattativa si vuole intendere una formale trattativa con plenipotenziari seduti ai lati del tavolo, questo non vi fu certamente", disse Messineo, ammettendo poi, sempre a proposito di trattativa, che qui "si potrebbe parlare di una ragion di stato interpretata da pochi soggetti, secondo loro particolari orientamenti e secondo una loro particolare visione, nell'intento - in sé astrattamente lodevole - di prevenire le stragi". Lodevole, già. E chissà che allora anche le parole di Messineo messe a fianco a quelle di don Fabbri non siano lì a testimoniarci che, a voler guardar bene, la storia sulla temibilissima "trattativa stato-mafia" in fondo è un caso già chiuso da tempo.

 

Claudio Cerasa (Il Foglio 16 luglio 2012)