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Tobagi, il terrorismo e il cuore di una figlia
02/11/2009 - Repubblica - Roberto Saviano
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Tobagi, il terrorismo e il cuore di una figlia

Molti libri iniziano davvero nel titolo. Il titolo non è lì a sintetizzare, a suggestionare, a indicare. Il titolo è già un capitolo, anzi è il primo capitolo del libro. In questo caso, per il libro di Benedetta Tobagi, il titolo è davvero fondamentale.

Non solo perché è il più bel titolo di un libro uscito negli ultimi anni, ma perché è capace di suggerire senza tradire tutto quanto ci sarà dentro quelle pagine che protegge come un sigillo. Come mi batte forte il tuo cuore: il verso della poetessa Wislawa Szymborska. E il sottotitolo è Storia di mio padre. Il padre di Benedetta è Walter Tobagi, il giornalista del Corriere della Sera ucciso nel maggio del 1980 a Milano, dai terroristi della Brigata XXVIII marzo.

Sciascia scrisse di lui "lo hanno ammazzato perché aveva metodo". Benedetta non ricorda il padre, era piccolissima quando l'hanno ammazzato. Aveva tre anni. Ricorda il giorno della morte, ne ricorda le sensazioni. I bambini non hanno mediazione. A scuola nel cortile raccontava a increduli compagni: "papà è morto: gli hanno sparato bum bum!" Quando decide di occuparsi di suo padre, si ritrova ad occuparsi pure del suo Paese e ancor più a mettere le mani nella storia peggiore italiana, complicata, labirintica. Ma lei ha un obiettivo diverso. Capire se stessa, il suo dolore, non semplicemente sondare un frammento d'Italia. Benedetta diventa esperta d'archivi e addirittura porta nuovi elementi ai magistrati che dopo più di vent'anni dalla morte del padre non avevano colto passaggi importanti.

Tobagi non era un giornalista d'inchiesta. I terroristi non uccisero giornalisti d'inchiesta, ma giornalisti come Carlo Casalegno e, appunto, Walter Tobagi che analizzavano le questioni, davano nomi e interpretazioni. Non rivelazioni di nuovi elementi. E questo li condannava a morte. "Scrivere chiaro è difficile" diceva Walter Tobagi. Lo sa anche sua figlia. Difatti cerca di lavorare sulla parola, sulla narrazione dei fatti, sul racconto di se stessa, della sua famiglia. La cosa più difficile possibile è raccontare e insieme rispettare, mostrare ma non sbirciare, urlare ma non gridare. Il suo libro non è un saggio, non è un romanzo, non è un trattato scientifico, non è nemmeno un omaggio. E' scritto come un romanzo ma con contenuto privo d'invenzione e con disciplina dei dati.

Quello che Benedetta Tobagi fa è togliere al padre l'elmo da eroe. Proprio nei modi raccontati da Omero. Ettore, prima della battaglia, si avvicina a salutare il piccolo Astianatte che però scoppia a piangere perché non lo riconosce. Ettore allora si toglie l'elmo e Astianatte gli salta al collo. Benedetta Tobagi fa lo stesso: "Imbarcarmi in una duplice ricerca intorno alla persona pubblica e privata di mio padre è stato il modo di sfilargli l'elmo impostogli dalla retorica postuma".

Chiama spesso in questo libro suo padre semplicemente Walter e cerca di sottrarlo a tutti i commenti, alle commemorazioni, persino alle carezze postume. E ricorda invece tutto ciò che dal suo ambiente gli arrivò in vita come accuse, la sua presunta sudditanza a Craxi, l'accusa di essere diventato direttore dell'Associazione Lombarda Giornalisti brigando e orchestrando chissà quali manovre. E' raccontato assai bene in questo libro l'ambiente dei giornalisti subito pronti a stringersi intorno al martire, ma che un attimo prima e subito dopo si dilanieranno in invidie, insulti, discredito gettato l'un contro l'altro. La madre di Bendetta "vedeva il giornale come uno strumento di potere e la redazione come un ricettacolo di rancori, gelosie, e lotte intestine sotto lo smalto del prestigio". Tobagi era un riformista e un uomo capace di leggere il suo tempo con analisi profonde. C'è una frase che mi ha colpito per la sua attualità "a me pare che si corra il rischio di dire che è democratico il giornale che dice quello che mi piace".

Benedetta è severissima nel rileggere gli articoli del padre. Quando per la prima volta, grazie a Giovanni Minoli che per primo dedicò uno spazio televisivo alla vicenda Tobagi in anni dove sembrava si volesse rimuoverla, ascolta la voce di suo padre, dichiara addirittura di esserne rimasta delusa. Si aspettava un'altra voce. L'onestà di Benedetta in questo libro non sta nel cercare la distanza obiettiva che non esiste se non in matematica, e qui si parla di uomini e non di algoritmi. Ma riesce a raccogliere tutte le possibili sfumature, i dati, le problematiche. Questo libro è il contrario di una celebrazione. La lotta sindacale di Tobagi per avere giornalisti più liberi ossia meno condizionati da chi gli dava lo stipendio e meno anche punibili dai direttori, era un modalità d'intervento che coltivava l'utopia di far coincidere la propria ambizione con la possibilità di migliorare le cose per tutti.

All'interno del Corriere della Sera, Walter Tobagi ha combattuto contro le infiltrazioni piduiste. Benedetta scova che in una valigetta di Gelli era stato ritrovato il documento di rivendicazione della morte di suo padre. E Benedetta fa senza problemi nomi e cognomi delle firme, degli azionisti, dei progetti di controllo del Corsera a cui il padre continuamente si era opposto. Benedetta nelle carte del padre ritrova un giovanissimo Ferruccio de Bortoli che Tobagi considerava un suo allievo.

L'omicidio Moro lo fece molto riflettere sul suo destino, in una lettera alla moglie scrive: "Se un giorno non dovessi più esserci ti prego di spiegargli di ricordare. Mi sentirei ancora più in colpa se oggi non spendessi quei talenti che mi sono stati affidati". Ricorda. E' ciò cui Tobagi tiene, "ricorda ciò che non sono riuscito a spiegare ai miei figli". Ricorda. Perché è diverso sapere di rischiare di morire se si ha la certezza che qualcuno proteggerà le persone che più ami dalle migliaia di versioni che gli altri daranno sulla tua vita. Tobagi venne ucciso con cinque colpi di pistola da un gruppo di circa sei terroristi, Marco Barbone, Paolo Morandini, Mario Marano, Francesco Giordano, Daniele Laus e Manfredi De Stefano, volevano accreditarsi nel mondo della lotta armata, un omicidio di promozione nella massima serie dei banditi rossi. Figli di famiglie della borghesia milanese, due membri del commando in particolare appartengono all'ambiente giornalistico: sono Marco Barbone, figlio di Donato Barbone, dirigente editoriale della casa editrice Sansoni (di proprietà del gruppo RCS), e Paolo Morandini, figlio del critico cinematografico del quotidiano Morando Morandini. A sparare sono Mario Marano e Marco Barbone. Barbone, quando Tobagi si accascia per terra, gli dà il colpo di grazia.

Subito dopo il suo arresto, il 25 settembre del 1980, Barbone inizia a collaborare con gli inquirenti. Grazie alle sue rivelazioni l'intera Brigata 28 marzo finisce in carcere insieme a più di un centinaio di sospetti terroristi di sinistra, con cui Barbone è venuto in contatto nel corso della sua breve carriera da terrorista. Loro adesso hanno l'età matura che avrebbe avuto suo padre, ma quando l'hanno ucciso avevano la stessa età di Benedetta. Nelle pagine si vede il tormento di una donna che lavora su se stessa e si ripete che deve capire, da storica, le ragioni che hanno spinto questi ragazzi a uccidere "per dimostrare di essere vivi". Poi a volte cede. Non ce la fa, vorrebbe gridare: ma vi rendete conto che cosa avete fatto. Vorrebbe andare a vederli uno per uno ora divenuti cattolici di Comunione e Liberazione. O, come i capi di Prima Linea, profeti vegani dell'impegno sociale. E dopo aver massacrato, oggi ripetono, con le facce contrite, la solita omelia del "voi oggi non potete capire".

Invece il libro di Benedetta Tobagi dimostra che noi possiamo capire; che anzi abbiamo capito benissimo cosa hanno fatto questi terroristi che volevano mutare il mondo e l'hanno peggiorato, distratto l'attenzione da quello che combinava la criminalità organizzata e la politica corrotta, ucciso la parte migliore del paese. I giudici che vengono uccisi non sono quelli reazionari, pesanti con i deboli e deboli con i potenti. Sono i giudici riformisti, democratici, capaci di considerare la giustizia che i terroristi definiscono borghese come uno strumento di miglioramento sociale e di vedere la legge come difesa, sempre di chi non ha strumenti altri di difesa che il diritto.

Benedetta Tobagi è bravissima nel raccontare le perversioni dei terroristi di quegli anni: la concorrenza tra chi uccideva di più e i nomi più "organici al sistema". E di come lo Stato all'epoca sottovalutava tutto, quando il nome di Walter Tobagi viene trovato in una schedatura di un terrorista. Consigliano a Tobagi di uscire di casa dopo le nove perché "quelli uccidono dalle sette alle otto". Incredibile ma questo fu la ricetta per salvarsi la vita. Le pagine più dure di Benedetta sono su Caterina Rosenzweig, appartenente ad una ricca famiglia milanese. Giocava a fare la terrorista.

Benedetta non sopporta le commemorazioni vuote del martire che serve ad allontanare la sua figura umana: come a dire che è impossibile vivere come lui. Invece bisogna avvicinare, mostrare le fragilità, le contraddizioni. E così la targa sul posto dove è morto Tobagi, non è retorica. Dice poeticamente usando le parole bibliche: "Più tenace della paura, più profonda del tuo dolore nel silenzio dell'essere, la vita canta".

Questo libro non poteva essere scritto che da una persona nata in una famiglia di persone che si amavano. E' una fesseria credere che le famiglie felici si somiglino tutte e quelle infelici sono infelici ognuna a modo suo. Anche la felicità ha una declinazione tutta sua. E questa famiglia di cui scrive Benedetta, una famiglia schiacciata per sempre sul nascere da un lutto assurdo, fatto da terroristi dell'ultima ora, ma tenuta insieme dal ricordo di un tempo felice. La felicità del fratello Luca, il rigore della madre. Ebbene questa famiglia riesce a non sfaldarsi. Nel mio paese si dice che la malta buona non fa cadere nessuna casa. Credo sia proprio così. Nei diari di Walter Tobagi c'è un passaggio che dedica alla moglie. "Stasera mi sento solo le poltrone vuote ma sono felice. Penso a te e mi sento felice". Ma l'amore che prova per lui dev'essere immobile e non dinamico come è la vita. E questo libro è la declinazione del suo amore, vivo, fluido e non museale. Alla fine è il desiderio di una figlia che parla al padre, certa che da qualche parte quel padre la sta ascoltando. C'è una scena che non ti dimentichi più dopo averla letta. Benedetta mentre spulcia negli archivi, cassetti, nell'ordine postumo che la madre aveva dato alla vita di suo marito, trova una cassetta. Una registrazione di pochi minuti fatta il giorno del compleanno di Walter. E' una registrazione gioco, Walter accende il registratore, il piccolo Luca parla e non smette e la piccola Benedetta è timida e tace. Ma poi il padre riesce miracolosamente a convincerla. Allora si fa coraggio si avvicina e dice con la vocina "tanti auguri papà". Ed è il simbolo di un padre che aiuta a parlare. Questo libro da spazio a chi ha dato voce al meglio di questo paese, raccontandolo e difendendolo, un paese che sembra aver perso quella voce. Ma queste parole scritte da Benedetta Tobagi permettono di accorgerci che in molti di noi batte ancora forte il loro cuore.

Roberto Saviano (Repubblica 2 novembre 2009)