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I nostri figli ci guardano
02/11/2009 - Corriere della Sera - Ferruccio de Bortoli
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Questa stagione di fango e veleni
I nostri figli ci guardano
Quando Tobagi fu ucciso, Benedetta aveva 3 anni. Non l’ha conosciuto. Ma lo ha incontrato scrivendone la storia

In tempi di passioni tristi e valori deboli, forse è opportuno staccarsi un attimo dalle cronache e chiederci come verrà giudicato, fra qualche anno, questo particolare momento della nostra vita, pubblica e privata. Non dagli storici, che speriamo abbiano di meglio di cui occuparsi. Ma dai nostri figli. Davvero il Paese è quello descritto dal profluvio di volgarità che ci inonda ogni giorno? E da una classe politica che appare, nel suo complesso, più attenta a rovistare nel letto dell’avversario, piuttosto che confrontarsi su idee e programmi? Che chiude la Camera per una settimana, perché non ha nulla da fare, ma insegue senza sosta gossip di ogni natura? Oppure dà un’informazione che si disputa brandelli delle vite private dei rivali politici e non?

Lo abbiamo già scritto: il Paese, per fortuna, è diverso. Molto diverso. Migliore. E non merita affatto l’immagine di cui soffre, perché lavora di più e meglio di coloro che, all’estero, ci criticano con il sopracciglio alzato. In queste settimane ci siamo occupati, purtroppo, più di escort e trans, che di imprese e lavoro. Più di cocaina che di riforma universitaria. Le inchieste della magistratura vanno seguite con attenzione ed equilibrio, non c’è dubbio. E la stampa deve darne il giusto conto (il «Corriere» le ha quasi tutte anticipate). Ma non vanno confuse con il rincorrersi incontrollato di voci, le più disparate, su questo o su quello. Il privato di chi esercita una funzione pubblica, a qualsiasi livello, è necessariamente più limitato di quello di un cittadino qualsiasi. Ma il suo totale annullamento, all’insegna di un’idea giacobina della trasparenza, non significa maggiore democrazia, ma babele di sospetti. L’importante è che le scelte private, anche sessuali, non condizionino la libertà di esercizio delle funzioni pubbliche con l’accettazione di compromessi o ricatti. Forse dovremmo tutti fermarci un po’ a riflettere su come questa stagione del fango, dei dossier e dei veleni, nella quale prosperano voraci pesci di profondità e pericolosi animali del sottobosco, verrà ricordata fra qualche anno. E domandarci se ci stiamo occupando, con la dovuta determinazione, dei problemi reali del Paese, della difesa delle sue istituzioni e dei suoi valori, dell’etica pubblica e del senso di legalità. Oppure se abbiamo perso un po’ tutti la lucidità necessaria per non vivere inconsapevoli in una società dominata dall’illegalità diffusa, dal trionfo della volgarità e dallo scarso rispetto del prossimo. Chi ci governa ha le sue responsabilità, anche serie, ma pensare che le abbia tutte è superficiale e ingiusto. L’occasione per farlo è la pubblicazione di un libro che, a mio parere, andrebbe letto anche nelle scuole. Lo ha scritto Benedetta Tobagi, figlia di Walter, giornalista del «Corriere della Sera», ucciso dai terroristi rossi quasi trent’anni fa.

S’intitola: «Come mi batte forte il tuo cuore» (Einaudi). Lo anticipiamo oggi su queste colonne. Quando Tobagi fu ucciso, per il coraggio dei suoi scritti a difesa della legalità e dei valori per i quali viviamo, Benedetta aveva appena tre anni. Non l’ha di fatto conosciuto, il padre. Ma lo ha incontrato di nuovo scrivendone la storia. Ha scoperto tutta la sua profondità umana e professionale, la forza del suo pensiero libero, il significato dell’esempio, l’attaccamento alla famiglia, l’etica personale che dovrebbe guidare ogni nostro gesto quotidiano. Se ognuno di noi svolgesse fino in fondo, come hanno fatto Walter e tanti altri come lui, il proprio dovere, questa società sarebbe più giusta, meno egoista, avrebbe più rispetto di sé e dei propri figli. Benedetta nel suo libro, ne cita un altro, appena uscito: «Qualunque cosa succeda» (Sironi editore), di Umberto Ambrosoli, figlio di Giorgio, il liquidatore della Banca Privata Italiana, caduto sotto i colpi di un sicario mandato da Michele Sindona, trent’anni fa. Umberto, quando morì il padre, aveva otto anni. Anche lui, e non solo lui (Mario Calabresi, per esempio, figlio del commissario Luigi, ucciso nel ’72) lo ha conosciuto nuovamente ricostruendone la vita professionale. «Papà è stato una persona come tante che ha saputo vivere e difendere i valori per lui prioritari. Può non essere un obiettivo facile, ma tutti noi possiamo darcelo, vivendo con responsabilità nei confronti di noi stessi e della società». Umberto Ambrosoli ha scritto anche ieri, su queste colonne di quanto i piccoli esempi quotidiani di legalità siano importanti nella costruzione di un’etica pubblica condivisa. Grazie Umberto, grazie Benedetta. Noi ci auguriamo, leggendo queste pagine così belle e nobili, di non dover più rivivere gli anni di piombo, anche se ne vediamo ripetersi alcuni dei sintomi. E immersi nel liquido, a volte maleodorante, della nostra contemporaneità, ci domandiamo, con un senso di angoscia, come ci ricorderanno i nostri figli. E se stiamo facendo di tutto per consegnare loro una società migliore.

Ferruccio de Bortoli (Corriere della Sera, 2 novembre 2009)