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Galloni: quando Kissinger minacciò Moro
14/05/2007 - L'espresso - Saverio Occhiuto
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Galloni: quando Kissinger minacciò Moro

Saverio Occhiuto
A Pescara l’ex ministro rivela due retroscena nel rapimento dello statista Dc

PESCARA. Può apparire singolare - ma non per la storia d’Italia - che a 29 anni dalla morte di Aldo Moro, Giovanni Galloni avverta il bisogno di suggerire «una commemorazione di tipo nuovo» dell’amico statista rapito dalle Brigate Rosse il 16 marzo del 1978 e ucciso il 9 maggio dello stesso anno.
Da Pescara, ospite assieme a Mauro Fotia di un recente convegno organizzato dall’Istituto “Spataro”, è lo stesso ex Guardasigilli ad annunciare un suo libro-testimonianza di prossima pubblicazione su via Fani e dintorni.
 «Ci sono dei fatti nuovi da scoprire e da introdurre», dice Galloni, «perché non tutte le cose su Moro sono state dette, soprattutto quelle che riguardano la sua fine».
Perché solo adesso?
Perché, a quasi trent’anni di distanza dalla strage di via Fani e dal ritrovamento del cadavere di Moro nel bagagliaio della famosa R4 rossa, l’ultraottantenne Giovanni Galloni avverte la necessità di riaprire questo capitolo della storia italiana e, soprattutto, della Democrazia Cristiana di cui entrambi furono esponenti di primissimo piano?
 Gli aspetti ancora nell’ombra, per Galloni, sono soprattutto due: «Le quattro sentenze che ci sono state sulla morte di Moro non hanno soddisfatto la magistratura. Una parte di quei magistrati, compreso il fratello di Moro, mi ha detto di aver rifiutato i verdetti dei tribunali. Sono convinti che le Br abbiamo negato di avere avuto alle loro spalle altri esecutori solo per ottenere degli sconti di pena, che ci sono stati. E ora anche questo va chiarito».


L’altra questione messa sul tavolo da Galloni riguarda l’interpretazione autentica della strategia politica di Moro: «E’ giunto anche il tempo di chiarire perché Moro abbia parlato di una terza fase. E qui mi riferisco soprattutto a colloqui personali avuti con lui poco prima di via Fani: il bipolarismo di cui oggi tanto si parla. Per capire cosa Moro volesse dire parlando di terza fase, bisogna anche approfondire che cosa intendesse per prima e seconda fase.
I più hanno sempre ritenuto che per prima fase Moro intendesse la politica centrista, per la seconda fase la politica di centrosinistra e per la terza quella della solidarietà nazionale. Non è così. La mia vicinanza continua con Moro, di oltre venti anni, mi dice che per prima fase egli intendeva quella della resistenza, della lotta antifascista, della Costituente. E non si trattava affatto, come già allora i giornali dicevano, di un compromesso ideologico tra cattolici e marxisti ma del superamento delle rispettive posizioni per cercare di avviare qualcosa di nuovo».
Ed ecco la seconda fase secondo Galloni: «Quale era stata la grande illusione, prima di De Gasperi e poi di Moro? Quella che formando un governo insieme con i partiti laici, ai quali eravamo contrapposti da posizioni ideali, si creassero le condizioni per arrivare in Italia ad una democrazia compiuta, come esisteva negli altri paesi europei.
 Democrazia compiuta per De Gasperi era l’esistenza di quel bipolarismo per cui da una parte c’erano partiti di ispirazione cristiana e dall’altra partiti di ispirazione socialista e democratica».
«L’illusione di De Gasperi era quella di portare avanti la socialdemocrazia di Saragat, con l’idea che questa potesse ad un certo momento assumere quella funzione che negli altri paesi europei avevano assunto i partiti socialisti, cosa che non avvenne, perché in Italia la realtà del partito comunista era diversa e radicata nella situazione italiana».
La politica bifronte: «I condizionamenti internazionali e l’accordo di Yalta», spiega ancora Galloni, «avevano portato l’Italia in una posizione di collaborazione con la Nato, ma contemporaneamente a sostenere una linea di autonomia del nostro Paese rispetto al regime occidentale. Una politica che in un primo momento fu portata avanti da Mattei e altri per arrivare ad una collaborazione con i paesi del Medio Oriente e, soprattutto, di pacificazione tra Israele e Palestina. Queste sono le linee sulle quali poi si sono battuti in Italia Moro, Fanfani e lo stesso Andreotti e da cui nacquero le ostilità degli Stati Uniti».

Gli americani non si fidano più. E Galloni spiega anche questo: «Nel 1974, il presidente Ford e Kissinger (allora ministro degli esteri e capo della Cia) convocarono a Washington il nostro presidente della Repubblica, che era Giovanni Leone e il ministro degli Esteri, Moro. Gli americani erano preoccupati per le frasi di Aldo Moro, quando, dopo il referendum sul divorzio, iniziò a parlare dell’attenzione che si doveva rivolgere al partito comunista. Ad un certo momento della riunione Kissinger chiamò Moro e gli disse chiaramente che se continuava su quella linea ne avrebbe avuto delle conseguenze gravissime sul piano personale».
Una scoperta recente: «Di questa minaccia di morte siamo venuti a conoscenza in modo più dettagliato solo pochi anni fa. Oggi sappiamo che le dichiarazioni rese successivamente dai brigatisti “noi siamo gli unici responsabili del rapimento Moro” non rispondono a verità e siamo in grado di smentirle».

Ecco gli elementi forniti da Galloni a sostegno di questa: «Primo, non tutti i partecipanti all’operazione militare del 16 marzo 1978 erano delle Brigate rosse. Alcuni di loro, che non si sono mai voluti scoprire, non erano terroristi.
Dall’accertamento sui colpi esplosi in via Fani risulta che non c’erano tra le Br uomini così esperti nell’uso delle armi, perché i cinque uomini della scorta di Moro sono stati tutti uccisi da due sole armi, utilizzate da uomini eccezionalmente esperti e che si suppone fossero stati richiamati da Catania e dalla mafia calabrese. I nomi di queste due persone non sono mai stati fatte. C’è poi una mia frase, una cosa che ho sempre detto senza ottenere mai attenzione, su alcune confidenze che Moro mi fece alcuni mesi prima di essere catturato. Mi disse che era preoccupato perché riteneva che i servizi segreti degli Stati uniti e di Israele avessero degli infiltrati nelle Br e se questi infiltrati ci avessero dato degli elementi avremmo potuto scoprire facilmente i covi delle Br».
«Adesso ho la certezza che questa stessa cosa Moro la riferì all’ambasciatore italiano a Washington, il quale si mise in contatto con la Segreteria di Stato americana ricevendo un netto diniego, anzi un diniego ambiguo: “Non è vero, tutto quello che sappiamo o abbiamo saputo lo abbiamo sempre riferito ai servizi segreti italiani”».
«Quali servizi segreti?», si chiede oggi Galloni, «quelli veri o quelli, invece, che erano in mano loro?».
Altro elemento: «Durante la prigionia di Moro, attorno al 20 aprile, un ex capo dei servizi segreti italiani, un certo Miceli (il generale passato poi nelle file del Msi ndr) che era stato espulso dai servizi segreti perché compromesso nel colpo di Stato di Borghese, parte in missione segreta e va a Washington dove prende contatti con i più alti esponenti della Cia. Dopo di che si forma la mentalità che Moro era riuscito ad ottenere dalle Br di essere liberato. Lo dicono anche le ultime dichiarazioni dello stesso Moro in quel rapporto che fu poi trovato dove lui afferma: “Devo, più che alla Democrazia cristiana che non è voluta intervenire nelle trattative, alla benevolenza delle Brigate rosse che mi hanno liberato”».

Ma nasce un dubbio sollevato ancora oggi da Galloni: «Che per intervento della Cia gli americani avessero deciso di liberare Aldo Moro, ma che questa operazione non andò in porto. Infatti, Moro, fu solo illuso che lo avrebbero liberato: una volta messo in macchina è stato ucciso».