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Guido Rossa un eroe normale
21/01/2009 - Il Secolo XIX - plebe@ilsecoloxix.it
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Guido Rossa un eroe normale

IL 24 GENNAIO del 1979 una ragazza di sedici anni scende lungo via Fracchia a Genova, nel popolare quartiere di Oregina, per andare a scuola. Passa accanto a una fila di auto parcheggiate lungo il muro. C’è anche una Fiat 850 di colore rosso, con un uomo dentro, riverso sul sedile: è stato ucciso da un commando delle Brigate Rosse. La studentessa non fa caso a quella vettura, cammina di buon passo. Una volta arrivata a scuola, le racconteranno la tragica verità. Quell’uomo è Guido Rossa, 44 anni, operaio dell’Italsider, sindacalista della Fiom-Cgil, comunista. Quella ragazza è Sabina, sua figlia, che oggi siede in Parlamento per il Partito democratico.

Da allora, chissà quante volte Sabina ha rivissuto con gli occhi della mente il giorno che ha cambiato la sua vita e quella di tante altre persone. Lo ha fatto anche per rispondere alle domande che gli studenti le pongono quando viene invitata nelle scuole a raccontare che cos’erano gli anni di piombo, chi era e cosa ha fatto suo padre. Guido Rossa venne ucciso, alle 6.35 mentre si stava recando al lavoro, perché aveva denunciato il “postino” delle Br all’interno della fabbrica, Francesco Berardi, e poi era andato a testimoniare contro di lui al processo in Corte d’Assise.

La commemorazione di Guido Rossa si è trasformata nel corso del tempo, Sabina lo ha avvertito in modo chiaro, netto: «Oggi non è più solo un momento di ricordo, è diventato qualcosa di importante per l’intera collettività, credo che abbia assunto un valore più generale, quello della lotta al terrorismo che si riflette nella difesa delle istituzioni democratiche e di tutti coloro che allora scelsero la via democratica e non risposero alla violenza con la violenza».

Gli inviti a portare la propria testimonianza arrivano a Sabina Rossa da tutta Italia, dalle grandi città ai paesi più sperduti, almeno una decina al mese. «Da una parte» riflette «mi rendo conto del forte impatto che è rimasto inalterato, intatto, a trent’anni di distanza, nei confronti del gesto che fece quest’uomo e nei confronti di quello lui ha significato e rappresentato». Ma c’è anche dell’altro, dietro al fatto di parlare di Guido Rossa nel 2009: «Mi viene da pensare che nei momenti di crisi della politica, nei frangenti di maggiore difficoltà, c’è un bisogno di ancorarsi a quei valori e a quei principi forti che vanno a riassumere un’intera identità».

La morte di Guido Rossa fu uno spartiacque nella lotta al terrorismo. L’uccisione di un operaio cambiò l’atteggiamento nei confronti dei brigatisti. «Per quella parte della classe operaia che poteva ancora provare qualche simpatia» dice Sabina Rossa «ha significato un netto cambio di posizione e di rifiuto assoluto di quella sirena. Sappiamo che il motto “Né con lo Stato né con le Brigate Rosse” ha avuto un forte peso in quegli anni negli ambienti della politica e del mondo intellettuale». Quell’assassinio provocò contraccolpi significativi anche all’interno dell’organizzazione terroristica, «causò scompiglio e dissidio interno». Il comportamento tenuto da Guido Rossa era connotato, sottolinea la figlia, anche da «lungimiranza politica»: «In un momento di forte ideologia, in un clima di paura, di continui caduti e ferimenti, non ha avuto momenti di indecisione anche rispetto a chi era su posizioni più “garantiste”. Mio padre non era un cane sciolto: credo che abbia identificato la volontà del partito comunista, dopo le sottovalutazioni iniziali, di fare terra bruciata intorno alle Brigate Rosse, non solo sul piano politico e culturale ma anche attraverso la collaborazione attiva con le forze di polizia e con quell’apparato di intelligence interna, come mi ha poi raccontato il senatore Lovrano Bisso, ovvero che mio padre aveva una sorta di compito, cioè monitorare l’azione propagandistica all’interno della fabbrica».

Il principio a cui Guido Rossa aveva improntato la sua vita, «la chiave della sua personalità», era il forte senso del dovere, in primo luogo verso se stesso: «Quando riteneva che una cosa giusta andasse fatta, la faceva, assumendosene anche i rischi e le possibili conseguenze, perché era chiaro a tutti, e credo ancora di più a lui, che cosa avrebbe comportato una simile azione di denuncia».

Nei trent’anni trascorsi da quel 24 gennaio, Sabina Rossa ha cercato per prima di sapere di più, di capire di più che cosa era accaduto, come e perché. «È una ricerca che ha portato sicuramente nuovi elementi di verità, nuovi scenari che prima non erano stati indagati a fondo. La mia affermazione che in quell’operazione ci siano stati due livelli di comando credo sia assolutamente consolidata: anche recentemente Valerio Morucci mi ha confermato che Riccardo Dura aveva l’idea di uccidere Guido Rossa, e più volte aveva avuto modo di esprimere questa sua posizione».

Su quegli anni così tragici per l’Italia, migliaia di pagine sono state scritte, vari film sono stati girati, ma c’è ancora molto che resta non detto. «Penso che oggi non ci sia più spazio per posizioni di omertà» dice Sabina Rossa «in cui si dice e non si dice, dove coloro che hanno vissuto quegli anni ti raccontano una parte e poi si fermano: per andare avanti, noi dobbiamo dare alle nuove generazioni gli strumenti per capire, dobbiamo raccontare veramente che cosa sono stati questi ultimi trent’anni di storia perché attraverso la memoria sia possibile superare il passato e dare basi solide per affrontare il futuro. Mi sento impegnata in questo compito».

plebe@ilsecoloxix.it (Il Secolo XIX, 21 gennaio 2009 )